Nicoletta Mongelli - Poesie

ESSERE VIVA AL SOLE

 

Seduta sulla spiaggia,

occhiali da sole sulla punta del naso spellato,

un bambino gioca accanto a me,

è da solo ma cantando spiega il gioco ad un compagno immaginario,

che tenerezza, la madre mi sorride vedendo che seguo con lo sguardo suo figlio.

Pigramente mi allungo e mi stiracchio,

mi sento viva, più viva, più viva che mai.

Anche se immobile sono più viva che mai.

La gente attorno a me esiste solo perché mi fa da contorno.

Ridendo a questo pensiero mi giro per rosolarmi la schiena.


 

SOLI E’ PIU’ BELLO

 

Finalmente a casa.

Chiudo la porta al mondo assordante che mi ha fagocitato per tutto il giorno.

Un attimo che dura più di una vita.

Un momento di gioia pura, di sicurezza che niente e nessuno è mai riuscito a darmi.

Qualcosa di mio che non mi verrà mai strappato.

Qualcosa che non temerò di perdere.

Mura solide, solo mie.

Non farò entrare nessuno.

Tranquillità, bramo solo te.

Non come quel giorno di pioggia che permisi al mio cuore ed alla mia porta di aprirsi per te.

Per te che dopo pochi anni mi abbandonasti, mi lasciasti per mai tornare.

Povero cucciolo mio!

E piango stupidamente sulla tua foto dalla quale mi guardi con i tuoi grandi ed umidi occhi scuri,

le orecchie tese, la coda dritta e la lunga lingua rosa penzolante dalla bocca.

Nella casa silente non c’è più tranquillità ma ricordi.


 

LA CASCATA

 

L’acqua che scorre pigra

o con l’impeto di una cascata è come la nostra mente,

i pensieri che variano durante il giorno.

Un ricordo tranquillo è come lo scorrere lento di un fiumicello in pianura

con gli alberi e le fronde che si specchiano.

Un ricordo angosciante che si affastella nella nostra testa

è come un torrente ed una cascata tumultuosa

che lascia senza fiato.

E poi delle bolle mi scoppiano in faccia:

la verità.

Quelli sono i ricordi come noi li vediamo,

un po’ offuscati,

un po’ mossi dal vento come attraverso un velo di lacrime.


 

UNA DEA

 

Il castello si appoggiò sulla sabbia del deserto e da esso uscì una Dea.

Una Dea furiosa: lunghi capelli sciolti sulle spalle, occhi di fuoco, braccia possenti levate in aria a maledire.

E la sua bocca lanciava orribili malefizi contro di noi.

A noi che non credevamo più in Lei.

A noi che avevamo dimenticato al di là del tempo dei nostri avi.

Piccoli, eravamo solo dei piccoli esseri ai Suoi piedi.

Terrorizzati fuggimmo il più lontano possibile da Lei ma il castigo fu ancora più forte della punizione che avrebbe potuto imporci: vagare senza meta e con la paura nel petto, sussultare per ogni rumore, temere un ramo smosso dal vento.

E cominciammo ad offrire alla Dea sacrifici umani per placarla e per essere perdonati.

Tutto ricominciò, era quello che Lei voleva: la nostra paura, il capo chino di fronte a Lei che ormai se ne era andata a terrorizzare altre terre.

Per qualche secolo non sarebbe tornata ma proprio quando noi avremmo cominciato a ergerci sulle nostre gambe ed a non temerLa più, ecco Lei sarebbe tornata.

…il castello si appoggerà sulla sabbia del deserto …


 

DOMANDE

 

Bambina: Dimmi mamma, perchè quella rosa non ha gambe?

Mamma: Perchè è un fiore ed i fiori rimangono attaccati alla terra o si mettono nei vasi con l’acqua.

Bambina: Ma allora non vive? Non ha nemmeno la parola?

Mamma: No, non è vero, vive ma non può parlare. Non vive più quando è appassita ed i petali diventano   pieni di grinze.

Bambina: Come il nonno?

Mamma: Bhe, insomma, quasi.

Bambina: Ma allora perchè il nonno si lagna e la rosa no?

Mamma: Perchè il nonno è un uomo e l’uomo è un animale e l’animale ha le corde vocali e parla. Il fiore è un   vegetale e non parla, non cammina ma anch’esso soffre se gli facciamo del male.

Bambina: Non si possono staccare le foglie allora? Esce sangue?

Mamma: No, non esce sangue ma gli fai male ugualmente. Bisogna rispettare la natura.

Bambina: E perchè il babbo ha preso le forbici ed ha tagliato la rosa e te l’ha portata? Non gli ha fatto male    lui? Perchè lo ha fatto?

Mamma: Ma ogni tanto gli uomini tagliano i fiori per farne dono alle loro compagne, per farle contente. A   volte coltivano i fiori proprio per poi tagliarli.

Bambina: Non è giusto, non è giusto. – grida la bambina singhiozzando – è cattivo il babbo e sei cattiva       anche tu. Perchè volete far del male a qualcosa che non sa difendersi o piangere o gridare?

 

La bambina si allontana insensibile ai richiami della madre.

Ora è in giardino davanti al roseto contemplando il ramo reciso:

“Poverino, ora sei solo, ma non piangere, la rosa la curo io, la pianterò così avrai tante sorelline uguali a te. E’ stato cattivo il babbo con voi vero? Ed anche la mamma. Tante belle parole e poi ecco il risultato. Come sono stupidi gli uomini. Almeno non si giustificassero!”


 

OSPEDALE lettera alla mamma

 

Cosa mi rimarrà impressa nella memoria negli anni a venire quando tu non ci sarai più?

Quel balbettio incoerente con cui mi accogli in questi giorni all’ospedale o ricorderò la madre che, quando ero bambina mi aiutava a studiare le poesie facendo il girotondo?

Quante volte in questi ultimi giorni ho ricordato che i gesti per accudirti che io faccio ora in modo impacciato tu li facevi per me un tempo magari ridendo!

Quante volte mentre ti imbocco e col tovagliolo tergo le tue labbra che non riescono a chiudersi bene, penso che con maestria, tu l’hai fatto a me ripetendo certamente le solite sciocche e deliziose litanie per farmi sorridere ed aprire così la bocca caparbiamente chiusa.

