Miriam Benanti - Poesie e Racconti

Oltre la gonna c’è di più

Virginia ha pensato che un insulto fosse innocuo, che la sua gonna lo facesse semplicemente ingelosire e ora che ha bisogno di parlare non c’è nessuno, perché li ha allontanati tutti per lui.

E nessuno tornerà, perché le persone non capiscono, non comprendono che il silenzio non è altro che una richiesta di aiuto, che a volte ci facciamo condizionare troppo, questo è sicuro, ma avremmo bisogno di qualcuno che ci strattoni, che si arrabbi con noi per come ci trattiamo.

Virginia ha vissuto nove anni di violenza, non solo fisica, perché la violenza è prima di tutto psicologica. Ha vissuto nove anni in un corpo che non sapeva fosse il suo, in un’anima morta ormai da tempo, nera, dannata. La cosa più divertente è che se ne è resa conto solo nove anni dopo, per andare a prendere le uova a lui, che a lei poi hanno sempre fatto schifo. Uscendo di casa ha visto una scena, due coppie, una di due anziani che con amore si baciavano e si tenevano per mano, dopo tutti quegli anni, mentre l’altra coppia, due giovani, nel bel mezzo della piazza litigavano. Lui urlava addosso alla ragazza perché aveva troppo trucco e i vestiti troppo corti, troppo scollati e lei non aveva il coraggio di dire una parola, non faceva altro che piangere, fino a quando un ceffone l’ha colpita in piena faccia. Nessuno attorno a loro ha avuto il coraggio di intromettersi, di dire che non era giusto, che non poteva fare così, che quello non è amore. Solo in quel momento, solo guardando la stessa situazione che Virginia ha vissuto, si è resa conto di quanto fosse sprofondata. 

Si era riconosciuta nel dolore di quella ragazza, aveva capito che ogni donna ha qualcosa in comune quando vive una violenza, che ogni donna condivide la stessa paura, lo stesso dolore, la stessa sottomissione. Virginia però non può più vivere con la consapevolezza di essere già morta, non riesce a sopportare tutto questo dolore, tutto questo buio, perché continua a camminare nel tunnel ma non vede la luce, e le tremano le gambe solo al pensiero di dover continuare.

Ma non può andarsene senza lasciare la sua esperienza a noi, donne, che passiamo i nostri giorni a parlarci male a vicenda, a essere invidiose l’una dell’altra. Siete tutte bellissime, tutte, siete così belle quanto fragili. E Virginia ci teneva a dirvi una cosa, donne. Trovate un uomo che vi stringa, che vi ami, che si prenda cura di voi, che amore vuol dire avere qualcosa in più nella propria vita, non essere private della felicità. Drogatevi di gioia e gridate al mondo intero, fino a perdere la voce, il male che avete subito, gli schiaffi che avete preso, vomitate rabbia addosso a chi non vi capisce, a chi dice che la colpa è la nostra se veniamo stuprate e picchiate, è la nostra perché abbiamo la gonna troppo corta, perché indossiamo il perizoma, perché ci permettiamo di mettere una maglietta scollata, perché risultiamo provocatorie. 

Virginia ci teneva a dirvi che la colpa è di chi non riesce a tenersi i pantaloni allacciati, perché noi non decidiamo di essere picchiate, perché le persone parlano senza sapere niente, che non hanno idea di cosa voglia dire camminare con la paura di essere inseguite, di non farsi belle per non rischiare di essere aggredite. E sapete cosa facciamo? Rimaniamo in silenzio, e moriamo dentro, pezzo dopo pezzo. 

Perché siamo nate con la concezione che essere una donna significhi avere qualcosa in meno, significhi dover faticare il doppio per ottenere ciò che vogliamo. Perché essere una donna oggi è complicato, bisogna essere forti. Ma non tutte riusciamo ad essere forti, e Virginia, come tante altre donne, troppe donne, ha creduto di potersi perdonare, si è illusa di poter amare l’inferno senza ustionarsi e ora si ritrova a raccogliere le ceneri della sua anima polverizzata.



Biografia del Ventunesimo secolo

 

Buonasera a tutti. Mi presento, sono la generazione del Ventunesimo secolo.

