Nicola Comberiati - Poesie

A te, Madre e sposa (17 aprile 2000)

Più non vedrai le tiepide aurore
e i tramonti dei mari del Sud.
Più non accenderai l’impeto della tua passione
e i cori delle mille voci interiori
come folletti in libertà
risveglieranno nuovi amori.
Più non stringerai
come in un tenero nido
il desiderio ritrovato.
Amore, più non appariranno ai tuoi occhi
le lune multiforme
e i soli dalle mille attese.
Ti ho conosciuto fiore rosso
stelo di grano
fantastica gemma
airone in libertà
caldo amore di un focolare antico
tessitrice di tele dalle trepidanti attese.
Penelope o Venere o Minerva
ho sempre accolto dalle tue semine
e mangiato i frutti della tua saggezza.
Tu, gravida di vita,
madre dell’accorta misura!
I campi di grano
e di papaveri rossi
accoglieranno festosi
la Nuova Regina
e per molto tempo riascolteremo la tua voce
nei silenzi degli spazi immensi,
nella danza festosa delle stagioni,
negli azzurri profondi mari.
E quando l’angoscia
lascerà cadere le sue catene,
ti ritroveremo
Memoria di Affetti,
Luce ed Ombra di un affresco immortale
Voce di melodia infinita
tra le mille note
di gesti quotidiani.
Addio, Amore!


 

La nota profonda

Riuscire a trovare il tono giusto
la nota profonda
che scavalchi bizzarra come un cavallo
le muraglie sovrapposte del linguaggio articolato.
Riuscire a raffigurarti
mentre dipani il filo della tua profonda inquietudine
e tracciare con mani sanguinanti dal dolore
la linea della calma
e la carezza degli affetti.
Riuscire a dirti “ti amo”
e sentire che dentro le tue viscere
s’inquieta la vita
e non riuscire più da solo a vivere
il dolore, l’urlo, la rabbia della fragilità,
mentre tu cammini esposta al furto
di qualcosa che ti appartiene
e che tu stessa hai partorito:
il desiderio di essere amata e di amare.


 

Deserto di parole…

Deserto di parole.
Non ci sono più strette consonanti
e larghe vocali
movimenti e ritmi razionali delle mascelle.
Solo risate istrioniche
degli intellettuali
al loro dizionario.
Quali parole cercherò
per introdurmi nei nascosti
e timidi accenni di rigogliose rivincite?
Conosco solo la danza sofferente
degli umori
esposti alle tropicali metamorfosi
del tempo.
Ma le parole, no!
non le uso più per assegnare
un premio alla mediocrità.
E gli oggetti liberati saltellano
consci della loro schizofrenia sfrontata
senza nomi né storia.
Paladini della Solitudine Insignificante.
La Divina Nudità
ha reinfetato il Logos nel Caos.


 

La notte è passata

Sospendo i miei pensieri,
barriere perenni al mio desiderio,
e ti rivedo avvolta
nell’aria fresca della rugiada
tersa piccola goccia scintillante al sole.
La notte è passata
E i tuoi occhi gemme primaverili,
sono esplosi sul tuo volto
e parlano vogliono interrogano
con occhi di donna.
Le tue labbra bruciano
fuochi di guerra
e alla mia pelle
si è attaccato un incancellabile
odore di fiori campestri
Ora ho racchiuso
in uno scrigno segreto
baci sguardi sospiri
e le mobili forme
del tuo corpo acceso.
I timidi colori d’una sera d’intesa con te
han richiamato
come da grembo primitivo
recondite selvagge praterie senza confini
e desideri di spazi infiniti.


 

Nascite inquinate

Piangete fratelli
sui fiori sbocciati
d’inverno e già morti.
Gli uomini non hanno più tempo
di nascere fiori.
Avvolti in fili di corrente,
tirati da tenaglie d’acciaio,
lasciano tracce di smog
sui letti d’asfalto.
Proibito nascer bambini oggi col sole.
In questo paese le partorienti
ricercano la nebbia
per nascondere i frutti
che non portano amore,
paurose che i vigili
ne chiedano il prezzo nei magazzini.
Piangete fratelli
se i bambini negli specchi
si vedono uomini, già.
Negli occhi si è spento il sorriso
ed il giorno ha smesso di essere alba.
Contestiamo, fratelli,
perché vogliamo
più fiori rossi sui campi
e facciamo una legge
per proibire di calpestarli.
E sui campi di fiori
gli uomini facciano l’amore.