Quante volte mi hai lavato le mani baciandole alla fine ed ora mi sono riscoperta a fare la stessa cosa con le tue mani dalle vene così evidenti che sembrano dover scoppiare da un momento all’altro.

Quante volte mi hai pettinato amorevolmente e mi hai fatto un buffetto sulla testa per farmi capire che avevi finito ed oggi mi sono ritrovata il tuo capo fra le mani e non ho potuto nemmeno farti quel buffetto perché temevo di farti male tanto sei fragile.

E così ti ho baciato sulla guancia liscia come un tempo era la mia, liscia e diafana, di una fragilità mai sentita. Sono scomparse le stupide liti, le parole cattive, i brutti pensieri, sono rimasta solo io con te fra le braccia.


 

LA GITA

 

Nella settimana precedente alla prima gita di famiglia, che avveniva all’inizio di giugno, mia madre era nervosa ed agitata, doveva pensare al pic-nic imminente, alla borsa per contenere tutto, ai vestiti di noi bambine, al foulard da mettere sulla testa per non scompigliarsi i capelli. I capi d’abbigliamento non si usavano dall’anno prima e per me che ero in crescita, la mamma doveva trovare qualcosa di adatto magari tra le cose troppo piccole di mia sorella e riposte in bell’ordine nelle scatole sopra l’armadio. Mentre mamma, borbottando, apriva e chiudeva le scatole nella sua annuale ricerca, io mi rannicchiavo dentro l’armadio con le ante panciute di legno scuro e lucido che profumava di buono seguendo con gli occhi il suo andirivieni. Odoravo i cappotti che mi circondavano e che nascondevano nelle tasche le bianche palline di naftalina. A volte la micia Mustafà mi raggiungeva appallottolandosi solo a metà sulle mie gambe incrociate perché troppo piccole per ospitarla tutta.

Finalmente arrivava il sabato e la piccola cucina profumava fin dal primo mattino di sugo che borbottava sulla cucina a gas. Rimanevo incantata a guardare dal basso la pentola ed il susseguirsi del lento alzarsi ed abbassarsi delle bolle rosse. Mia madre odiava i coperchi e, disubbidendo a mio padre, alzava sempre troppo il gas che fuoriusciva dalla pentola con lingue azzurrognole. Sapevo che se papà fosse venuto in cucina avrebbe aggredito mamma e sarebbe iniziata una delle solite litigate, lunghe e strazianti ed inutili che si svolgevano troppo spesso nella mia casa. Mamma intanto mi allontanava dalla cucina dicendomi che era pericoloso rimanere così vicina alla pentola bollente e che potevo tirarmela addosso. Ricordo che non capivo quei rimbrotti, non ero stupida da afferrare una pentola calda, papà mi aveva fatto sentire quanto bruciavano le cose che si mettevano sul fuoco avvicinando, ma non troppo, la mia manina al calore, dicendomi che se era caldo caldo lì vicino lo era molto di più dentro e non lo avrei certo fatto.

La domenica mattina eravamo tutti svegli all’alba. Mamma preparava la frittata di pasta col sugo del giorno prima mettendo al centro la mortadella ed il formaggio, panini rigorosamente ripieni di prosciutto cotto per noi piccole e salame per gli adulti, bottiglie d’acqua, una di vino per mio padre e l’immancabile anguria che sarebbe stata immersa nel corso d’acqua che avremmo cercato nella nostra passeggiata.

Il mezzo che ci avrebbe portato alla tanto agognata meta era la Susanna: moto più carrozzino attaccato che ai tempi non sapevo si chiamasse sidercar. Era l’unica che avevo mai visto e pensavo non ne esistessero altre. Susanna era con noi tutte le sere, papà quando tornava dal lavoro, metteva due tavole di legno sui sette gradini della scala e, con fatica, inerpicava la sola moto lasciando il carrozzino nel cortile davanti alla finestra della sala da dove lui, fino al momento di andare a letto, controllava che fosse sempre al suo posto ben riparato dalla cerata pronta a coprirla da eventuali piogge. Mentre mio padre riassemblava la moto, mia madre, dopo aver riposto i viveri in fagotti fatti con gli asciugapiatti e dentro un borsone a fiori, ci preparava dicendoci di collaborare e di sbrigarci altrimenti il babbo si sarebbe arrabbiato con noi e non era il caso di farlo guidare nervoso. La giacchina era chiusa fino all’ultimo bottone sotto il collo e mi tirava perché sotto avevo la prima sciarpa arrotolata, la seconda invece mi circondava all’esterno finendo in un nodo sotto il mento non prima di avermi coperto gli occhi e, quando mi lagnavo, mia madre sbuffando diceva che dovevo tenere il naso al coperto, mia sorella avendo pietà di me, appena la genitrice si allontanava me la sistemava in modo che potessi vedere dove andavo. Il cappello di lana era ben calato sulle orecchie e non aveva importanza se fuori c’erano 15 o 35 gradi noi dovevamo essere ben coperte per non prendere freddo. Finalmente eravamo tutti in cortile con i miei vicini che spiavano da dietro le tende e con mia madre che, infastidita, cercava di accelerare le cose. Papà, sbuffando, spingeva la Susanna verso il cancello che veniva aperto dalla custode che ci sorrideva scuotendo la testa e scambiando con mia madre un’occhiata di cordoglio, dopo i discorsi fatti nella settimana precedente in cui mamma si lagnava di DOVER fare la gita per il bene e l’armonia della famiglia. Tutti a bordo, pà e mà sulla moto, mia madre con il capo strettamente coperto per non lasciare nemmeno un ricciolo libero nel vento, papà con gli occhiali da vista ricoperti da leggeri schermi colorati. Noi incastrate nel carrozzino con mia sorella sul sedile ed io seduta fra le sue gambe. Ci proteggeva dal vento e dai moscerini un parabrezza di picoglass. Delle gite non ricordo nulla di particolare, c’era tanto verde, una coperta stesa, le formiche che a plotoni si impossessavano delle briciole del nostro pranzo, i giochi con la palla, l’attesa dell’anguria fresca ….ma è rimasto invece indelebile nella mia mente i preparativi e soprattutto l’ultima cosa che dovevamo fare per scaramanzia perchè il viaggio non avesse problemi, prima del colpo di gas che mio padre dava alla moto; mia madre ci guardava, faceva il segno della croce chiedendoci con gli occhi di fare altrettanto e tutte e tre iniziavamo a recitare il rosario: Ave Maria gratia plena, Dominus tecum, benedicta tu in mulieribus… rigorosamente in latino. E’ così che ho imparato le preghiere.


