Nicoletta Manetti - Poesie

Da “Sinfonia per San Salvi”                                                                   

 

Né in cielo né in terra

 

 

Il mio passo, il ronzio di un calabrone. 

Chi ha abitato questo luogo? 

C’è nessuno? Ascolto.

Una porta sbatte, un campanello insiste,

risate come grugniti o fiori spampanati, 

grida stridule come gessi sulla lavagna, 

rosario di lamenti

risuonano in testa

volti invisibili, occhieggiano, spiano. 

Mi aspettavano. 

Il vuoto è pieno, il silenzio è frastuono.

Un ghigno sorride sul muro e minaccia ricordi. 

L’occhio di un orologio sopra la porta segna mezzanotte 

ma fuori il sole è alto e trapela 

attraverso vetri opachi di polvere. 

Polvere di ossa. Polvere di stelle. Polvere da sparo. 

Semplicemente polvere. 

“Chiedi alla polvere”

ma non a quella che corre rutilante sulla strada 

chiedi a QUESTA polvere 

sincera, ferma di spazio e di tempo.

Ha molto da raccontare a chi chiede 

a chi ascolta. 

Qui, per sempre qui. Dove non si vive e non si muore 

né in cielo né in terra. 

Qui da dove nessuno se n’è andato ancora. 

Sono tutti ad aspettarci in questo limbo, 

appesi alla lampadina che pende 

attonita dal soffitto, aggrappati 

alle grate delle finestre, 

stampati sul muro, 

brulicanti tra i ciuffi d’erba, 

tra le mattonelle che ridono sdentate. 

Oggi inizia l’estate. 

Leggo sul programma: previste anche visite notturne.

E così sia.


La Città della Gioia

 

E com’è che l’agave 

ha permesso all’erbaccia di sottometterla? 

Che forza, che energia dirompente emerge, 

spinta da sotto questa terra. 

Non è un luogo abbandonato 

qui scorre una linfa antica, 

misteriosa, tenace. Che sia il dolore, 

la rabbia, che siano le grida 

o le risate sconce, le pitture sghembe 

sui muri, o quel tralcio di filo dorato 

della festa di Natale 

che ancora pende nel refettorio, 

che sia insomma LA FOLLIA, 

quel nutrimento misterioso 

che ha concimato, innaffiato, incitato 

la natura che qui si celebra 

senza ostacoli, entra negli anfratti, 

si insinua nei mattoni e nelle inferriate, 

nei vetri rotti, esplode di palme, 

prega, tendendo verso l’alto le cime degli alberi? 

Non dimenticate questo luogo! 

invocano le lunghe ombre verdi, 

ci siamo ancora, siamo gli spiriti folli, 

ma non come voi intendete, 

non abbiate paura. 

Follia è vitalità altra, estrema, ancestrale, 

non la fermano né muri, né reti, né tempo. 

Una vita che insiste, nonostante tutto, 

che ha le tonalità infinite del verde 

e la musica degli insetti e degli uccelli, 

e disegna l’ombra. 

Che aleggia e la senti addosso, 

come senti il salmastro del mare anche da lontano

quando delle onde ti giunge solo il sussurro. 

Voi ora venite a trovarci, 

mormorano gli spiriti folli, 

ci fotografate, scrivete versi su di noi. 

Adesso siamo gioia, 

scorriamo liquidi nella clorofilla 

e cantiamo con i grilli, gli uccelli, la civetta. 

Come la bidonville di Calcutta, 

che rendeva irriconoscibile un uomo, 

ma poté chiamarsi “Città della gioia”. 

Non dimentichiamo questo luogo. 

Non dimentichiamo.


La Festa (Tre sonetti ispirati e in omaggio a “Les Fête Galantes” di Paul Verlaine)

Prego Signori, avanti la parata!

Apre il corteo sul ciuco la grassona

con lo scettro e la gonna spampanata,

la scimmietta a saltelli la tallona.

 

Mangiafuoco, nani e domatori,

il giullare e l’oca ingioiellata,

ballerine, poeti e gran signori

nel salone fa ingresso la parata.

 

Zampillano inchini e baciamani,

Tintinnano bicchieri e campanelle

è un delirio di dame e di sultani!

 

Sul balcone tremolante di fiammelle

solitario riflette sul domani                                      

e lacrima Pierrot sotto le stelle.

                     

*

Che le danze inizino, Signori!

L’orchestra intona la folle melodia,

anche nude, le dame sono fiori, 

non esiste nessuna ritrosia. 

 

E sono voli e sono giravolte

e sono polke e salti nel salone 

i giullari e le maschere stravolte

si rincorrono al grido di un trombone.