 

La natura gravida

Il mormorio delle acque
racconta l’armonia cadenzata del tempo,
la filastrocca di un’antica fonte di vita,
acqua tersa che tornia l’essere
appeso a seni turgidi
che espandono vita e speranza.
La montagna gravida
pulsa il cuore della vita
e sospende – estasi di silenzio –
il tempo della nascita.
Le acque aprono rivoli di vita
tra le gambe della donna amata,
che trasforma l’inerte materia
nell’inarrestabile pulsione dell’essere:
origine materiale di donne e uomini
e la luce che impregna di vita divina la mente.
Noi siamo l’inizio del tempo
e la forma infinita
della trasformazione della materia.
Noi, racchiusi nell’antro infinito della natura,
attendiamo il nostro turno
per un giro di valzer della felicità.
Noi, come spiga dorata,
ondeggiamo tra i campi di grano,
ci mescoliamo con gli svariati colori dei fiori
e, come indomiti cavalli,
ci lasciamo sollevare dal vento.
Noi, figli della natura,
mescolati di acqua-aria- terra-fuoco,
odoriamo di melone e di papaia,
di gelso e di pistacchio,
di mirtillo, lampone e fragole.
Noi salici, che coprono
il pianto della gioia delle puerpere.
Noi aceri,
che prendono forza dalle radici come Anteo
speranza di vivere.
Noi alti pioppi, sottili come gambe femminili,
che s’innalzano verso l’infinito.


 

Riflessioni dopo aver votato!

Voto più voto meno…
voto per promuovere 6-7- 8-9- 10
voto per bocciare 5-4- 3-2- 1.
Nessuna verità nasce dal voto!
Qualcuno ricalca troppo la X sulla scheda rosa
frettoloso o flemmatico.
Voto più voto meno…
Fuori l’autobus non passa da mezz’ora
e olezzano i rifiuti abbandonati.
Voto più voto meno…
Non votano i precari e i figli fuggiti all’estero,
le badanti aggrappate al vecchio malato
e gli immigrati non riconosciuti.
Qualcuno vota distratto e si confonde,
il mio vicino sbaglia, ché non aveva capito come si vota!
Retorica del voto…
per alcuni troppo difficile votare,
per i giornalisti troppo facile interpretare
logorroicamente.
Tutti vincono e allungano il passo!
Un clochard accasciato chiede l’elemosina
e un candidato gli promette un euro a votante…
lo seppellirà di soldi e di indifferenza.
Voto più voto meno…
Alcuni bimbi s’allontanano a giocare nei prati
– scuola occupata dai seggi –
e felici inseguono una palla!
Loro sì, fortunati a non votare!


 

Agli studenti che ho incontrato nei miei anni di scuola

Dieci (10) paradossi per studiare e vivere meglio
1. La scuola è un’infinita raccolta di storie umane
e tutte possono arricchirti
se non ti chiudi in te stesso.
2. La scuola non serve a nulla
se tu non sai leggere la vita
con gli occhi dell’amore.
3. L’incontro con un prof ha salvato la vita a molti giovani,
ma molti giovani studenti
hanno dato un senso ideale alla vita di molti prof.
4. Che cos’è una lezione? Un’infinita serie di parole noiose
per un’ora interminabile nell’arco della giornata
se tu hai la mente ottusa.
È invece l’ingresso nei misteri della sapienza umana
se sai accendere la luce della tua anima.
5. Un gruppo di ragazzi che si arrabbiano tra loro
assomiglia ad una muta di cani;
un gruppo di giovani che studia insieme
assomiglia all’arcobaleno che preannuncia
un futuro diverso per l’umanità.
6. La pace nasce dalla grammatica,
l’armonia dalla matematica
e se impari a leggere e a scrivere
puoi camminare per sentieri impervi.
7. Lo studio rischiara il tuo corpo e lo rende più bello;
ma la bellezza del tuo corpo
senza la profondità degli occhi accesi dalla sapienza rimane come
una statua senza vita.
8. Impara a leggere un libro
se vuoi cavalcare verso vaste praterie
e immergerti in acque limpide azzurre.
Ti troverai sempre in compagnia della tua fantasia,
mentre se non leggi lotterai con pensieri mediocri e solitari.
9. La vigliaccheria è sempre in agguato tra i giovani;
per mostrarla spesso i ragazzi si tramutano in bulli,
ma dimenticano la stretta di mano
e lo sguardo sincero negli occhi dell’amico.
10. Se vuoi avere successo – devi studiare.
E non pensare che la TV o lo sport o internet
ti possano far diventare ricco senza sacrificio.
“Quello che tu impari a scuola oggi sarà decisivo per sapere se noi,
come nazione, sapremo accogliere le sfide che ci riserva il futuro”
(Obama).


