Morena Finessi - Poesie e Racconti

Contenuto altamente fragile

 

Lievemente

e solo con lo sguardo

ti accarezzo

Sono piuma leggera

che ti sfiora appena

Un soffio

di talco profumato

che si posa…

Non far nulla tu

che non sia sorridermi

Se soltanto

mi abbracciassi

non resterebbe di me

che un trastullo

prediletto

di questa brezza


ErranteMente

 

Salpo con la mente, mio logoro natante,

seguo una rotta di speranza

nell’immenso mare

del quale più non temo l’abisso,

ne’ i mostri infrattati,

ormai ammansiti negli incubi passati.

Un alito nuovo e fragrante gonfia le vele

e muove

fin dove l’onda s’infrange sulle nubi,

solco celeste che inghiotte naviganti

così sottratti ai remoti sguardi.

Tra flutti ignoti abbandono prudenti spazi,

più non mi volgo a scrutare certezze,

solo m’importa veleggiare

cinta d’azzurro nella fluida quiete.  

Un moto seducente m’incanta,

impresso resta a farsi raccontare,

s’insinua con occhi chiusi al mondo,

ma con il cuore e i sensi spalancati.

Ora posso balzi, volute aggraziate

tra stormi d’uccelli increduli

di scorgere invasa la dimora del vento.

Fruscii d’ali e la risacca frangono il silenzio,

oltre il confine del pensiero

sta un dominio di pace,

privo di stupore e imperio. Vi approdo…



Forzaotto

 

Ti voglio picchiare

colpire

far male.

Sono la furia del mare

l’onda impazzita

mostruosa

sollevata dal vento in piena burrasca.

Ti voglio travolgere

sbattere contro la roccia tagliente

ferirti le mani

se provi a protenderle in cerca di appigli.

Annientarti la forza

mutare in paura quel ciglio spavaldo

vederti annaspare cercando respiro

tra i marosi impietosi e la forte risacca.

Ti voglio guardare dall’alto di un trono

provare piacere nel darti dolore

finché quasi morto

aneli il mio sguardo

com’era

quand’era

ricolmo d’amore



Frantumi

 

Lasciandosi cadere

ha frantumato finanche le ossa

spargendosi in pezzi disordinati.

L’indifferenza impudica

arresa al dolore secolare

lascia inerte il primordiale istinto

nulla persuade

a ricomporre un poco la figura

per mitigar lo strazio

offerto a chi guarda, fruga,

o fugge inorridito.

Forse

l’impietoso calcio di un viandante spedito

ha spalancato un occhio ruzzolato,

boccone ambito d’avvoltoio

e dall’incontro di quel piglio,

assediato dall’ombra di perverse spire,

fatalmente

è sfociato un terrore generoso

che per sua grazia,

raccattando adagio i propri resti,

ha sospinto ancora  

ciò che resta

di un brandello di esistenza



Implosione

 

Degli occhi insani sul sorriso bieco

avverto il sopraggiungere.

Il sangue cessa il suo fluire

i muscoli rattrappiscono.

L’intera materia perisce

risucchiata nell’antro dell’attesa.

Ammutolita

resto a denigrarmi

appiattita alla gelida pietra.

 

I sensi, quelli soltanto, espansi

dilatati come gli occhi atterriti

scorgono sin l’atomo

intendono il cosmico palpito

l’un l’altro abbracciati all’unica difesa:

il nulla

che trangugia ogni bisogno

sino a scordare lo scopo del respiro.



Notte d’inverno

 

Ed ecco la notte,

annunciata da un arcano silenzio

e dallo spirito greve

che stende la sua mano infinita.

Profili ignoti assumono le abituali forme

mentre inconsapevoli pensieri,

aprendo varchi dentro l’anima,

inducono movenze illanguidite

così da non turbare fiacchite nubi,

aloni smunti di un giorno consumato.

Ambita e dolce la notte può svelarsi

senza timore a scivolarle arresi,

grata ai sensi, amabile compagna,

schiude la soglia di un mondo inatteso

pervaso di brama e sogni taciuti.

Una debole luce dai lampioni

si infrange sull’intorno

e dà chiarore a una nebbiolina fine,

vitale anelito di una terra inerte,

intorpidita

nel grigio e freddo abito d’inverno.

Evanescenti e vacui

emergono i nudi rami

come a sembrare braccia

verso il cielo protese ad evocare

il compimento di tanto attesi desideri



Limiti

 

In questa luce

debole

come il mio volere

lascio scivolare

ogni ragione.

L’anima mi saluta

per esplorare i  mondi.

Le lascio tendere

all’infinito

il filo che ci unisce

come una madre,

una sposa benevola,

donna assuefatta

all’attesa.