 

Anche le statue escono dall’ombra

mute intrecciano un ballo nel giardino.

Più niente, se si balla, è come sembra.

 

Sul prato volteggia nel chiarore

anche Pierrot di bianco inargentato.

Danziamo ancora finché la luna muore.

                    

 *

La barca pigra sulle acque cenerine

cieca vacilla di risa strampalate, 

e sono giochi di mani e di moine,  

singhiozzi lenti di corde un po’ stonate.

 

Ammicca una fiammella irriverente,

osa tremare appena, poi scompare,

si può allora cullarsi mollemente

e l’onda poi riprende a sciabordare.

 

Poi d’un tratto la luna s’alza bianca,

svela d’argento i volti senza nome,

cade ogni maschera, ammutolita e stanca.

 

Scende stupita la luna a carezzare

la folle barca che, senza il buio velo,

verso il suo sogno può adesso scivolare. 


Una vita tra i matti 

 

Alla base delle scale erbose, la sigaretta in bocca, le mani nelle tasche del camice, guarda assorto il giardino all’italiana, il viale che si arrotonda verso il cancello di ingresso al manicomio. 

Il mondo fuori lo attrae sempre meno; qui, a parte Giovanna, ha sempre avuto tutto ciò che ama. 

Aspetta che suor Giacinta lo chiami per la cena e che Tono gli porti il vino buono. 

Sono quarant’anni che vive tra i matti, Mario Tobino.

È sera, una delle ultime. Si avvicina il giorno della pensione e della chiusura del manicomio che già più manicomio non è. 

È stata un’altra brutta giornata, l’ennesima notizia di un ex ricoverato ‘liberato’, che la ‘liberazione’ l’ha trovata a casa sua, gettandosi a capofitto nella tromba delle scale; a ogni disgraziato ritrovato come un animale in un fosso della campagna intorno, lui ora può solo scuotere la testa. 

Guarda l’albero sul quale si arrampicava la Nutini saltando da un ramo a un altro, una selvaggia, felice di penzolare come una scimmia, la suora sotto l’albero a raccomandarsi. E poi la Boni che si spogliava e mostrava i seni, orgogliosa lupa romana. 

Follia era davvero sempre sofferenza? I disegni che tappezzano le sale di soggiorno non sono solo freghi scuri ma anche cuori, bambine bionde, ritratti di medici dalle grandi teste sorridenti. 

Quindici anni prima Mario si era posto altri interrogativi, non da scienziato – da scienziato come essere contrari agli psicofarmaci? – ma da semplice creatura sulla terra, tra le altre creature sulla terra. 

Sarà giusto riagganciarli alle “nostre” verità? ne abbiamo diritto? in fondo poi, cos’è ‘giusto’? 

Per quarant’anni si è interrogato, aggirandosi per le corsie, scendendo le scale per visitare le agitate, fumando la sera dopo cena fuori della portineria, prima di ritirarsi a scrivere, ancora di loro. 

Lo sguardo ora assorto sulla lettera 22, ora vagante fuori della finestra 

nella vallata buia oltre la magnolia lucida del giardino. 

La sagoma di Suor Giacinta appare sulla soglia illuminata. Lui rientra.  

Anche stasera scriverà. 

Per amore, e già per nostalgia.


Dall’antologia “La scia nera”

Ninetta

 

Da qualche tempo Ninetta era più bella, lo dicevano tutti. Lo diceva lo sguardo geloso del fratello a controllare la lunghezza della gonna, lo dicevano gli occhi degli uomini, quando lei passava di fretta con la borsa della spesa. Anche sua madre, quando alzava la testa dalla macchina da cucire, pareva dirle: come ti sei fatta bella, Ninetta; invece taceva, e continuava a orlare camicie fino a notte fonda.

Aveva una lunga cascata di riccioli neri e un corpo diventato all’improvviso prepotente per i suoi quattordici anni, che mandava su tutte le furie Alfonso, il fratello. Ora il capo famiglia era lui, doveva vegliare sulla madre e la sorella, oltre a mandare avanti il cantiere. Questo gli aveva raccomandato suo padre, trattenendogli la mano sul lenzuolo prima di morire. 

Sua sorella, nata la notte in cui erano sbarcati gli americani sulla spiaggia dall’altra parte del golfo, era sempre stata cosa sua. Quando era piccola, coi capelli corti e le gambette scure, se la portava con gli altri a scorrazzare, scalzi, per il porto, a pescare ricci o a tuffarsi dal costone; quelle gambette non rimanevano indietro a nessuno e si arrampicavano sugli scogli come un granchio.