 

La strana incomunicabilità del prof

 

“Come si fa a descrivere la realtà?” –  pensava il l professore avvezzo a disquisizioni accademiche. “È un’immagine invadente, fotografica, piatta; e noi invece amiamo i simboli, le immaginazioni, i fantasmi, i sogni. Come si fa a descrivere la realtà?” In realtà il professore era, negli ultimi tempi, piuttosto sfiduciato: aveva passato anni tra nessi filologici e interpretazioni audaci. Gli era sembrato che questa puntigliosa fedeltà alla parola scritta e poi comunicata ai suoi alunni potesse far chiarezza sulla realtà, fosse come una fiaccola da trasmettere di generazione in generazione. La sapienza, acquisita in lunghi periodi di solitudine, per molti anni si era ridotta ad un teorema semplice: i valori umani si erano fissati nei testi scritti, nella realtà materiale e il suo compito era quello di svelarne il senso nascosto, archeologo del mistero, come molti scienziati non avevano fatto altro che esplicare quello che già era scritto nella realtà.

Ora di tutto questo non era più sicuro. “Il linguaggio – pensava – è pur sempre un simbolo, un segno e, nella comunicazione, resta sempre uno iato incolmabile tra il segno scritto e la realtà”

E che la realtà egli negli ultimi tempi non la capiva più, una realtà poi rimpicciolita in una classe, in cui entrava ogni giorno come un cavaliere medioevale investito da un eroico furore. Ma questo furore negli ultimi tempi lo aveva abbandonato. Si sentiva piuttosto un uomo fuori posto, s’infervorava anche, ma gli rispondeva solo un’eco lontana.

Aveva provato a parlarne sottovoce ad un collega, ma questi lo aveva apostrofato: “Non ne vale la pena struggersi in questi pensieri”.  “La verità è che oggi i giovani sono cambiati, il mondo è cambiato e a nessuno importa più della scuola. Noi abbiamo sbagliato a fare questo mestiere”.

“Sì, sì “–  annuiva il professore e si vergognava di quello sfogo inusitato come da adolescente si perturbava – rosso in viso – dinanzi ad una ragazza avvenente.

Gli avvenimenti negli ultimi tempi si erano susseguiti con una tale velocità che egli stentava ormai a comprenderli, figuriamoci a inseguirli. Si sentiva come risucchiato da un’onda imperiosa e depositato a riva. Da quasi trent’anni entrava nella stessa classe e sentiva le sue parole, che una volta esplodevano come fuochi d’artifici, ora conficcarsi nella sua pelle sofferente. “Il boomerang dell’incomunicabilità” – aveva commentato amaramente; “la legge del contrappeso”: non poter più significare il mondo perché un virus sconosciuto nega continuamente l’accesso al significato”.

Attorno si sentiva accerchiato dagli occupanti, così detti perché progettavano occupazioni alternative con proclami, lunghi fogli incomprensibili, agitazioni e rivendicazioni su diritti, doveri, salari, nuove linee di tendenze; erano movimentisti, opinionisti, moderni. E lui si sentiva piuttosto classico. S’immaginava un mondo diviso tra uomini affaccendati ad accendere sinapsi per rischiarare il mondo e altri interessati ai propri interessi. Alcuni simboleggiavano la realtà ma non la vedevano, altri la subivano come un castigo divino.

Il professore – era una cosa del tutto nuova per lui! – aveva scoperto la stanchezza come il termometro più puro del vivere. A parlare troppo si stancava, a ridere si stancava, a vedere gli stessi luoghi e le stesse persone si stancava, a leggere gli stessi libri si annoiava. In realtà non sapeva come fermare quell’affievolirsi del desiderio che lo tormentava.