 

QUALE SUPERPOTERE?

 

Un buffo ometto rubizzo mi si avvicina con passo saltellante mentre leggo un libro attendendo la metropolitana:

“Signora potrebbe indicarmi qual è la fermata per il Castello?”

“Certo – rispondo con un sorriso – deve scendere a Cairoli.”

Si liscia con due dita i baffetti perfettamente pettinati, si passa una mano sui candidi capelli raccolti in un ordinato codino fermato da un nastro di velluto bordeaux dello stesso colore del cravattino a forma di farfalla che troneggia su una bianca camicia di flanella, il tutto completato da un vestito in velluto blu troppo elegante per un semplice giorno lavorativo.

“Molto gentile da parte sua aggiungere all’informazione quel bel sorriso” –il suo di sorriso è dolce ed ha gli occhi chiari, lucidi e velati per la vecchiaia – “E per questo ti faccio un regalo” – passa al tu ed appoggia una mano macchiata dalle efelidi sul mio braccio facendomi sentire un brivido – “hai 24 ore di tempo per sceglierti un superpotere, ci troviamo domattina qui alla stessa ora.”

E con un saluto del capo svanisce davanti ai miei occhi. Mi guardo attorno per vedere come reagiscono gli altri che mi circondano ma la metro sta entrando in stazione e tutti sono indaffarati ad avvicinarsi alla riga che separa la banchina al treno e sembra che nessuno abbia notato la conversazione e l’uomo. Rimango immobile anche quando il treno si allontana col suo carico di carne umana.

‘Ma che diavolo è successo?’ – Mi chiedo.

“Nulla” – risponde una voce nella mia testa facendomi fare un balzo – “toccandoti il braccio ci siamo sintonizzati. Chiedi pure.”

Una marea di domande mi affollano la mente, non faccio a tempo a formularle che lui mi risponde:

“Sono un genio, hai presente quello tutto blu della lampada di Aladino? Era un mio lontano parente. Ho poco tempo per concedere il mio ultimo desiderio e poi finalmente divento completamente umano e comincio a godermi la vita. Ho deciso di farti un regalo perché mi sei simpatica. Gli altri desideri li ho già piazzati mi è rimasto solo questo, non è facile da sbolognare, occorre una persona equilibrata perché altrimenti potrebbe fare danni. Che altro c’è da sapere? È un ottimo regalo? Non credi a quello che ti ho detto? Non credi che io sia magico? Va bhe forse così ti convinco.”

Ed in una frazione di secondo mi ritrovo nel bagno del mio ufficio. Mi appoggio al muro ansimando come se avessi fatto una corsa.

“Vuoi altri esempi?” – riprende la vocina.

“No basta, sono già abbastanza terrorizzata!”

Alla fine mi convinco che la cosa è vera, ho a che fare con un essere sovranaturale che mi può dare un superpotere che mi accompagnerà per sempre. Non è facile decidere ce ne sono tanti: teletrasporto/telecinesi/telepatia/mutaforma/viaggi nel tempo/invisibilità/volare/parlare con gli animali/super forza, la cosa più utile sarebbe schioccare le dita ed ottenere quello che si vuole cioè quello che faceva in quel telefilm di quando ero bambina la mitica strega che muovendo il naso otteneva tutto quello che voleva, ma per questo il mio amico genio ha già detto un sonoro: NO.

Sono tutti affascinanti, interessanti, sono emozionata e confusa, entro domani devo decidere.

Dopo una notte insonne a catalogare e spulciare tra i superpoteri mi ritrovo nello stesso posto della mattina prima ed ecco il vecchietto che sorridendo mi raggiunge:

“Muoviti, dimmi che hai deciso.”

Sono incerta tra teletrasporto istantaneo e mutaforma. Andare in qualsiasi posto in un lampo, portando con me chi voglio, sarebbe fantastico ed anche nel quotidiano sarebbe una pacchia, dal letto al lavoro in un battito di ciglia senza dover subire code interminabili che io odio nel traffico caotico di Milano! E poi penso a quello che potrei fare per entrare nei posti chiusi come i caveau di una banca e prendere tutto quello che voglio, quando voglio ed ancora di notte nei negozi per vestiti e gioielli. Mi vergogno di me stessa ed allora penso ai bei viaggi che potrei fare portandomi dietro parenti e amici , poter visitare tanti paesi senza perdita di tempo in viaggi lunghi e noiosi: Machu Picchu in cima alla piramide col sole ed il vento che mi schiaffeggiano, l’Everest, senza la fatica di arrivare alle varie basi, sentire il fiato che si spezza per l’altitudine e poi raggiungere Marte o un qualsiasi altro pianeta avvolta in una bolla che mi permette di respirare, fornire all’umanità tutte le informazioni necessarie per imparare e conoscere le galassie.

E d’altra parte essere un mutaforma mi affascina, correre con le gazzelle, essere un leone che si aggira tra il branco strusciandomi sul loro manto ed ancora diventare un bicchiere tra le mani di Brad Pitt o essere una sedia in una stanza di scienziati. Potrei fare la detective privata e risolvere molteplici questioni sostituendomi ad oggetti comuni ed assistere ad incontri segreti e poi scoprire tutto quello che la gente tiene nascosto o essere un bottone sul cappotto di un marito infedele.

Bene sono pronta: “Vorrei avere il potere di vedere e curare le malattie ed i dolori.”

Ma da dove è venuto fuori questo? Ormai è fatta. Questo ho detto e questo ho ottenuto.

Vedo il vecchietto che sembra ringiovanito di vent’anni avviarsi su per le scale con aria pimpante.

Mi ritrovo ora con un potere difficile da gestire, da dove cominciare? Mi avvicino al treno che sferragliando entra dalla galleria. La signora vicino a me è cinese e tiene gli occhi bassi mentre viene spinta dagli altri.

I nostri gomiti si toccano nella ressa ed ecco che sento, attraverso il cappotto, che lei sta male, ha la bronchite ma non può rimanere a casa perché lavora in nero e se dovesse assentarsi verrebbe licenziata.