Ma avevano passato tante ore anche da soli, in fondo al molo, con i piedi penzolanti nel vuoto, ad aspettare i pesci che si mimetizzavano in nuvole torbide e verdastre sul fondo. Potevano rimanere in silenzio pomeriggi interi, una sagoma piccina accanto all’altra, più grande. Gli occhi fissi sui cerchi che si allargavano intorno ai galleggianti. Poi, come erano arrivati, se ne andavano, senza bisogno di parlare.

Successe all’improvviso, a primavera.

Aspettavano sempre la prima giornata tiepida per poter tornare a tuffarsi in mare; arrivavano a precipizio sulla spiaggia, ancora in corsa si spogliavano e si buttavano a capofitto nelle onde. 

Quel giorno invece Ninetta appaiò con cura i sandali accanto all’asciugamano, esitò a sfilarsi la maglia e, rimasta in costume, portò subito una mano a coprirsi il seno. Alfonso capì che era cambiato tutto.

Non risero più insieme, non la portò più a pescare la domenica e, siccome lei insisteva e gli correva dietro in lacrime, lui gridava: «Devi aiutare a mamma!» e infilava lesto giù per il vicolo.

Il pensiero lo tormentava soprattutto la sera, in un intreccio caotico di immagini prima del sonno. Vedeva la sorella negli occhi dei maschi e non lo sopportava. Lui lo sapeva bene cosa girava per la testa a quelli; doveva proteggerla, l’aveva promesso a suo padre, bastava un attimo per inguaiarsi. Solo dopo aver deciso i nuovi divieti e le regole da imporre il giorno dopo, finalmente riusciva a prendere sonno.

«Non sei più una piccirilla, copriti!» Indicava le ginocchia abbronzate e la camicia troppo tesa sul seno. 

La madre annuiva e le cuciva vestine accollate, lunghe fino al polpaccio.

«E in giro da sola non è più cosa! Inteso?» 

«Ma vengo con te, Carmine e Pinuccio!» urlava lei con tutto il fiato che aveva.

«Noi facciamo cose da uomini!» Lui invece non aveva bisogno di urlare, con questa frase chiudeva il discorso e se ne andava.

Come piacevano a Ninetta «le cose da uomini»! Andare a pesca di totani di notte con la lampara, infilarsi a stanare i polpi negli anfratti degli scogli, dove solo lei riusciva a entrare. Certo, poi a sbatterli sulla roccia ci pensavano i ragazzi, ma a prenderli nessuno la superava. 

Ora il pesce doveva solo pulirlo, quando lo trovava sul marmo del tavolo di cucina. Raschiava con rabbia le squame col coltello, poi incideva il ventre e, mentre strappava via le interiora con le dita insanguinate, pensava di sbuzzare Alfonso, Carmine e Pinuccio, a uno a uno. 

Gli occhi tondi dei pesci bolliti invece erano quelli di zia Nunzia, che ora aveva sempre alle costole, e allora li cavava via e li buttava nel secchio con soddisfazione. 

«Perché gli hai cavato gli occhi?» chiese Alfonso quando vide per la prima volta sul vassoio la cernia accecata.

«Perché così mi piace!» Lei se lo godette quel potere di un attimo e lo guardò con sfida. 

Alfonso non si arrabbiò, per carità, anzi rise, perché in cucina il potere glielo lasciava. Perciò non glielo chiese più e cernie e saraghi arrivavano impunemente seviziati sulla tavola.  […]


Da “Confessioni e battaglie” 

“Alba De Cespedes”

 

I miei personaggi sono qui con me, mi accompagnano sempre, siamo una cosa sola. E’ in loro che ho capito la mia vita, non mi sono mai vista in modo diretto, ma sempre attraverso altro, altre. 

Sono donne perennemente alle prese con cambiamenti, scelte, dilemmi interiori, sempre in bilico tra un prima e un dopo, un guardare avanti e un tornare indietro, il lecito e il proibito. In definitiva, tra l’addomesticarsi e il salvarsi. 

Alcune riescono, altre soccombono o riprendono a piegarsi come canne al vento, ma se è troppo violento si spezzano.[…]

Strumento di lotta può essere anche un semplice quaderno di scuola dalla copertina nera, vero Valeria? 

Quando ti raccontasti tu era il 1952. Alle due di notte ti alzavi per scrivere: non riuscivi a dormire, frugavi nel cesto della biancheria sporca, era lì che tenevi nascosto il tuo quaderno. Prima riuscivi a dimenticarti ciò che succedeva in casa, invece con la parola scritta trattenevi tutto e cercavi di capire. 

