Canto di pioggia
Una lunga stagione di pioggia saluta
l’intreccio delle nostre
dita.
Non più acqua scura, che macchia la
mia pelle, ma canto d’ombra
che nutre il mio sangue.
Non più radici avverse
stringono il mio ventre, ma un
pallido orizzonte nuovo scorre
nei tuoi occhi.
Così respiro ancora, e tremo ancora,
mentre accarezzo la terra bagnata;
Straniero in terra straniera,
questo, il grido unico del
mio ricordo;
singolo in terra di molti,
la voce antica del
mio futuro.
Il mio corpo magro e scuro cerca
il bianco della tua pelle.
Il cipresso
Obelisco frondoso muto e
assorto, osservi la fitta
trama d’ombre dipinta
dal crepuscolo
Immobile tutto attorno
giace il mondo,
la torre, l’uomo.
Affanni incompleti ed arditi
passi, mutano in pure
gocce di pioggia sulle
tue cime venate;
Adesso,
che lo stormo nero
nidifica nel tuo
ventre silvano.
Batte sempre più forte, il
mio cuore,
dischiudendo nuovi ed antichi
segreti tra le tue radici.
Veglia
Trafigge il vetro questa
lama di luce notturna,
mentre il mio corpo irrequieto
arde d’ombra.
Trafigge il mio cuore questa
dolce litania del vento,
dischiudendo ad ogni battito
nuovi ed antichi segreti.
Così, avvolto in spire
di impenetrabile torpore e
non sacrificato, non ancora,
ai bruni coaguli di membra,
Io, in silenzio, piango.
Dove siete? Dove siete?
Più non v’odo, né tra le
Strade, né tra le labbra degli
alberi.
No.
Solo il serpeggiare della peste
tra gli uomini, tra i figli d’uomo,
tra le
mani d’uomo. Esso solo è il
canto
che giunge ai miei occhi
grigi.
Ma nell’infinita vacuità del
mondo, senza patria è l’amore
che lacera la mia anima;
il miele più dolce ch’io possa
stillare.
Ma nella danza sacra della
pioggia
tanto oscuro è il male che
mi invade le vene;
grido e nessuno viene.
Il re pallido
Inginocchiati con me
sotto questo altare rosso;
Inginocchiati con me,
e incoronami del mio supplizio
spinato, con la carne trafitta
mentre il coro s’innalza.
Sussurra le torbide vestigia
a questo volto scarlatto
mentre ti stringi più forte
più forte, più forte.
Più alcuna goccia
della tua luce,
di ciò che vedi,
più alcuna goccia nutre queste
ali fragili.
Ora danzano le mie
labbra in tremula
preghiera, e freme
questa terra bastarda
sotto al mio
corpo.
Mi volto incatenato e compiango, il sole che mi
fu negato allora.
E s’agitano ancora questi corpi
di vetro, ignari del buio
che avanza nel cielo.
Narrami
Narrami,
degli adoratori del
sole, e delle forme
sterili che in croci
di cenere hanno impresso
sulla tua fronte.
Narrami di tutto ciò,
affinché anche io possa
mostrarti le mie croci.
Torbide e più alte croci,
le mie; eppur figlie
della stessa mano.
Come l’aratro solca la
terra, così la loro mano
solca i nostri cuori.
Te le mostrerò,
come si mostra ad un bimbo
la prima aurora.
Croci d’aurora mentre
attendiamo il fulgore
del tempo.
Narrami.
Breve epitome
Breve epitome del
cuore di Roma fiorisce
dalle labbra del cantastorie
ubriaco.
Egli non sa più dove andare.
Noi scappiamo, amandoci
tra le vene del buio
e le sue strade notturne,
ascoltando il vento che
si crocifigge alla
nostra porta.
È tempo di mutare;
Come la serpe,
come le stagioni del mondo.
L’inabissarsi del sole
porta il giubilo del
nostro domani.
La caccia
Mesto, in un’alba d’ebano
trafughi anfore d’ombra dal
tempio del sole.
Hai già forgiato i tuoi proiettili?
La caccia è aperta ed il grano
abbondante e maturo; là errabondo nei
campi scioglie il legislatore le sue
bende di sale.
E tu, con letizia, pesi
docile i grammi d’amore
elemosinati ai margini della via, linfa
d’ambra sulla bilancia del
biasimo e della lode.
Dove andrai a caccia?
Incessante si smuove il
tuo abito, scoprendo i tuoi quattro
cuori e i tuoi cinque pugnali
in petto.
Come camminare ancora,
ora che il pescatore geme di febbre, in
un mondo senza mari.
Entro dalla porta
Entro dalla porta. Lenta transumanza di cartilagini, muscoli e ossa (uomini) davanti al mio volto. Faccio un passo. L’aria è densa, vischiosa e sembra trasudare la stessa follia che mi avvilisce i polmoni. Ma non importa, cerco di non farci caso. Tento ripetutamente di ascoltare ciò che mi sta dicendo. Silenzio. Altro passo. Altro passo ancora. Lo vedo.
-È lui! È lui! Dio santo è lui!
-Zitto, zitto cazzo, lo riconosco anche da solo.