La sfioro con la mano e sento che qualcosa cambia, ora la mia mano diventa pesante, la scuoto ed è come se mi liberassi da un ingombro. La cinesina con un grande sospiro alza gli occhi e, appoggiandosi una mano al torace, sorride. Bhe allora sono anche un po’ telepatica se ho percepito i suoi pensieri, per un secondo sono entrata nella sua mente ed ho scoperto tutto di lei. In fondo questo potere non è male, mi guardo attorno, adesso a chi tocca?

Sento nella mia mente una risatina soffocata. Ma il mio genio non doveva diventare totalmente umano?

“Privilegi di un ex genio.” – sento che mi risponde.


 

 

 

STREGA SI DIVENTA NON SI NASCE ….  

 

Mi hanno consigliato di tenere un diario per aiutarmi a gestire il mio carattere e così mi presento:

sono una piccola strega bianca e non perché sono minuta ma proprio perché ho poche capacità.

Il mio aspetto, al contrario, è da matrona, alta e con una faccia banale.

Le mie parenti invece sono in gamba, tutte quante: tre sorelle, una madre, una nonna ed una bisnonna detta Bis di ben novantotto anni. La parte maschile della famiglia non ha resistito, è schiattata tutta. Le mie donne come le chiamo io, godono tutte di ottima salute.

Io invece, ne ho sempre una: raffreddore, tonsilliti, pressione alta, reumatismi, mal di testa, allergie ed una molteplice di piccoli fastidi, insomma passo la giornata a starnutire ed a tenermi la testa o la schiena, ho una piccola farmacia ambulante in borsa e tutte le sere ho almeno tre compresse da prendere.

La mia famiglia ed io abbiamo tentato con le arti magiche di far scomparire tutti i miei malanni ma non abbiamo concluso nulla e la medicina classica fa ben poco.

Le miei parenti vivono radunate alla periferia di Milano in una villetta anzi una villotta visto la quantità di stanze.

Anche noi, come tutte le brave famiglie di streghe bianche, abbiamo un gatto ma non il classico gatto nero dagli occhi verdi maliziosi come fanno vedere nei film ma un normale gatto chiamato Menelao, anzi un maxi gatto visto che pesa sette chili, di un colore rossiccio con striature bianche ed il naso schiacciato. Fa le fusa a tutti quelli che facciamo entrare in casa e appena può si sdraia su chiunque sia intenzionato a dargli una grattatina; soprattutto sul malcapitato che occupa la sua poltrona dove normalmente dorme, il nostro micio ritiene tale persona come parte della poltrona stessa e quindi di sua proprietà. Si lava, si fa le unghie, dorme, si stiracchia e ride, già proprio così mostra i dentini stirando le labbra, le mie sorelle ci hanno impiegato più di sei mesi ad insegnarglielo quando era piccolo. La cosa lascia sconcertati tutti quelli sottoposti al suo terribile sogghigno che noi troviamo estremamente simpatico. Ma ha tutte le capacità di un gatto da strega: guardandolo intensamente, naso contro naso, comincia a ronfare in sottofondo chiudendo gli occhi e ci aiuta a concentrarci come non mai, purtroppo a me non serve a niente ma lo faccio ugualmente perché mi rilassa. Avverte a distanza persone indesiderate o male intenzionate o i venditori porta a porta e ci avverte. I suoi peli sono da noi utilizzati in parecchi rituali e pozioni.

Le mie sorelle sono tutte carine, alte, snelle e slanciate, bionde come il grano maturo, con deliziosi nasini all’insù, stessi lineamenti delicati, stessa forma del viso con zigomi alti, occhi a mandorla. Due di loro hanno gli occhi verde smeraldo e l’altra ha gli occhi azzurri come mio padre. Ovviamente assomigliano alla mamma che, anche se non più giovanissima è uno splendore.

Tutte loro, compresa mia madre hanno ammiratori da vendere, perfino la Nonna con i suoi settantaquattro anni ed i suoi capelli color rame, una tonalità che nessun parrucchiere potrebbe copiare, ha più fidanzati di me! Oltre alle cose già menzionate, posso dire che ho i capelli neri come Calimero, pelle pallida come una mozzarella, occhi scialbi verde marcio e soprattutto sono….abbondante, ma proprio bella abbondante e tutte le diete fatte non hanno apportato a nessun cambiamento: dimagrisco di tre chili e dopo il fine settimana sono aumentata di quattro. Assomiglio alla Bis come colori ma da giovane lei era una bella mora con incarnato marmoreo e compatto, con qualche efelide sul naso e due occhi verde mare. Ora alla sua veneranda età è ancora un amore, paffutella e con un sorriso che fa invidia ad una pubblicità di dentifrici. Sono la sua spina nel fianco, tutte le altre sono riuscite così bene! Io invece solo a metà.

Le mie sorelle non hanno molta voglia di lavorare ed hanno creato una loro attività aprendo un negozio di parrucchiera/visagista/massaggi gestito per lo più due cugine, nostre amiche di vecchissima data che ci hanno fatto da babysitter quando eravamo cucciole. Lucilla detta Lux e Penelope detta Pin-Pin cosa che lei non apprezza molto. Ovviamente loro sanno tutto di noi e ne sono entusiaste ancora oggi dopo tutti questi anni.

Le loro cape vanno tutte le mattine in negozio per non più due ore per vedere come va, salutano, prendono il caffè con le fidate amiche, chiacchierano, fanno qualche incantesimo per i casi disperati delle clienti, specialmente quelle che hanno bisogno di ‘energici massaggi’ e se ne vanno a divertirsi per tutto il resto del giorno.

Mamma invece da un po’ di tempo è sempre in Parrocchia e la cosa ci aveva preoccupato fino a quando non abbiamo scoperto che il sacrestano è un affascinante signore di mezza età.

Invece io sono in un periodo nero, ho appena lasciato l’ennesimo ragazzo che pensavo fosse figo che poi però si è dimostrato il solito egoista figlio di papà.

Quindi sono demoralizzata e le mie donne che non sanno nulla si ritrovano una parente musona ed intrattabile che entra in casa loro come una turbolenza malefica, che litiga con tutte e che esce sbattendo la porta borbottando. Ho provato, per sfogarmi a fare piccoli malefici con le mie arti ma non sono riuscita a mandare a segno nessuna cosa. Figuriamoci, non riesco a fare la strega bianca che è la nostra natura, ti puoi immaginare se riesco a fare il contrario.

