Nico Franzoso - Poesie e Racconti

Canto di pioggia

 

Una lunga stagione di pioggia saluta

l’intreccio delle nostre

dita.

 

Non più acqua scura, che macchia la

mia pelle, ma canto d’ombra

che nutre il mio sangue.

 

Non più radici avverse

stringono il mio ventre, ma un

pallido orizzonte nuovo scorre

nei tuoi occhi.

 

Così respiro ancora, e tremo ancora,

mentre accarezzo la terra bagnata;

 

Straniero in terra straniera,

questo, il grido unico del

mio ricordo;

singolo in terra di molti,

la voce antica del

mio futuro.

 

Il mio corpo magro e scuro cerca

il bianco della tua pelle.



Il cipresso

 

Obelisco frondoso muto e

assorto, osservi la fitta

trama d’ombre dipinta

dal crepuscolo

 

Immobile tutto attorno

giace il mondo,

la torre, l’uomo.

 

Affanni incompleti ed arditi

passi, mutano in pure

gocce di pioggia sulle

tue cime venate;

Adesso,

che lo stormo nero

nidifica nel tuo

ventre silvano.

 

Batte sempre più forte, il

mio cuore,

dischiudendo nuovi ed antichi

segreti tra le tue radici.


 

Veglia

 

Trafigge il vetro questa

lama di luce notturna,

mentre il mio corpo irrequieto

arde d’ombra.

 

Trafigge il mio cuore questa 

dolce litania del vento,

dischiudendo ad ogni battito

nuovi ed antichi segreti.

 

Così, avvolto in spire 

di impenetrabile torpore e

non sacrificato, non ancora,

ai bruni coaguli di membra,

Io, in silenzio, piango.

 

Dove siete? Dove siete?

 

Più non v’odo, né tra le 

Strade, né tra le labbra degli

alberi.

No.

 

Solo il serpeggiare della peste

tra gli uomini, tra i figli d’uomo,

tra le

mani d’uomo. Esso solo è il

canto

che giunge ai miei occhi 

grigi.

 

Ma nell’infinita vacuità del

mondo, senza patria è l’amore

che lacera la mia anima;

il miele più dolce ch’io possa 

stillare.

Ma nella danza sacra della

pioggia

tanto oscuro è il male che

mi invade le vene;

grido e nessuno viene.



Il re pallido

 

Inginocchiati con me

sotto questo altare rosso;

Inginocchiati con me,

e incoronami del mio supplizio

spinato, con la carne trafitta

mentre il coro s’innalza.

Sussurra le torbide vestigia

a questo volto scarlatto

mentre ti stringi più forte

più forte, più forte.

Più alcuna goccia

della tua luce,

di ciò che vedi,

più alcuna goccia nutre queste

ali fragili.

Ora danzano le mie

labbra in tremula

preghiera, e freme

questa terra bastarda

sotto al mio 

corpo.

Mi volto incatenato e compiango, il sole che mi

fu negato allora.

E s’agitano ancora questi corpi

di vetro, ignari del buio

che avanza nel cielo.


 

Narrami

 

Narrami,

degli adoratori del

sole, e delle forme

sterili che in croci

di cenere hanno impresso

sulla tua fronte.

 

Narrami di tutto ciò,

affinché anche io possa

mostrarti le mie croci.

 

Torbide e più alte croci,

le mie; eppur figlie

della stessa mano.

Come l’aratro solca la

terra, così la loro mano

solca i nostri cuori.

Te le mostrerò,

come si mostra ad un bimbo

la prima aurora.

Croci d’aurora mentre

attendiamo il fulgore

del tempo.

Narrami.


 

Breve epitome

 

Breve epitome del

cuore di Roma fiorisce

dalle labbra del cantastorie

ubriaco.

Egli non sa più dove andare.

Noi scappiamo, amandoci

tra le vene del buio

e le sue strade notturne,

ascoltando il vento che

si crocifigge alla

nostra porta.