Ritornerà

rifocillata di quel che

da me sola

non so offrire



Ho sognato un bacio

 

In un cielo privo di contorni e d’importanza

ove può aggirarsi l’anima soltanto

egli inseguiva eterei tragitti.

Come prodiga sorpresa, appariva inatteso

nell’istante in cui, con pretesto già dimenticato

mi afferrava vacillante.

 

Difesa da fortuita minaccia

l’alito suo pacato e muto quietava confusi palpiti

donandomi rifugio tra braccia ospitali e sicure.

Eccolo allora

con gesto eterno, sollevarmi il volto

e baciarmi le labbra in un riverso intenso

di intima grazia, armonia

e incomparabile dolcezza



Endorfine (alla musica)

 

Entra melodiosa vibrazione

e rendimi romantica,

perdutamente dolce ed arrendevole

come nell’istante

in cui si sfiorano le labbra innamorate.

Espandi il tuo crescendo in ogni vuoto

e infondimi di generosa forza

quanta ne sprigiona

l’appassionato abbraccio degli amanti.

Cadenza il battito obbediente del mio cuore

e accendimi

di voglia di danzare e roteare.

Gioca col mio pianto e le mie risa

rendimi libera da turbe logoranti.

Eterna, cortese incantatrice

risuona nel mio essere

che docile, è sensibile strumento.

Culla tra note voluttuose il mio abbandono

Al solo tuo potere offro, sicura,

i miei sensi vulnerabili



DueVolteDietro

(RaccontoMemoria)

 

Sebbene la mia nonna non abbia mai fatto mistero dei disagi attraversati, non ho mai avuto da lei l’esplicita conferma della sua vita trascorsa in sofferenza.          

Sì, sofferenza, poiché questo è ciò che ho sempre percepito fin da quando ero bambina. Le traspariva dagli occhi verdi e chiari, così chiari e lucidi che parevano contenere una persistente lacrima, pronta a scendere ogni volta che un sospiro profondo le accompagnava l’abbassarsi lento delle palpebre.

Traspariva dal suo incedere, dal rigore dei suoi gesti nell’impegno di doversi guadagnare la stanchezza della sera per potersi infine coricare. Una sofferenza interiore e muta, allenata, ma in qualche modo accettata e dignitosa.

 

Le mie domande sul suo passato scaturivano dalla curiosità di conoscere cosa stava dietro a tanta riservatezza, dietro a quella lacrima trattenuta, e prendevano un largo giro concentrico, come quando, giocando a indovinare l’oggetto misterioso, s’inizia a chiedere con che lettera comincia, di che colore è, se ha un sapore, un odore… fino a scoprire di che cosa si tratta. Lei mi accontentava narrando in modo cronistico fatti ed episodi, sorvolando accortamente tutto ciò che poteva diventare appiglio d’emozione, occasione per rivangare un passato che avrebbe volentieri dimenticato. Ed era proprio lì, in quei passaggi sbrigativi che intuivo ciò di cui infine non chiedevo conferma, assalita dal timore di ferirla, dall’impressione di metterle il dito nella piaga.

 

La nonna non parlava che di cose pratiche, si rifugiava nella concretezza delle sue azioni quotidiane: rigovernare casa, lavare, stirare, cucinare, accudire ai meravigliosi fiori del suo giardino con capace dedizione, come fossero l’unica sua vera appartenenza. Andava orgogliosa dei suoi fiori e anch’io, rammento, mi gongolavo con lei dei commenti delle vicine di casa; le chiedevano quale segreto conoscesse per farli crescere così belli e rigogliosi, come le venivano in mente certi accostamenti di colori e forme che rendevano quel suo giardino il più ammirato di tutti. “Sarà che li accudisco tutti i giorni” la sentivo rispondere modestamente.

Mai una volta l’ho udita lamentarsi o quantomeno raccontare di come si sentisse. Qualunque stato d’animo avesse provato, pareva essere completamente priva del diritto di poterselo riconoscere.

Non ho memoria di averla mai udita ridere, l’ho vista al massimo sorridere… e due erano i suoi tipi di sorriso: uno di compiacenza che offriva alle circostanze, l’altro era il mio, quello che mi riservava insieme alla sua espressione d’amore e di dolcezza.

 

Dall’insieme dei racconti carpiti personalmente, poi in seguito arricchiti di particolari da mia madre e da sua sorella, la mia zia, è facile dedurre come la nonna abbia trascorso una vita intera in schiavitù.

Schiava dei suoi stessi concetti di vita, condizionamenti feroci impressi dalla famiglia e dall’epoca, ai quali, imperterrita e, credo, senza mai porsi domande, ha obbedito per tutta la vita.