Le uniche che potrebbero fare qualcosa in questo campo sarebbero la Nonna e la Bis perché sono abbastanza anziane per aver accumulato poteri di tutti i generi. Ma non chiederei loro mai di fare qualcosa per vendicarmi, sono troppo orgogliosa anche se ogni tanto mi faccio prendere dalla fantasia ed immagino di poter mandare a segno una piccola dissenteria, la mosca nella minestra, 52 piccoli tagli quando si fa la barba….

Le mie sorelle sono invece brave solo con l’aiuto di pozioni ed incantesimi, quando saranno più anziane potranno farne a meno ma per il momento devono servirsene per ottenere qualcosa anche se, essendo poco studiose e molto distratte, sono sempre a caccia del sortilegio giusto e si dimenticano quasi sempre almeno un ingrediente nelle pozioni con notevoli variazioni, a volta grottesche, sul tema di quello che avrebbero voluto ottenere.

Ed è per quello che esistono le sorelle poco dotate che da ragazzine hanno studiato come far funzionare delle semplici rime se sono esposte in un certo modo. Infatti almeno una volta alla settimana una di loro mi telefona perché ha combinato qualche pasticcio. Il brutto è quando mi contattano in ufficio in banca dove lavoro. Infatti devo dire formule magiche che alle orecchie delle mie colleghe risultano come stupide filastrocche oppure devo menzionare l’ingrediente che non ricordano, è imbarazzante, non è semplice giustificare il fatto che borbotti a qualcuno dall’altro lato del filo:

“questi capelli difficili son da trattare

ma noi qualcosa dobbiamo inventare

lanciamo nel cielo un luminoso strale

e la pettinatura così da sola si ha da fare

Oppure:

“la mano poi passa sopra la macchia

tutto scompare ed è una pacchia.”

Mi è successo di dover consolare una sorella in lacrime che piangeva talmente forte da farsi sentire dal funzionario nell’altro ufficio e doverle dire:

“L’unghia di licaone Sil, l’unghia di licaone, non è possibile che te lo dimentichi tutte le volte che fai…..l’infuso.”

E’ proprio difficile da far accettare che è una vecchia ricetta di famiglia per il mal di pancia.

Dai miei colleghi ho sentito dire di tutto, che sono eccentrica ed ancora che faccio tutto questo per darmi delle arie e fare la misteriosa, al fatto che tutta la mia famiglia, me compresa ovviamente, è un po’ tocca.

Già ho specificato solo un nome delle mie sorelle. Sil che sta per Silvestra, poi c’è Aria che si fa chiamare Ariel ed infine la più piccola Odi per Odorosa. I miei genitori hanno dato nomi strampalati perché sono diventati salutisti dopo la mia nascita, io sono Lea (Leo per la famiglia). In realtà sono Leona perché mi hanno concepito facendo un safari in Africa. I mie cari volevano una famiglia molto numerosa, infatti noi abbiamo un anno di differenza una dall’altra e si erano messi di buzzo buono affinchè la cosa avvenisse, li ha fermati la morte di papà. Mia madre aveva fatto di tutto perché il tumore che aveva invaso mio padre si fermasse e forse, se avesse avuto accanto Nonna e Bis, ce l’avrebbe fatta ma queste erano in Australia ad una Estab (così si chiama un simposio di streghe bianche), completamente isolate e dopo il tam-tam telepatico di mamma erano arrivate ma con due giorni di ritardo.

Mio padre era l’unico uomo del parentado che aveva saputo tutto prima del matrimonio, gli altri, gli avi di sesso maschile, era stati ‘infinocchiati’ come dice la mia Bis per la riproduzione, ma mia madre era talmente innamorata che non aveva voluto segreti con il futuro consorte e dopo una settimana di risate da parte di papà e di dimostrazioni da parte di mia madre (soleva dire lei ricordando quei tempi che lui si era convinto quando gli era spuntata una bella coda da scoiattolo) il mio magnifico genitore aveva accettato la situazione, sposato immediatamente mamma ed in viaggio di nozze avevano messo in cantiere me. Papà sapeva che Mà avrebbe fatto un incantesimo per ogni gravidanza per far nascere solo femmine che ereditavano i poteri ma aveva accettato di buon grado la cosa perché diceva che adorava essere contornato dalle sue streghette. Quando lui era morto i libri magici della famiglia erano passati alla primogenita della nuova generazione quindi a me in quanto mamma, essendo vedova, faceva parte ormai delle ‘vecchie’.

Così sono le regole della nostra congrega. Quello che mi fa rabbia è che le mie sorelle hanno le chiavi di casa mia ma, quando sono in crisi per un rito magico od un sortilegio, formule magiche o pozioni, non vanno a consultare i libri ma chiamano la sottoscritta e questo perché sono pigre e viziate. In fondo non mi posso lagnare perché ho contribuito anch’io per farle diventare così. Anche se abbiamo una minima differenza di età quando erano piccole le avevo sempre difese dalle ire delle Grandi di casa, io ero molto diversa, non spostavo giocattoli con la mente ne riuscivo a far sparire i broccoli dal piatto, dovevo fare tutto sulle mie gambine rotondette ed ero diventata molto responsabile in poco tempo. Come era dispiaciuta la mamma quando si era resa conto che ero in grado solo di far cambiare il colore degli occhi dell’orsacchiotto o a far bollire l’acqua più in fretta o altre quisquiglie del genere. A bassa voce Ma’ diceva alla Nonna fra le lacrime:

“E’ proprio quasi come una Cowan, proprio come una degli altri, dei normali” – e proseguiva angosciata –  ”sembrava tanto promettente appena nata….”

Poi si era consolata con le altre, io però ero rimasta la sua coccola, un po’ come il brutto anatroccolo in mezzo ai cigni anzi alle cigne solo che l’anatroccolo non si era mai trasformato come invece succede nella favola.