Mi riconoscete? Sono quella che ha smesso di credere nell’amore, che basa la sua vita su uno schermo e sul giudizio, quella che passa le giornate a scorrere il dito sulla vita degli altri mentre la sua piano piano svanisce. Adesso avete capito? Sono io, quella che ha smesso di seguire ideali e se li è creati, siamo quei dannati senza futuro che vedete girare senza meta, quelli che vivono giorno per giorno con la speranza di andare a dormire più sereni di ieri, che si illudono di poter fare il lavoro che amano per poi vedersi costretti ad affrontare la realtà, che non è quella che ci avete raccontato. Non è una di quelle storie con un bellissimo lieto fine, no, la realtà è un mondo che non vuole darci modo di respirare e fa di tutto pur di omologarci, pur di farci credere che non vi sono altre alternative se non quella di rassegnarsi e unirsi alla massa. Sono la generazione che salvaguardia il mondo, che prova a inquinare il meno possibile, non fate caso a tutte quelle cicche per terra, mi hanno sempre detto che i problemi sono altri.

Sono il secolo della modernità, dell’innovazione, sono l’era tecnologica.

Non fate quelle facce, signori miei. Sono il risultato di tutte quelle volte che avete fatto finta di non vedere niente, e avete preferito lasciare i vostri problemi ai vostri stessi figli. Mi dite che sono una generazione di falliti, ma non mi date mai l’opportunità di dimostrare il contrario. Mi dite che non so essere indipendente, ma non mi date modo di esserlo. Mi dite che non so fare altro che stare al telefono, ma quando vi parlo dei miei problemi mi rispondete che fanno parte dell’adolescenza. Mi incolpate di non essere nessuno nella vita, però quando vi parlo dei miei sogni mi date della pazza incosciente. Ricordatevi che una mente chiusa non può arrivare oltre le vostre quattro mura. 

Continuate a gridarci contro e puntarci il dito per una realtà che non abbiamo creato noi, vi siete impegnati così tanto per lasciarci questo mondo super innovativo, che vi siete dimenticati di insegnarci i valori su cui si basa una civiltà, e abbiamo dovuto trovarli da soli, per questo siamo così diversi, divisi in due, quelli coscienti di sé stessi e quelli lasciati a sé stessi. 

Per noi, però, il mondo è troppo grande per essere tutto bianco o nero. Il mondo è mille, milioni di sfumature e il tempo è troppo poco per così tanta vita.

Sono io, la generazione del Ventunesimo secolo, quella dei tormentati, degli abbandonati, dei cassetti che esplodono di sogni, così pieni da non aprirsi più. Sono la generazione che crede ai miracoli ma non se li aspetta, che prega Dio ma non ci crede, che deve mettere le toppe ma non sa come si cuce. Sono una generazione che non ha mai visto la guerra, ma che la vive, ogni giorno, dentro la propria mente.



Tramonto di cemento

 

Si intravede l’arancione nel lontano verde.

Uno stormo vola a zig e zag

Destra.

Sinistra.

Destra.

L’uomo si siede sull’albero sventolando la sapienza.

Vi è un buco all’interno del bosco.

Sorge il crepuscolo elettrico.

Vola un palloncino tutto solo.

Poof.

Cadono devastazioni.

Niente altro che palazzi vedo.



Fai il bravo, sennò pubblico!

 

Ci lamentiamo dei bambini, 

diciamo che non fanno altro che stare al telefono.

Ovviamente, lo diciamo con un bel post su Facebook.



Salvezza

 

Vago per la strada buia.

E tu,

sei il lampione che si accende,

ad ogni mio passo.



Stai con te, o stai con loro?

 

Ridi davanti a uno schermo,

ma la tua mente non vive,

non sente,

d’innanzi l’amore.

I tuoi occhi non credono a ciò che è più in là della realtà.

Sono spenti.

Le tue mani non spostano i veli della materialità,

la tua immaginazione si ferma.

Non puoi e non vuoi,

andare oltre.

Eppure, ti fermi a pensare.

Allora a che pensi? 

Se non alla vita?

Alla gioia?