Ma quelle pagine diventarono presto per te anche specchio della colpa. Proibito, il quaderno proibito. Perché era il diavolo, pensavi tu, a cui raccontavi con la mano tremante, notte dopo notte, la realtà pericolante, la sotterranea, lenta disgregazione della tua famiglia. E invece la società voleva il silenzio. 

Quante cose una madre non può dire, forse neppure a se stessa. E tu eri solo madre, anche tuo marito ti chiamava ‘mammà’. 

Tua figlia Marina era ribelle, in lei intravedevi la strada possibile, al di là delle convenzioni, ma proprio per questo la rimproveravi con rabbia. Lei, lo avevi capito, in te vedeva ciò che non avrebbe mai voluto diventare. E in fondo, segretamente, le davi ragione, ma non avresti potuto ammetterlo.

Povera Valeria, tu non ce l’hai fatta. Per continuare la vita di prima hai dovuto condannare al rogo il tuo quaderno, lucido e gonfio di parole come una sanguisuga, e le parole sono volate via, aspirate dalla gola della stufa. Ti rimase solamente l’odore di bruciato, del fumo freddo, della sconfitta, quello sì, attaccato addosso per sempre.

In quelle pagine c’era la stessa forza che trent’anni dopo ha avuto l’autocoscienza, che poi è il semplice parlare di sé. 

Una volta dette, le cose non sono più invisibili: si rompe la congiura tra il silenzio e la convenzione. Le parole vivono e fanno vivere. […]


Da “Vico” 

4 giugno 1889

 

Lodovico arrivò dopo altri dodici figli o, meglio, dodici parti perché non tutti i nati sopravvissero. Non c’erano molti svaghi all’infuori di una partita a briscola, per cui la sera non rimaneva che bere qualche bicchiere di vino schietto di Carmignano e andare a letto, ma subito non si prendeva sonno.

Lui nacque all’alba sul materasso di granturco del letto dei nonni, con l’aiuto della levatrice del paese, l’Ottavina. I vagiti volarono alti fuori dall’abbaino, oltre le mura del parco della Villa Medicea davanti a casa. 

Di sotto c’era la macelleria e un retrobottega che serviva da cucina e da laboratorio per i prosciutti e gli insaccati. Una scala di legno saliva nel ballatoio, chiamato salotto: da lì si accedeva alla camera di passo dove dormivano nonno Fernando e nonna Assunta insieme ai quattro nipoti maschi. Poi la stanza dei genitori e dell’unica figlia femmina, la Giovannina.

Con tanta prole e così poco spazio, l’ultimo arrivo non fu salutato proprio come una benedizione del cielo, tanto più che il fratello precedente si trovava ancora a balia. Quindi, senza tanti complimenti e prima ancora che l’Ottavina avesse finito di bere il caffè, fu deciso: Vico avrebbe preso il posto di Fernandino dalla famiglia Caramelli a Piuvica, nel pistoiese. 

Così la Rosa Caramelli, dopo aver allattato prima il suo figliolo e poi Fernandino, all’arrivo di Lodovico restituì il fratello, ormai di più di due anni, e dovette continuare con quest’altro.

Le possibilità dei Caramelli non erano molte e, con tutte quelle bocche da sfamare, appena Lodovico mise i denti, la Rosa cominciò a nutrire anche lui di fagioli; siccome gli piacevano e li digeriva bene, allora giù, lessi o all’uccelletto, col pomodoro e la salvia.

Per quasi cinque anni il bambino pensò che quella fosse la sua famiglia, fino a quando una febbre da cavallo gli fece battere i denti per parecchie notti. Visto che, dopo molti giorni, ancora tremava come un filo d’erba nella tramontana, la Rosa pensò bene di mandare a chiamare i genitori. La febbre calò, ma ormai sarebbero venuti a prenderlo.

Una mattina all’alba la donna gli fece il bagno nella tinozza di zinco e lo strofinò con l’acqua di colonia. Poi gli pettinò i capelli ancora umidi con la scriminatura da una parte. 

«Tu pari leccato dalla mucca!» rideva babbo Piero mentre tirava fuori dalla vetrina le tazzine buone. 

Nascosto dietro la moscaiola della finestra, Vico vide un uomo salire per il viottolo: doveva essere il babbo “quell’altro”. Si guardò intorno per cercare un nascondiglio: sotto l’acquaio lo avrebbero visto subito, il camino era acceso sotto la pentola e bruciare vivo sarebbe stato ancora peggio. Allora scappò nel granaio, arrampicandosi veloce come una lepre su per la scala a pioli: da dietro i cannicci stesi con l’uva a seccare, sentiva la Rosa, Piero e una voce sconosciuta che lo chiamavano.