Era per quello che me ne ero andata dalla casa atavica, non mi sentivo a mio agio in mezzo a tutte quelle donne che mentre chiacchieravano del più e del meno o mentre si dipingevano le unghie facevano volare oggetti vari sopra la testa, facevano comparire una tazza di the e biscottini ancora caldi o affettavano cipolle col coltello che si muoveva guidato da una mano invisibile …

Avevo scelto un lavoro normale, una casa di due locali e l’unico mio vizio era una capatina, una volta al mese, presso il negozio delle mie sorelle per farmi coccolare da Lux e Pin-Pin. In questo periodo però odiavo tutto, il mio lavoro era noioso e ripetitivo, i colleghi poco interessanti, la mia vita sociale inesistente. Tante conoscenze ma nessuna vera amica con cui confidarsi e passare le serate. Sai che bello tra il primo e secondo tempo di un film dichiarare:

“Ah a proposito sai che ha fatto la mia sorellina più piccola? Per noia ha declamato una formula magica ed ha creato l’ingorgo di cui hanno parlato in tv. Che bricconcella.”

Questo è la presentazione della mia famiglia ma un giorno le cose si misero male.

Tutta la storia iniziò una mattina in ufficio nel reparto estero dove lavoro. Stavo combattendo col computer perché non mi accettava una transazione, la banca estera beneficiaria era scomparsa dai files ed io stavo cercando diligentemente controllando anche sotto altri nomi. Stizzita serrai le labbra e visualizzai la fatidica banca con gli occhi della mente: vidi la sua insegna, aveva semplicemente aggiunto un ‘the’ davanti al nominativo. Cercavo sempre di non utilizzare quel poco di magia che sapevo usare sul lavoro ma a volte, specialmente quando ero nervosa od arrabbiata, mi facevo prendere la mano. Suonò il telefono subito dopo. Odi stava già starnazzando dall’altra parte ancora prima che mi portassi la cornetta all’orecchio:

“Leo, Leo, come faccio, è diventata verde, capisci, verde ti dico ….”

La bloccai :

”Odi calmati. Riparti da capo, non ho capito nulla, chi è diventata verde e perché?”

Lorella la mia vicina di scrivania cominciò a ridere, le lanciai un’occhiataccia.

“La signora Lupi ha …..dei baffetti impossibili, non vanno via nemmeno con la depilazione definitiva e così mi sono stufata, le ho fatto l’incantesimo del PELO e …e…. e non so cosa ho sbagliato ma lei è diventata verde, verde pallido anzi tendente al senape e …”

“Odi smettila” – la interruppi irritata – “che importanza vuoi che abbia la sfumatura di colore, dimmi invece che diavolo hai detto, ripeti parola per parola.”

Odi si concentrò e dopo qualche secondo cantilenò:

Pelo, sulle donne non sei apprezzato

Segui le mie dita e vattene appannato

Anche il bulbo deve andar via

Come il pisello abbandona il bacello

Perché questa è la volontà mia.

Ho fatto i giusti gesti delle mani ed i peli si sono staccati e me li sono trovati sulle dita ma lei è diventata di quel colore. Ora le ho messo un asciugamano umido e caldo sul viso dicendole di riposare ma non posso tenerla qui in eterno, prima o poi….”

“Odi ascoltami, non urlare, ti sentono tutti qui, perché diavolo hai aggiunto quella frase sul…. ‘pisello’? Non potevi andare a leggere la formula nei libri invece che andare a memoria? Non senti che stona con il resto della frase? Non riesci a sentire la potenza delle parole quando le dici? No? Allora sei un caso perso. Va bene, va bene non strillare, fammi pensare un attimo…ok devi ripetere questo con le….movenze della coccinella” – dissi abbassando ulteriormente la voce.

Lorella ormai era sotto alla scrivania con le lacrime agli occhi dal gran ridere. Cosa avrei inventato questa volta per giustificare con la mia collega la conversazione?

“Allora devi dire” – proseguii concentrandomi –

Ora torni tutto quasi come prima

della mia stupida precedente rima

Quindi il pelo rimanga lontano

visto che ormai è sulla mia mano,

della pelle invece il colore

ritorni quello di sempre per favore.” – le formule magiche possono anche essere create al momento ma devono avere una certa forza per fare effetto e le mie sorelle sono un disastro. Ovviamente io ho talento per inventare queste cose ma se le declamassi io non farebbero nessun effetto.

“Devo ripetertela? No. Basta Odi, ho capito, ho capito, mi ringrazi la prossima volta. Ok. Vai adesso. Prima lo fai e meglio è. Ciao! Sì anch’io ti voglio bene sorellina. Riciao!”

Poi mi rivolsi a Lorella sentendomi una emerita cretina ma la mia collega mi fermò con la mano ed ancora ridendo:

“Lascia perdere Lea, non lo voglio sapere ora, fammi indovinare e prima dell’uscita ti dirò cosa potrebbe essere quella tua stramba conversazione.”

Tirai un sospirone, tutto quello che mi avrebbe detto lo avrei accettato dicendole che ci aveva azzeccato. Suonò nuovamente il telefono, era la mamma:

“Vieni immediatamente a casa è successo qualcosa a Bis.”

Tre minuti dopo ero in auto diretta alla villa. Mi accolse Nonna con una faccia tirata ma era calma.

“Bis è scomparsa, abbiamo ricevuto una telefonata, dicono di averla rapita e che la rilasceranno solo se noi li aiutiamo a ‘ripulire’, hanno usato proprio questa parola, una gioielleria. Ci lasciano fino a domani per inventare come fare. Qualcuno ha spifferato tutto su di noi .” – mi fissò con tono accusatorio.

“Non guardare me” – le dissi entrando in soggiorno e lasciandomi sprofondare nella mia poltrona preferita vicino al caminetto costantemente acceso e con una pentola sopra il fuoco sfavillante, una piccola mania di Bis. Menelao mi balzo in grembo per farsi coccolare.

Senza pensarci agitai la mano ed il fuoco si ravvivò. Lo guardai allibita, ci avevo provato tutto il pomeriggio della domenica prima e non avevo combinato nulla, nei momenti di tensione avevo sempre ottenuto di più dalle mie poche capacità.

La porta si spalancò di colpo ed entrarono, con una folata di vento, le mancanti del gruppo.

“Dimmi che non è vero” – disse Aria piagnucolando.

“Non cominciare” – le disse Mà comparendo sulla porta – “si può sapere perché non sono riuscita a comunicare con nessuna di voi ed ho dovuto usare il telefono?”

‘Già’ – pensai – ‘io ed Odi eravamo al telefono e quindi i nostri cervelli erano OCCUPATI.’