Quel giorno i suoi movimenti furono lenti: entrò in classe, poggiò la borsa sulla cattedra, spostò leggermente la sedia, guardò quella scolaresca rumorosa e decise di rimanere muto


 

La storia della signorina M.

La professoressa M. di italiano e latino aveva coltivato in gioventù ambizioni letterarie: scriveva racconti e poesie e il suo nome cominciava a circolare nelle riviste letterarie. Laureata con 110 e lode, invano il professore aveva insistito che continuasse la carriera universitaria. Ella voleva conquistarsi la libertà e l’indipendenza e aveva accettato un lavoro sicuro in un ministero. Giovane, istruita, ben fatta aveva trovato vari corteggiatori, e alla fine aveva ceduto alle seduzioni di un mediocre capo-ufficio, pieno di sé, artista fallito e per giunta ammogliato. Inizialmente il rapporto si alimentò di una certa carboneria amorosa, che riveste di un non so di romantico le storie d’amore. Poi fu subito prosa. Il capo-ufficio cercava di evitarla nel lavoro: la storia ormai era divenuta una voce di corridoio e la carriera del funzionario mediocre ne poteva risentire. Ci fu qualche scontro verbale, qualche scenata, poi nella stanza della signorina M. cadde il sipario, o meglio la depressione nera s’impossessò di lei come un demone e cominciarono a notarsi in lei – così mormoravano i colleghi –  metamorfosi caratteriali e fisiologiche: ingrassò, divenne brutta, sciatta, sospettosa.

Una mattina squillò il telefono che le annunciava una supplenza nella scuola. Lei disse di sì – il lettore può ben capire perché – e fu perduta per sempre. Diciotto tormentati anni di supplenza, nove anni di analisi, senza nessun legame affettivo. Ora non era più grassa, introversa, melanconica. Ora era diventata una donna di una magrezza perturbante, le ossa e i nervi si mostravano come aculei appuntiti e gli occhi che roteavano su se stessi mostravano quel non so che di vuoto, che impaurisce. I ragazzi la chiamavano “la strega cattiva”, ma era un appellativo piuttosto goliardico a paragone di quanto avevano dovuto subire i colleghi: denunce, affronti nei corridoi, consigli di classe interminabili e offensivi, avvocati, commissari, ispettori… Anche la stampa si era qualche tempo interessata all’episodio, poi tutto era rientrato. Nessuno era riuscito a intaccare minimamente la rigidità inflessibile perversa della professoressa M., che aveva affinato le arti del piacere sadico verso gli alunni e i colleghi.

La professoressa aveva però il suo tallone d’Achille: soffriva d’insonnia e tra una valeriana e qualche farmaco più consistente durante le lezioni spesso denotava vuoti di memoria o si perdeva in una sorta di horror vacui, difficile da definire: una specie di delirio che l’allontanava da sé e dagli altri, durante il quale le parole straripavano come un fiume alla deriva e costruivano fantasiosi castelli semantici minacciosi. Fu in una di queste carrellate deliranti che la professoressa M. fu colta da un malore improvviso e perse i sensi. Nella scolaresca ci fu il panico, ma si chiamò un’ambulanza per portarla rapidamente in ospedale. Si cercò di avvertire qualche parente ma senza nessun risultato. Fu d’uopo perciò aprire la sua borsetta per cercare un’agendina telefonica, un indizio d’appartenenza che potesse ricollegarla agli affetti più cari. Il vecchio preside infilò furtivamente le mani nella borsetta e ne estrasse un qualcosa di simile ad un’agenda. Era invece un libro di Baudelaire “I fiori del male”, in edizione francese e italiana che la professoressa portava con sé da molti anni. Tra i fogli del libro fu rinvenuto uno scritto, forse una poesia, da far risalire all’inizio della sua carriera scolastica: “Vorrei essere /Anima e Corpo/ Quiete e Tempesta/ Oceano e Riva.  Vorrei essere / un Fiore del Bene /Sorriso / Vita; /Acqua Aria Terra Fuoco / vorrei essere”.

Nei corridoi della vecchia scuola, alcuni audaci studenti il giorno dopo attaccarono un manifesto: “Chi ha ucciso i sogni della signorina M.?”