Il mondo è solo un caotico vorticare di bicchieri scintillanti, di membra tornite che scivolano sul piano cosmico dell’esistenza.
-Il lampadario è meraviglioso, non trovi?
-Sì, bellissimo.
Lui è sempre lì.
È brutto, brutto secondo ogni parametro estetico ed ogni parametro fisico che la civiltà possa mai aver impresso nelle nostre mente.
-Prendi un whisky, sembrerai più colto.
-Non riesco a berlo, lo sai, mi distrugge lo stomaco.
Parlo con quelli che mi accompagnano. Usciamo fuori. Ho perso il conto dei passi. Non ha nessuna importanza ormai. Forse non ne ha mai avuta.
Il pavimento è una gigantesca scacchiera pulsante, una sconfinata distesa di ragnatele. Noi siamo i ragni. Ragni attori.
-È Shakespeare.
-Zitto.
Vorrei sprofondare nel pavimento, in un sussurro impercettibile di tempo, lasciando che l’oscurità su cui è edificato questo posto mi sommerga la testa e invada le narici. Il pavimento è solido.
Fumo. Bevo. Altra boccata di fumo.
-Smetti di fumare.
-Non posso.
-Sei debole.
-Lo sono.
Il cielo adesso è una cupola opaca incrostata di stelle. Potrei osservare corpi già morti, immensi ammassi di materia fredda ed inerte, anch’essi sprofondati nella stessa oscurità che si annida sotto questo pavimento.
Ma non lo saprei. La loro luce giungerebbe egualmente ai miei occhi.
Luce fredda e mortuaria, luce di sfacelo e disgregazione cosmica, che si sfalda nella mia anima secondo le più tenui gradazioni dell’afflizione.
-È luce. L’oscurità è assenza di luce. Le stelle sono luce. Le stelle morte sono oscurità.
-Zitto.
Torno dentro.
Il ballo in maschera è vicino al suo zenit.
Credo di cogliere ogni sospiro, ogni bavoso, desolato movimento. Quelli non sono corpi, sono cumuli di macerie. Giganteschi e purulenti scheletri ricoperti di carne. La carne è appesa ai nostri corpi, a tutti i corpi, non può fuggire.
-Non può fuggire. La fuga è ammissione di colpa. La colpa è mancanza di innocenza.
-Non sono innocente.
-Non lo sei mai stato.
Lui è ancora là. I suoi occhi sono vitrei, dorati. Una spessa patina di luminoso dolore li riveste. Non sono occhi. Sono bombe incendiarie. Sono immensi incendi. Sono piaghe opalescenti aperte sul volto. Sono turpi abissi in cui si specchiano i pilastri del tempo. Sono occhi umani.
Dannatamente umani. Non ne sopporto la vista.
- Come potresti? Sono i tuoi occhi.
-Lo so.
La musica roboante mi dilania i timpani con il suo incessante martellare.
Una cacofonia dissennata di suoni che ostacola il mio pensiero, penetrandomi nella pelle e scavandosi un sentiero tra vene ed organi.
Scende più in basso, più a fondo. Adesso è ferma accanto al mio cuore. Il mio cuore batte infinitamente più lento.
-Il cuore è un muscolo volontario.
-Lo so, sarei già morto altrimenti.
Tutti ballano, seguendo inconsciamente il ritmo della musica.
Sto ballando. Sono bravo a ballare. Sono tutti ballerini. Danzatori della macabra danza della vita. Vittime rituali di uno scempio cosmologico.
Lui no.
Lui non balla.
Rimane immobile, muto nella sua lontanissima fortezza. È un profeta.
-Anche Gesù lo era. Anche Zarathustra. Anche Ezechiele.
Il tempo mi sgocciola addosso in grossi grumi disseccati.
Faccio un passo verso di lui. Non se ne accorge.
-Come potrebbe? Tu sei una stella morta. Le stelle morte non emanano luce.
Adesso la musica è più lontana, rarefatta, inaccessibile come il mondo che pervade. Io sono lontano. Il vorticare dei non-corpi, le voci, sono solo un ricordo diafano. Un alone sbiadito che indugia ai remoti confini della mia coscienza.
Muovo un altro passo in sua direzione.
La sua ombra rifulge una tetraggine antichissima, nera come la notte.
Il tempo è ormai fermo. Me ne accorgo. È tutto fermo, sospeso nel vuoto di una dimensione inaccessibile.
-Tu sei un peccatore. I peccatori non entrano in Paradiso. Io sono San Pietro. Siete tutti peccatori.
Non mi ascolto. Tutto sembra annegare nella stessa melliflua vacuità.
Continuo a guardarlo. Adesso sono sicuro che sia un profeta.
-I profeti vengono crocifissi.
-Zitto!
-I loro corpi martoriati.
-Zitto!
-I loro resti bruciati.
-Zitto!
Un miliardo di passi nella stessa pietra. Un miliardo di pietre nello stesso passo.
Io non creo, dipingo. La pittura è l’arte dell’orrore. È cristallizzazione di tumescenze e contorsioni febbrili. È canto di rivolta.