È tempo di mutare;

Come la serpe,

come le stagioni del mondo.

L’inabissarsi del sole

porta il giubilo del

nostro domani.



La caccia

 

Mesto, in un’alba d’ebano

trafughi anfore d’ombra dal

tempio del sole.

 

Hai già forgiato i tuoi proiettili?

La caccia è aperta ed il grano

abbondante e maturo; là errabondo nei

campi scioglie il legislatore le sue

bende di sale. 

E tu, con letizia, pesi 

docile i grammi d’amore

elemosinati ai margini della via, linfa

d’ambra sulla bilancia del

biasimo e della lode.

 

Dove andrai a caccia?

Incessante si smuove il

tuo abito, scoprendo i tuoi quattro

cuori e i tuoi cinque pugnali

in petto.

Come camminare ancora,

ora che il pescatore geme di febbre, in

un mondo senza mari.



Entro dalla porta

Entro dalla porta. Lenta transumanza di cartilagini, muscoli e ossa (uomini) davanti al mio volto. Faccio un passo. L’aria è densa, vischiosa e sembra trasudare la stessa follia che mi avvilisce i polmoni. Ma non importa, cerco di non farci caso. Tento ripetutamente di ascoltare ciò che mi sta dicendo. Silenzio. Altro passo. Altro passo ancora. Lo vedo.

-È lui! È lui! Dio santo è lui!

-Zitto, zitto cazzo, lo riconosco anche da solo.

Il mondo è solo un caotico vorticare di bicchieri scintillanti, di membra tornite che scivolano sul piano cosmico dell’esistenza.

-Il lampadario è meraviglioso, non trovi?

-Sì, bellissimo.

Lui è sempre lì.

È brutto, brutto secondo ogni parametro estetico ed ogni parametro fisico che la civiltà possa mai aver impresso nelle nostre mente.

-Prendi un whisky, sembrerai più colto.

-Non riesco a berlo, lo sai, mi distrugge lo stomaco.

Parlo con quelli che mi accompagnano. Usciamo fuori. Ho perso il conto dei passi. Non ha nessuna importanza ormai. Forse non ne ha mai avuta.

Il pavimento è una gigantesca scacchiera pulsante, una sconfinata distesa di ragnatele. Noi siamo i ragni. Ragni attori.

-È Shakespeare.

-Zitto.

Vorrei sprofondare nel pavimento, in un sussurro impercettibile di tempo, lasciando che l’oscurità su cui è edificato questo posto mi sommerga la testa e invada le narici. Il pavimento è solido.

Fumo. Bevo. Altra boccata di fumo.

-Smetti di fumare.

-Non posso.

-Sei debole.

-Lo sono.

Il cielo adesso è una cupola opaca incrostata di stelle. Potrei osservare corpi già morti, immensi ammassi di materia fredda ed inerte, anch’essi sprofondati nella stessa oscurità che si annida sotto questo pavimento.

Ma non lo saprei. La loro luce giungerebbe egualmente ai miei occhi.

Luce fredda e mortuaria, luce di sfacelo e disgregazione cosmica, che si sfalda nella mia anima secondo le più tenui gradazioni dell’afflizione.

-È luce. L’oscurità è assenza di luce. Le stelle sono luce. Le stelle morte sono oscurità.

-Zitto.

Torno dentro.

Il ballo in maschera è vicino al suo zenit.

Credo di cogliere ogni sospiro, ogni bavoso, desolato movimento. Quelli non sono corpi, sono cumuli di macerie. Giganteschi e purulenti scheletri ricoperti di carne. La carne è appesa ai nostri corpi, a tutti i corpi, non può fuggire.

-Non può fuggire. La fuga è ammissione di colpa. La colpa è mancanza di innocenza.

-Non sono innocente.

-Non lo sei mai stato.

Lui è ancora là. I suoi occhi sono vitrei, dorati. Una spessa patina di  luminoso dolore li riveste. Non sono occhi. Sono bombe incendiarie. Sono immensi incendi. Sono piaghe opalescenti aperte sul volto. Sono turpi abissi in cui si specchiano i pilastri del tempo. Sono occhi umani.