A che pensi quando ti fermi a fissare il vuoto?

In cosa crede il tuo cuore?

E dove pensi che ti condurrà?

Lì, dove vanno tutti?

Allora, stai andando dove vuoi tu,

o dove vogliono loro?



L’essenziale

 

Sentire è molto.

Molto è poco.

Poco è niente.

Ma niente è tutto.



Cuori spenti

 

C’è bisogno che la gente si ricordi di vivere in una comunità. 

C’è bisogno di meno egoismo e più amore verso il prossimo. 

Quando vi scordate di vivere in un mondo popolato da milioni di persone che, come voi, hanno milioni di problemi, guardate un palazzo e contate le finestre con le luci accese. 

Se siete tristi, se vi sentite soli, fatelo. 

E sappiate che ognuna di quelle lampadine accese è una persona che, come voi, non riesce a fermare i propri pensieri. 

Non siamo soli, è che siamo troppo convinti del contrario.

Come quando guidi e non ti rendi conto di quello che stai facendo per quanto ti viene automatico, quando intorno a te ci sono centinaia di altre macchine con centinaia di persone che, come te, non si rendono conto di quello che fanno. 

Ci concentriamo così tanto sulla nostra realtà che il mondo intorno a noi svanisce, diventa un buco nero, quando la vita di ognuno di noi non è altro che un divenire di milioni di realtà diverse.

Se tutti spegnessimo la nostra lampadina, 

ci accorgeremmo di essere sotto lo stesso cielo.



La paura vien di notte

 

Questa notte l’ho sentita come ogni notte.

Viene da me, pretende di essere ascoltata.

Questa notte l’ho sentita più del solito, mi tremavano le gambe, le braccia, il cuore, l’anima.

È questo che fa la paura, si presenta nei tuoi pensieri, senza nemmeno darti un motivo per ascoltarla, ti spoglia da ogni incertezza, da tutte le ambizioni.

Devo essere abbastanza forte da non darle ascolto, ma non ci riesco, o nemmeno ci provo. 

Ogni volta mi illudo di poterla respingere, ma lei è più forte di me.

Inizia a urlare che è mia amica, poi ride, divertendosi delle mie incomprensioni.

Dopo sta zitta per minuti che sembrano giorni, aspettando che io impazzisca, un silenzio insopportabile.

Ma no, non gliela do vinta.

Sto zitta anch’io, si crea una melodia quasi bellissima, ma allo stesso tempo terrificante.

Urla ancora, non sopporta quando le tengo testa.

Dice che è qua per un motivo, che non vuole farmi del male.

Io però proprio non le credo, allora le domando:

«Come può una cosa, distruggerti, e aiutarti?»

Lei ride, irritandomi ancora di più. 

E mi risponde che questa è la vita, che un momento felice è il frutto di un brutto periodo superato, che non esiste felicità senza dolore.

«La felicità è una conseguenza!»,

afferma con tono arrabbiato.

Io chiudo gli occhi e faccio finta che non ci sia.

Lei si sdraia accanto a me, fissandomi tutta la notte, a volte mi stringe anche la mano.

E se ne sta lì, in silenzio, a guardarmi mentre mi addormento.

Poi apro gli occhi, è mattina.

Il sole è pronto a illuminare il mondo.

La paura è andata via, non c’è mai quando mi sveglio.

C’è un biglietto sul comodino.

«Io non riesco a sopportare il giorno, ne ho paura, non sono come te. 

Tu, puoi scegliere di brillare.»



Anguillara Sabazia: prova a non perdere il fiato

 

Ogni volta che sento il rumore delle onde che si infrangono dolcemente sulla riva, la mia mente mi riporta al molo di Anguillara Sabazia, e inizio a ricordare. Ricordo il silenzio che accompagna quelle piccole onde nelle giornate invernali, capaci di cullarti l’anima. Perché Anguillara fa così: ti guarisce lo spirito. Da piccola le feci una promessa: «Ogni volta che sarò giù di morale, verrò a trovarti al tramonto.» Poi quella promessa è diventata un appuntamento fisso, soprattutto in autunno, quando il sole si poggia sul lago e il cielo si tinge di rosso, quasi come se fosse imbarazzato dinanzi a tanto splendore. A due passi da quella tavola blu c’è il paese, che si specchia ogni giorno nel lago, a vederlo sembra un dipinto.