Le altre due si giustificarono dicendo che stavano facendo esperimenti per ampliare le loro facoltà, probabilmente stavano invece giocando a fare canestro nel cestino della carta straccia in negozio con le creme senza romperne alcuna.

Quando eravamo impegnate intensamente con le sinapsi a fare malie o stavamo comunicando già tra di noi, non eravamo in grado di captare una chiamata da qualcun’altra. Non siamo proprio telepatiche nel vero senso della parola ma riusciamo a sentire se le altre hanno bisogno di noi, avvertiamo più i sentimenti che altro, quindi siamo più empatiche. Ci chiamiamo in quel modo raramente, solo quando ci sono delle necessità o se si sta preparando una Estab.

“Dobbiamo concentrarci e sentire se Bis sta bene e possibilmente capire dov’è!” – disse mamma sedendosi sul mio bracciolo – “Leo” – e si girò verso di me – “tu sei la più affine a Bis e farai da fulcro. No non contraddirmi, sarai solo il recipiente dove ci accoglierai e poi ci lancerai, questo sei in grado di farlo bene quanto noi, ne sono sicura.”

Ci preparammo anche se io avevo molti dubbi. Il nostro punto di riunione era al piano di sopra, nella stanza centrale, senza finestre. Le candele si accesero appena mettemmo piede nel locale, merito della Nonna, ci sedemmo in circolo sul folto tappeto, io al centro con Menelao accanto, incrociammo le mani sul seno e cominciammo a dondolare dolcemente concentrandoci.

Piano piano sentii arrivare nella mia testa i loro tocchi leggeri, ognuno riconoscibile come una impronta vocale. Si fecero più pressanti, sapevano che non potevano forzare la cosa, io non ero certo perfetta per farlo ma giustamente come diceva Mà ero quella che aveva lavorato di più con Bis su questo esercizio e conoscevo perfettamente la mente della nostra parente.

Mi sentii stracolma dei loro pensieri, tenni sotto controllo il panico che stava salendo dentro di me, dovevo rimanere calma e fidarmi completamente di loro aprendo la mia mente. Rilassai i muscoli contratti, girai la testa a destra e sinistra facendo scricchiolare il collo, ci furono proteste nella mia testa da parte delle altre. Feci un grosso respiro e lanciai lontano da me tutto quello che mi riempiva la mente con un grido strozzato. Sentii una debole eco, proprio debole ma ero sicura che Bis ci aveva ricevuto, lo sentirono anche le altre e ci furono sospiri e singhiozzi soffocati. Ci mettemmo in ascolto ma non sentimmo più nulla, dopo un’ora cedemmo.

Nonna ci radunò in cucina preparando distrattamente dei panini che noi sbocconcellammo.

“Adesso mi dite chi di voi ha parlato a vanvera a qualche Cowan” – sapevamo quello che intendeva, noi non avevamo il diritto di mettere in pericolo le altre facendo scoprire le nostre anzi le loro facoltà. Ci fu silenzio per qualche minuto, solo il rumore delle nostre mandibole, poi Sil scoppiò a piangere.

“Pensavo non mi avesse creduto e poi era ubriaco, anzi lo eravamo entrambi.” – Nonna la interruppe, le fece bere un bicchier d’acqua che comparve improvvisamente nella sua mano e la storia venne fuori: il venerdì precedente, mia sorella aveva incontrato un ragazzo Giancarlo in un bar e dopo una corte serrata da parte di lui e parecchi bicchierini aveva ceduto ed erano andati a cena e poi a casa sua. Qui il giovanotto aveva cominciato a vantarsi dei suoi trascorsi di atleta e Sil, non avendo nulla di eclatante da menzionare, aveva cominciato a far atterrare davanti a loro oggetti della stanza e poi a far comparire animaletti strampalati (era una sua mania da sempre incrociare gli animali ed animarli a dimensione ridotte sul tavolo dove stavamo mangiando facendoci fare dei salti indietro: uno scoiattolo con la coda del coccodrillo, un’iguana con metà corpo di pesce …., impressionante come questi poveri animali si trascinavano sul nostro bel tavolo di quercia mentre noi lanciavamo strilli acuti e Mà rincorreva Sil con il cucchiaio di legno per farla smettere). Dopo un momento di sgomento, Giancarlo aveva voluto sapere di più su di lei e sulla sua famiglia e mia sorella, completamente sbronza, orgogliosa dell’interesse del ragazzo aveva spifferato tutto.

Alla fine del racconto Nonna piangeva, Mà aveva il viso tra le mani e noi sorelle gli occhi puntati sui nostri piatti.

“Ma era proprio partito, non pensavo si ricordasse qualcosa perché mi sono ritrovata la mattina sul divano con un gran mal di testa e lui mi ha detto che dopo il quinto bicchierino non ricordava nulla. Perché avrebbe dovuto dire una bugia? Aveva già in mente questo? L’aveva elaborato durante la notte? Io …io….mi dispiace …io …”

Mà si alzò e le mollo un ceffone tanto forte da farle sbattere i denti. Tutte trattenemmo il respiro. Subito dopo la mamma l’abbracciò stringendola forte e piangendo con lei. Ormai la frittata era fatta. Dovevamo ora cercare di risolvere il problema.

La mattina dopo una notte in bianco eravamo distrutte.

Con il primo caffè della mattina arrivò anche la prima lite tra Sil ed Odi:

“Il buon senso si è perso tra il tuo cervello e la tua bocca” – disse Odi dopo uno scambio di battute sempre più aspre. Sil scoppiò in lacrime cosa che le succedeva ormai ogni venti minuti. Ci mettemmo a parlare tutte insieme fino a che Aria tuonò:

“State zitte ed ascoltate, non sentite niente voi?”

Dopo dieci minuti eravamo tese come corde e con un leggero mal di testa che stava aumentando vertiginosamente. Sentivamo sul fondo dei nostri pensieri un brusio continuo, era intelleggibile ma tutte noi sentivamo l’impronta di Bis e la sua angoscia.