Dannatamente umani. Non ne sopporto la vista.

- Come potresti? Sono i tuoi occhi.

-Lo so. 

La musica roboante mi dilania i timpani con il suo incessante martellare.

Una cacofonia dissennata di suoni che ostacola il mio pensiero, penetrandomi nella pelle e scavandosi un sentiero tra vene ed organi.

Scende più in basso, più a fondo. Adesso è ferma accanto al mio cuore. Il mio cuore batte infinitamente più lento.

-Il cuore è un muscolo volontario.

-Lo so, sarei già morto altrimenti.

Tutti ballano, seguendo inconsciamente il ritmo della musica.

Sto ballando. Sono bravo a ballare. Sono tutti ballerini. Danzatori della macabra danza della vita. Vittime rituali di uno scempio cosmologico.

Lui no. 

Lui non balla.

Rimane immobile, muto nella sua lontanissima fortezza. È un profeta.

-Anche Gesù lo era. Anche Zarathustra. Anche Ezechiele.

Il tempo mi sgocciola addosso in grossi grumi disseccati.

Faccio un passo verso di lui. Non se ne accorge.

-Come potrebbe? Tu sei una stella morta. Le stelle morte non emanano luce.

Adesso la musica è più lontana, rarefatta, inaccessibile come il mondo che pervade. Io sono lontano. Il vorticare dei non-corpi, le voci, sono solo un ricordo diafano. Un alone sbiadito che indugia ai remoti confini della mia coscienza.

Muovo un altro passo in sua direzione.

La sua ombra rifulge una tetraggine antichissima, nera come la notte.

 Il tempo è ormai fermo. Me ne accorgo. È tutto fermo, sospeso nel vuoto di una dimensione inaccessibile.

-Tu sei un peccatore. I peccatori non entrano in Paradiso. Io sono San Pietro. Siete tutti peccatori.

Non mi ascolto. Tutto sembra annegare nella stessa melliflua vacuità.

Continuo a guardarlo. Adesso sono sicuro che sia un profeta.

-I profeti vengono crocifissi.

-Zitto!

-I loro corpi martoriati.

-Zitto!

-I loro resti bruciati.

-Zitto!

Un miliardo di passi nella stessa pietra. Un miliardo di pietre nello stesso passo.

 Io non creo, dipingo. La pittura è l’arte dell’orrore. È cristallizzazione di tumescenze e contorsioni febbrili. È canto di rivolta. 

-Le rivolte vengono spezzate.

Altro passo. Adesso sta parlando. 

-Ascolta.

Ascolto. Non riesco a sentirlo. Non saprei stabilire a quale distanza si trovi da me. Né se stia realmente parlando con me. Mi guardo attorno. Non c’è nessun altro a cui parlare. Ci sono solo io.

-Tu non esisti, non più.

Il suo sguardo rimane fisso. La bocca vomita un torrente di parole. Non parole ma frecce, che mi trafiggono le cellule con la loro verità.

Voglio piangere, ma persino la gravità sembra aver cancellato le tracce della propria esistenza. Senza gravità le lacrime non scendono.

Penso che cadrei al suolo ora, se solo ci fosse un suolo su cui cadere.

La sua figura mi sovrasta enormemente, accrescendo le sue dimensioni di secondo in secondo. 

-Araldo dei mondi, messia delle steppe.

-Cazzate.

Il pensiero è immutabile nella forma, non nella natura.

Lui adesso è la realtà che mi sommerge, ed io nuoto al suo interno, scalciando, annaspando. Non so più cosa sono. Ogni parvenza di memoria e materia è annullata.  Non c’è superficie. Non c’è fondo.

-Non si può respirare sott’acqua.

-Questa non è acqua.

-Cosa è allora?

-È male.

Un male eterno di pece, in cui lui è il solo dardeggiante e nerissimo sole.