Schiava delle poche risorse materiali e culturali dalle quali attingere le energie per migliorarsi, schiava della fatica di dover lavorare la terra e di mandare avanti completamente sola l’impegno della famiglia e infine schiava dell’uomo che sposò.

 

Nata ai primi del ‘900, con due guerre nel bagaglio dei ricordi, non costituisce certo un’eccezione tra i numerosi anziani di cui conosco le sorti, vi sono donne della sua età, anch’esse con un passato spiacevole da ricordare e consapevoli di essere vicine ad avere ormai concluso il loro passaggio su questa terra, i cui occhi non esprimono l’infelicità e rassegnazione che leggo nei suoi.

 

La nonna caricò presto le sue giovani spalle di responsabilità. Poiché femmina e, a causa delle difficoltà che la sua famiglia attraversava, le fu negata la scuola. Correvano gli anni della prima guerra mondiale, il bisnonno era stato chiamato alle armi e il sesto anno di vita della nonna, anziché vederla comparire sui banchi, la vide far da balia al fratello più piccolo e, di lì a poco, dopo il ritorno del bisnonno dalla guerra, accudì altri quattro fratelli, passando da uno stato di mamma-sorella a un altro di madre effettiva in età giovanissima: diciotto anni.

 

Ha avuto a sua volta quattro figli (la primogenita morì di pertosse all’età di 18 mesi) e tanti aborti, quanti lei stessa, nella consueta solitudine e clandestinità, decise di sottoporsi per non accrescere il numero delle bocche da sfamare oltre il limite a cui era possibile far fronte, nella convinzione che almeno quelli che erano al mondo dovevano avere una vita dignitosa, migliore della sua.

A suo modo, questo è stato il gesto d’amore dedicato ai suoi figli, cresciuti tra celate sofferenze e tanto sudore, ma autorizzati ad esprimere la loro vitalità e leggerezza come se la loro allegria fosse la sua finale ricompensa.

Con la naturalezza dei semplici di cuore e senza bisogno di parole la nonna ha tuttavia saputo trasferire a loro tutto l’affetto che poteva, attraverso la sua indulgenza e sottraendoli il più tardi possibile dalla spensieratezza della giovinezza.

 

Il nonno, instancabile lavoratore, ha avuto questo pregio e nient’altro.

I suoi dettami di uomo e maschio gli intimavano il dovere di lavorare sodo per la propria famiglia, dopodiché non vi era per lui altro dovere da assolvere.

Egli si distingueva dai tanti poveri contadini con sette, otto, nove figli, che da sempre lavoravano le terre della bassa pianura ferrarese, giacché possedeva un “mestiere”, imparato fin da bambino andando a bottega. Faceva il falegname, cosicché, come esperto di attrezzi e misure, esercitato a relazionarsi con il prossimo, ebbe la fortuna di approdare in quel mondo dove, all’epoca, l’industria faceva il proprio ingresso, evento straordinario dal punto di vista corrente nelle campagne di quei luoghi.

 

Andava quindi a lavorare in città, a Ferrara, restando lontano dalla famiglia tutta la settimana e rientrando la domenica. La domenica però lo aspettava il suo capanno: una bicocca di legno di fianco alla casa, adibita a suo laboratorio. Qui il nonno trasformava ogni sorta di materiale di fortuna in qualcosa di utile per se’, per la casa o per chiunque ricorresse a lui e alla sua abilità.

Ed era abile davvero ed estroso e ingegnoso e apprezzato.

Se solo a quel tempo ne avesse avuta cognizione, nei giorni nostri sarebbe il riconosciuto inventore di molteplici dispositivi e accessori d’indiscussa necessità, poiché sapeva costruire ciò che serviva e ancora non esisteva…come ad esempio lo stendibiancheria “richiudibile” a quel tempo ricavato con una intelaiatura in legno e corda, sfruttando l’idea di un modello di sgabello pieghevole, in legno e tela, che ai quei tempi alloggiava in quasi tutte le case.

 

Era impossibile vedere il nonno senza uno strumento di lavoro tra le mani, lui stesso ne era completamente affascinato.

Martelli, chiodi, pinze, tenaglie, chiavi, viti, cacciaviti di ogni sorta, pialle, lime, raspe, seghe da legno, da ferro, fil di ferro, morse, punteruoli… ognuno collocato in ordine perfetto, armoniosamente allineato per varietà, uso o dimensione su di una bacheca di legno da lui appositamente costruita. Anche un cieco avrebbe trovato lo strumento giusto al primo colpo, tanto era precisa e maniacale la loro disposizione. L’acquisto di un nuovo attrezzo, specialmente se innovativo, rappresentava un avvenimento da raccontare, a parenti e amici, persino alla nonna, persino a me… e se ne allontanava soltanto per mangiare e dormire.