-Le rivolte vengono spezzate.
Altro passo. Adesso sta parlando.
-Ascolta.
Ascolto. Non riesco a sentirlo. Non saprei stabilire a quale distanza si trovi da me. Né se stia realmente parlando con me. Mi guardo attorno. Non c’è nessun altro a cui parlare. Ci sono solo io.
-Tu non esisti, non più.
Il suo sguardo rimane fisso. La bocca vomita un torrente di parole. Non parole ma frecce, che mi trafiggono le cellule con la loro verità.
Voglio piangere, ma persino la gravità sembra aver cancellato le tracce della propria esistenza. Senza gravità le lacrime non scendono.
Penso che cadrei al suolo ora, se solo ci fosse un suolo su cui cadere.
La sua figura mi sovrasta enormemente, accrescendo le sue dimensioni di secondo in secondo.
-Araldo dei mondi, messia delle steppe.
-Cazzate.
Il pensiero è immutabile nella forma, non nella natura.
Lui adesso è la realtà che mi sommerge, ed io nuoto al suo interno, scalciando, annaspando. Non so più cosa sono. Ogni parvenza di memoria e materia è annullata. Non c’è superficie. Non c’è fondo.
-Non si può respirare sott’acqua.
-Questa non è acqua.
-Cosa è allora?
-È male.
Un male eterno di pece, in cui lui è il solo dardeggiante e nerissimo sole.
Sto nuotando nel suo esatto epicentro, in questo fulcro irreale su cui si impernia l’epidermide stessa dell’universo.
- Il fulcro è l’asse di rotazione e il punto d’appoggio di una leva.
Silenzio.
Rumore.
Silenzio.
-Guarda.
Guardo. Li vedo distintamente ora. I profeti, gli sciamani, gli affabulatori.
Danzano in cerchia asserragliate, muovendosi leggiadri con cauti passi nel buio, volteggiando sugli innesti di dolore che trafiggono ogni atomo, ogni microscopica particella.
-L’uomo non è vittima ma carnefice. L’uomo non è agnello ma lupo.
Non capisco. Non voglio capire. Domando, ma non risponde. Domando ancora.
-Chiedere è lecito, rispondere è cortesia.
-Per cosa danzano?
-Per i loro idoli mutilati.
Idolatria di volti in un mare sterile. Sale sulla nuda terra lacerata.
-I romani cosparsero Cartagine di sale. Nulla cresce più.
Adesso so.
La parete ora è squarciata, e risucchia tutto al suo interno. In un impercettibile attimo, ogni cosa cessa di esistere, e l’attimo seguente, interi mondi ed esistenze si riallineano sull’asse.
Torno a respirare l’aria dolciastra della consapevolezza.
Il tempo torna a scorrere.
-Vai a fumare.
Esco dalla porta.
Lo Sciamano
Folle come la primavera negli
occhi d’un pazzo,
danza leggero tra gli scarni demoni
dell’abisso.
Risuona tremendo il suo passo, mentre
l’universo tradisce il suo rancore:
pioggia di stelle e comete
sul volto.
L’odio spira con fragore, ma nulla
egli teme;
Vedeste mai, oh uomini, la libera fiamma
inchinarsi al vento?
Il vecchio giudice obeso è giunto; sputa
sul tuo cuore, lo afferra e lo strappa.
Così muori! Così muori!
Nel freddo fiore malato germogliato dal
cemento,
stanno inchiodando la bestia alla parete.
Ora le strade si fan rosse, e vive,
e povere;
il tuo addio riverbera nel vuoto.
La nuova pelle
Nella fredda notte lunare,
madre affranta del fragoroso scalpitare dei sogni,
s’adagia docile la luce d’argento sui germogli
di ciliegio.
Scivola dal nero tronco nodoso, dalle tue braccia cinto,
un torrente di vetro, indomita forza d’ombra e opale
che intesse al suo passaggio, bianchissime fila di membra e
muta carne.
Risponde ancora il silenzio al tuo furore,
alle tue vene secche, alle tue labbra in fiamme;
Risponde ancora l’eterno giudice con gemiti
tremanti, sussurrando alla tua pelle
l’immobile verità di un’alba antica.
Così nel placido grembo terrestre discendi,
ad ogni passo d’intreccio di spine trafitto,
volgendo per un ultimo attimo il tuo volto
innocente al cielo cosparso di stelle e radici.
Alla sfilata affranta del tuo corpo
tra le buia vestigia della terra, s’accompagna il coro d’arpe finissime,
narrando agli avvizziti rami le storie che si
diramano sul tuo petto,
strade infrante nel grano a primavera.
Ma alle soglie della porta bruna
un bussar fragile odi;
È lo spezzarsi della catena e dei
mondi, cinti da diafane
corolle di fiori;
È lo spezzarsi delle voci, delle mura
e delle croci, che a nuova vita il desolato
germoglio imbeve, colui che tu ora saluti.
Immobile, al limitar dei cieli
sorge, un sorriso
al tendersi delle tue mani nella nebbia
altre mille dita s’uniscono ora in intrecci
ed il buio imprime, nel tuo cuore,
nuova luce fuggitiva.