Sto nuotando nel suo esatto epicentro, in questo fulcro irreale su cui si impernia l’epidermide stessa dell’universo.

- Il fulcro è l’asse di rotazione e il punto d’appoggio di una leva.

Silenzio.

Rumore.

Silenzio.

-Guarda.

Guardo. Li vedo distintamente ora. I profeti, gli sciamani, gli affabulatori.

Danzano in cerchia asserragliate, muovendosi leggiadri con cauti passi nel buio, volteggiando sugli innesti di dolore che trafiggono ogni atomo, ogni microscopica particella.

-L’uomo non è vittima ma carnefice. L’uomo non è agnello ma lupo.

Non capisco. Non voglio capire. Domando, ma non risponde. Domando ancora. 

-Chiedere è lecito, rispondere è cortesia.

-Per cosa danzano?

-Per i loro idoli mutilati.

Idolatria di volti in un mare sterile. Sale sulla nuda terra lacerata.

-I romani cosparsero Cartagine di sale. Nulla cresce più.

Adesso so.

La parete ora è squarciata, e risucchia tutto al suo interno. In un impercettibile attimo, ogni cosa cessa di esistere, e l’attimo seguente, interi mondi ed esistenze si riallineano sull’asse.

Torno a respirare l’aria dolciastra della consapevolezza.

Il tempo torna a scorrere.

-Vai a fumare.

Esco dalla porta.



Lo Sciamano

 

Folle come la primavera negli 

occhi d’un pazzo,

danza leggero tra gli scarni demoni

dell’abisso.

 

Risuona tremendo il suo passo, mentre

l’universo tradisce il suo rancore:

pioggia di stelle e comete

sul volto.

 

L’odio spira con fragore, ma nulla

egli teme;

Vedeste mai, oh uomini, la libera fiamma

inchinarsi al vento?

 

Il vecchio giudice obeso è giunto; sputa 

sul tuo cuore, lo afferra e lo strappa.

Così muori! Così muori!

 

Nel freddo fiore malato germogliato dal

cemento,

stanno inchiodando la bestia alla parete.

 

Ora le strade si fan rosse, e vive,

e povere;

il tuo addio riverbera nel vuoto.



La nuova pelle

Nella fredda notte lunare,

 

 madre affranta del fragoroso scalpitare dei sogni,

 

s’adagia docile la luce d’argento sui germogli

 

di ciliegio.

Scivola dal nero tronco nodoso, dalle tue braccia cinto,

 

un torrente di vetro, indomita forza d’ombra e opale

 

 che intesse al suo passaggio, bianchissime fila di membra e 

 

muta carne.

Risponde ancora il silenzio al tuo furore,

 

alle tue vene secche, alle tue labbra in fiamme;

 

Risponde ancora l’eterno giudice con gemiti

 

tremanti, sussurrando alla tua pelle 

 

l’immobile verità di un’alba antica.

 Così nel placido grembo terrestre discendi,

 

ad ogni passo d’intreccio di spine trafitto,

 

volgendo per un ultimo attimo il tuo volto 

 

innocente al cielo cosparso di stelle e radici.

Alla sfilata affranta del tuo corpo

 

 tra le buia vestigia della terra, s’accompagna il coro d’arpe finissime,

 

narrando agli avvizziti rami le storie che si

 

diramano sul tuo petto,

 

strade infrante nel grano a primavera.

Ma alle soglie della porta bruna 

 

un bussar fragile odi;

 

È lo spezzarsi della catena e dei 

 

mondi, cinti da diafane

 

corolle di fiori;

 

 È lo spezzarsi delle voci, delle mura 

 

e delle croci, che a nuova vita il desolato

 

germoglio imbeve, colui che tu ora saluti.

Immobile, al limitar dei cieli

 

sorge, un sorriso

 

al tendersi delle tue mani nella nebbia

 

 altre mille dita s’uniscono ora in intrecci 

 

ed il buio imprime, nel tuo cuore,

 

nuova luce fuggitiva.