 

Il suo innegabile ingegno forse contribuì ad accentuare il divario già esistente tra lui e la nonna. All’inizio si trattava soltanto di una supremazia dell’uomo sulla donna, del marito sulla moglie; in seguito, l’accresciuta opinione di se stesso, derivata dall’essere partecipe dei problemi sociali e politici che incontrava grazie alla sua posizione lavorativa, rispetto alla massa di contadini che gli gravitavano intorno (tra i quali sua moglie), aumentò la scarsa considerazione nei confronti della nonna, come potrebbe fare un intellettuale arrogante verso una morigerata, arrendevole e timida spigolatrice.

 

In verità la nonna ha sempre amato molto quell’uomo in cui lei per prima riconosceva un’intelligenza e un’intraprendenza al di fuori dei modelli da lei conosciuti e, il fatto che comunque lavorasse sodo e mettesse a disposizione della famiglia l’intero salario, era quanto bastava per perdonargli la sua impenitente infedeltà, il suo scarso interesse verso l’educazione dei figli, il suo disdegno e insensibilità verso i suoi sentimenti.

 

Tuttora la nonna pensa che il dovere di un buon marito sia di provvedere al mantenimento della famiglia, scambiando questo dato di fatto come un atto d’amore, l’unico da lei ricevuto, tanto da non finire mai di meravigliarsi se la figura attuale del marito-padre, oggi,  lava i piatti e soffia il naso al suo bambino.

 

Nessuno ha memoria di avere visto il nonno spostare un piatto o prestare un qualsiasi aiuto casalingo.

Il rito della doccia vedeva la nonna attenta al comando del nonno per correre a cospargergli di borotalco la schiena dove lui con le braccia non arrivava, poi seguiva l’andirivieni dalla stanza da letto per porgergli gli abiti puliti che lui non gradiva già pronti sulla cassettiera del bagno perché s’inumidivano, infine vi era l’asciugatura del bagnato che lui procurava in quantità e noncuranza.

Il profumo di un buon cibo sempre caldo come a lui piaceva, (nonostante i suoi ritardi a tavola), il bicchiere preferito a foggia di boccale, il coltellino affilato col manico di legno adatto a pelare la mela, erano sempre pronti a contorno del  piatto del nonno ed erano solo alcune tra le tante assodate attenzioni che gli erano dovute.

 

Talvolta mi sono sorpresa a pensare, senza riuscire a immaginare, a come potesse essere il loro approccio, soprattutto lo stato d’animo della nonna, in quel livello infinitamente più profondo, delicato e intimo in cui si colloca lo scambio sessuale di una coppia cosiffatta.

Ma non ho mai voluto veramente soddisfare una tale curiosità, per timore di scoprire ulteriore, sconfinata sofferenza, poiché sono certa che la mancanza di rispetto che giunge ad essere manifesta, non conosca riguardo laddove nessuno vi si può addentrare.

 

La nonna non si guadagnò la maggiore considerazione di suo marito nemmeno quando, nei primi anni dell’avvento televisivo imparò a leggere, scrivere e far di conto seguendo il programma “Non è mai troppo tardi” condotto dal Maestro Alberto Manzi, il quale, davanti alla telecamera, impartiva lezioni di scuola elementare a quanti, in quegli anni, si trovavano in condizione di analfabetismo.

 

E d’improvviso ora mi appare chiaro anche quell’amore particolare rivolto ai “suoi” fiori, unico squisito e personale contesto in cui trovava diletto anziché dovere. Unico spazio vitale dedicato a se stessa.

Unica parentesi in cui il nonno non aveva alcuna influenza. Unico angolo in cui l’intendimento non subiva condizionamenti. Unica espressione creativa della nonna.

 

Ancora oggi stanno insieme, indissolubilmente legati e necessari l’una all’altro, come il carcerato al suo carceriere.

90 e 93 anni, una vecchia coppia che ha festeggiato le nozze d’argento, poi quelle d’oro, circondata da figli e nipoti in festa, come qualunque altra vecchia coppia che ha saputo spartire le gioie e i dolori di una vita, ma quel mondo sommerso che riguarda la loro intimità è tuttora visibile negli occhi mesti della nonna, che si abbassano ancora quando il nonno, brandendo l’inseparabile cacciavite come fosse lo scettro che decreta la sua supremazia, le intima di tacere perché è ignorante e non capisce niente.

 

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