Ogni volta che ho il fiatone mi vengono in mente le passeggiate per quei vicoli, tutte scale e salite che portano in cima. Qui si trova La Collegiata, la chiesa più importante di Anguillara, da dove ci si può affacciare vedendo tutto il molo, accompagnato da una passeggiata che va a formare un angolo retto. Quando vedo il sole sorgere mi vengono in mente i pescatori, e i colori dell’alba mi riportano ai carnevali di quando ero bambina, con i carri dai mille colori in una piazza piena di gente che balla e ride, ed è bello sapere che dopo venti anni è ancora così. Quando mi affaccio a un balcone penso alle famiglie che vivono nel centro storico da generazioni, e, come ogni paese degno di chiamarsi così, ricordo gli anziani che al minimo suono di voce si affacciavano al balcone per darti il buongiorno, e quando avevano l’impressione di conoscerti chiedevano puntualmente: «Di chi sei figlio tu?»      Ricordo gli odori che sentivo venire da tutte quelle cucine e mischiarsi, creando aromi meravigliosi, mi facevano venire voglia di andare a pranzo da nonna; ricordo le sagre di paese di ogni estate, quanto impegno si metteva per far sì che tutti fossero contenti e quanto ne andavano fieri gli Anguillarini di quelle sagre, sacre tradizioni popolari, con il molo illuminato da quei pochi lampioni e le tante bancarelle. Ricordo quanto giocavo da bambina, tutte le partite a pallone, di quanto mi piaceva correre a piedi nudi sulla spiaggia, libera, senza pensieri, con i raggi del sole che mi accarezzavano la pelle. Ricordo di quando guardavo il lago, circondato da altri paesini e tante colline collegati da un’unica strada, mi sembrava che dopo non ci fosse nient’altro, solo quel piccolo paradiso. Ricordo l’odore della pioggia sull’asfalto bagnato nei primi giorni caldi e il profumo dei fiori quando la primavera bussava alla porta, ricordo il canto degli uccellini che mi svegliava tutte le mattine e mi faceva sentire come se fossi dentro una fiaba. 

Anguillara mi ha lasciato un dono prezioso, evitando di farmi perdere quella parte dell’uomo indispensabile per potersi sentire tutt’uno con il mondo: mi ha insegnato ad amare e rispettare la natura e tutti i suoi esseri viventi. Mi ha insegnato che la bellezza sta davvero nelle piccole cose, che basta un attimo, basta guardarsi intorno per riassaporare la felicità. Mi ha insegnato ad amare le stelle e ad ammirare il lago vedendo sparire tutto ciò che lo circonda nel buio della notte, per poi tornare il mattino dopo, ricordandomi che anche se ci sono momenti nella vita in cui vedo tutto nero, e mi sembra come se non ci fosse niente intorno a me, il mattino dopo, quando aprirò gli occhi, il sole sarà tornato a splendere. Ho imparato camminando per quei vicoli, con il fiatone e la stanchezza di chi non riesce più ad andare avanti, che per quanto dura è la salita, una volta arrivata in cima, ciò che ho lasciato dietro di me non varrà niente in confronto a ciò che ho davanti, potendo guardare tutta la strada che ho fatto da una nuova prospettiva, perché ogni cosa vista dall’alto diventa più bella.                                                                             Quel paesaggio in cima alla collina mi fa apprezzare tutte le volte in cui mi sono fermata per riprendere fiato, capendo che va bene cadere e disperarsi, delle volte, quello che conta è non arrendersi mai, per poter dire: «Ne è valsa la pena.»

Io sono cresciuta passeggiando per Anguillara Sabazia, e ad ogni mio passo crescevo sempre un po’ di più, fino a diventare una piccola donna che, comunque, quando vede il cielo tinto di rosso mentre il sole sta andando via, torna quella bambina che correva a piedi nudi sulla spiaggia senza pensieri, accarezzata dai raggi del sole e cullata dal suono delle onde.