« Sta’ a vedi che s’è rintanato ni’ granaio » babbo Piero si arrampicò sulla scala appoggiata al muro esterno della casa.

« Eccolo qui! Furfante, icchè tu ci fa’ costì?… l’è mezz’ora ti si cerca!».

Mentre loro prendevano il caffè, Vico si guardava intorno: il tavolo con le cicatrici dei coltelli e gli occhioni cerchiati di vino, le sedie impagliate, la stufa, la padella nera per il croccante. Non avrebbe più rivisto la Madonna triste sopra la porta, la mezzina di rame sull’acquaio, la finestra con la rete per le mosche. 

Il babbo, quello nuovo, si batté le mani sulle cosce e mise una busta sul tavolo.

« Allora si va giovanotto! Ci sono diciassette chilometri da fare!».

La Rosa li seguì per la discesa fino all’aia dove era il calesse, tirava su col naso e si asciugava le lacrime ai polsi del vestito buono. Vico non capiva se piangeva di tristezza per lui o di gioia per quella busta che però non si era infilata nella tasca del grembiule: l’aveva lasciata sul tavolo per buona creanza. […]


La vera storia di Micius Maus                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                          

 

Il giorno che Micius Maus nacque, infuriava un violento temporale e quando un fulmine cadde sul pozzo dietro la fattoria, tutti scapparono, mamma compresa: i gatti si infilarono nelle grate delle cantine, i topi nelle tane, le galline ammutolirono nel pollaio e i cani abbaiavano, impazziti, sotto la tettoia dell’aia. 

Perciò il cucciolo non seppe chi fosse la sua mamma, sparita come un lampo tra i lampi. 

Il giorno dopo, quando un bel sole giallo come un tuorlo d’uovo tornò ad asciugare la campagna, una processione di gatte, galline e oche sfilò davanti al piccino dagli occhietti ancora chiusi e le zampe malferme. Ognuna giurava di essere lei la mamma. 

«Ma non vedete come mi somiglia?»

«Macchè, è il mio cucciolo che avevo perso!»

Chi diceva che era un topo, chi sbraitava che era un cane. Una papera disse che di un pennuto si trattava e, quindi, sarebbe stata comunque lei la più adatta.

Insomma, nel dubbio, lo adottarono tutti, col nome, pensa che ti ripensa, di Micius Maus.

Per un po’ il piccolo fu felice, coccolato da micie e galline. Crescendo, però, cominciò a chiedersi chi fosse davvero. Dopo la pioggia si specchiava nelle pozzanghere e si osservava: era un micius? O era un maus? E se invece fosse stato un baus? I baffi c’erano, li avvertiva chiaramente vibrare e gli facevano pure il solletico. Le orecchie anche, perché ci sentiva e molto bene. La lingua, il naso, la coda, nulla lo aiutava a capire se fosse un gatto, un cane o un topo. 

Le cose si complicarono quando cominciò a crescere. Non era più un piccolo da proteggere e arrivava sempre un cucciolo nuovo, un figlio vero, da accudire. Perciò Micius Maus si sentì sempre più solo.

Peggio ancora fu il momento in cui, dal chiedersi chi fosse, cominciò a chiedersi chi ‘non’ fosse.

Non vi dico come ci rimase quando, dopo tanto pensarci, si fece coraggio e avvicinò una micina dagli occhi bicolori, uno di miele e uno di moscondoro: «Ma che fai? Non sei nemmeno un micius!» urlò quando lui le posò una zampa sulla spalla. Il poveretto, pieno di vergogna, non si fece vedere in giro per giorni e giorni. 

O quando si avventurò a guardare da vicino la barboncina nella villa dei padroni: «Cosa mi spii? Vattene! Non sei nemmeno un baus!». Quella volta rimase anche parecchio impaurito, così si guardò bene dal varcare di nuovo il cancello aperto sul viale di cipressi.

Anche quando si invaghì di una topolina dalle orecchie rosa, dovette tornarsene, lesto lesto e a coda bassa, da dove era venuto. Lei gli piantò in faccia due occhietti neri come pallini da caccia, urlando: «Ma sei scemo? Coi pretendenti che ho, dovrei guardare te? E non sei neppure un maus!»

La notte rimaneva sveglio vicino al pagliaio a contare le stelle. I grilli cantavano: loro erano felici, pensava. Durante una di quelle notti insonni decise di andarsene. […]