Era sempre stato così tra di noi, perfino io ero un ottimo ricettore. Quando eravamo bimbe ci mandavamo messaggi brevi o piccole immagini per offenderci, ad esempio dicevamo ad alta voce ‘tu sei un tipo strano’ (mamma ci controllava come un falco e ci vietava di dire parolacce) poi spedivamo l’immagine di uno schifido topo di fogna bagnaticcio e con gli occhietti malefici. Mà non riusciva a percepire queste immagini perché quando lo volevamo potevamo inviare qualcosa tra di noi su ‘banda stretta’ e per le altre era impossibile percepire qualcosa. In questo caso Bis stava lanciando un ‘grido’ di aiuto a tutte.

In quel momento arrivò Zia Adalgisa, sorella della nonna, era la più distratta e confusionaria delle streghe conosciute. Ormai ottantenne era una vecchina rotondetta, alta un metro e sessanta, co un viso grinzoso ma con un sorriso vivace e occhi verde chiaro colmi di dolcezza. Ci abbracciò tutte con tanto affetto e con le lacrime che le segnavano le guance.

“Diamoci da fare” – disse accettando il caffè che gli offriva Mà – “Ho seguito quello che avete in mente.”

Non avevamo certo nascosto quello che era successo alla congrega di Streghe amiche della zona, ci serviva tutto l’aiuto possibile. Ci spiegò che tutte le Streghe bianche raggiunte dal messaggio per Bis lo avevano ritrasmesso coprendo un vasto territorio, la risposta di Bis stava viaggiando per tutta l’aere e Zia Adalgisa era venuta per coordinare la situazione. Le nostre amiche avrebbero comunicato il grado di intensità della risposta, in questo modo potevamo ottenere la triangolazione del luogo dove era tenuta Bis. Nelle ore seguenti, attendendo la telefonata dei rapitori, facemmo un piano: i malfattori dovevano essere convinti che avremmo collaborato e quindi inventarci qualcosa che li avrebbe tenuti buoni per qualche altra ora.

Amina, un’amica della Zia, riusciva a ipnotizzare qualsiasi cosa su due zampe e quindi l’avremmo utilizzata per far collaborare i rapitori, avremmo cercato di incontrarli, magari davanti alla gioielleria. L’amica della Zia era già stata contattata.

Era terribile quello che stavamo organizzando perché per noi era impensabile utilizzare i poteri per colpire qualcuno. Negli anni passati era già successo che dei nostri pari aveva fatto cose discutibili ma erano stati casi rari, eravamo tutte allevate con la regola del ‘non far del male a nessuno’ inculcata nella capoccia ancor prima di saper camminare.

“Per fortuna Sil non gli ha detto che eravamo telepatiche” – comunicò la Zia.

“Non è merito mio! Non ci ho nemmeno pensato, solo questo, se mi avesse chiesto di più glielo avrei detto. Ero proprio impazzita.” – disse Sil in un impeto di autocommiserazione.

“Dovrei bloccare i poteri come ho fatto tanti anni fa con …con …” – sbottò la Zia.

Ci guardammo esterefatte, sapevamo che alcune delle venerande vecchie aveva la capacità di inibire i poteri ma non era mai capitato a persone che conoscevamo, era più una leggenda che altro.

“A chi hai inibito i poteri Zia? A qualcuno che conosciamo?” – insistè Mà con voce ironica. Si diceva che si riusciva a fare questo solo con i membri della famiglia perché c’era più affinità.

“Bhe sono passati anni…non posso ricordare tutto! E poi era proprio indispensabile che lo facessi, altrimenti non lo avrei fatto…vero?” – ci chiese con voce piagnucolante la Zia.

“Non ti ricordi eh? Come fai a non ricordare una cosa del genere? Zia non raccontare balle!” – Mà si mise una mano sulla bocca per la sua uscita così infelice – “Zia, te lo chiedo per l’ultima volta, non abbiamo tempo da perdere per i giochini. Chi era?”

“Io …. Io … devo spiegarvi perché l’ho fatto e poi non le ho tolto tutto tutto, qualcosina gliel’ho lasciata. Era tanto piccina e piangeva sempre e lanciava balocchi da tutte le parti, si toglieva il pannolino con un solo battito di ciglia, faceva comparire nel box tutto quello che c’era in frigorifero e poi dopo averlo pasticciato lo sparava sulle pareti, non avevo ma visto una bimba tanto piccola e così dotata. Era terribile, non riuscivo a controllarla! Avevo pensato che potevo toglierle i poteri e poi quando tutto si fosse sistemato, quando tutta la famiglia fosse tornata insieme, le avrei reso tutto. Non si perde nulla sapete, è solo bloccato in un angolino della mente. Poi, voi mi avete detto quanto ero stata brava a gestire quella pestifera bambina ed io non volevo confessare che avevo fatto tutto con la magia. Ho pensato di renderle il potere quando fosse stata più grandicella, poi me ne sono dimenticata per un po’ e quando mi è tornato in mente bhe…io non volevo che pensaste che io …”

“Zia” – intervenne Nonna – “l’unica bimba che hai accudito e portato a casa tua è stato quando Mà ha avuto quell’infezione dopo la nascita di Leo, noi eravamo tutte con lei  per farla guarire.” – tutte mi guardarono – “E’ Leo? Zia è Leo? Rispondi!”

La Zia accennò di sì col capo portandosi il fazzoletto di pizzo rosa agli occhi.

“Leo non è quindi un caso più unico che raro come abbiamo pensato per tutti questi anni.“ – Mà sottolineò le ultime parole . “Zia devi renderle tutto ora, non sappiamo quanto possa aiutarci in questo caso. Zia allora? Ti dispererai un’altra volta per il momento le discussioni aspetteranno. Fai qualcosa, muoviti!”

La Nonna si avvicinò alla sorella – “Ti ricordi come fare? Posso far venire qui i libri che sono a casa di Leo puoi prendere spunto da loro! No? Allora comincia!”

Non avevo ancora capito bene cosa era successo negli ultimi dieci minuti. In sottofondo sentivo ancora Bis ma tutto il resto del mio cervello era in subbuglio. Non ero ‘difettosa’, ero solo ‘bloccata’. Non ci potevo credere. Salimmo al piano di sopra, dopo che la Zia e Nonna avevano trafficato in dispensa tra gli ingredienti che usavamo per le pozioni.

Mi misero nuovamente al centro del tappeto con Menelao incollato addosso e Zia si concentrò talmente tanto che il suo viso si trasfigurò.

La sua voce quando cominciò a parlare sembrava di carta velina, dopo due false partenze riuscì finalmente a farsi udire. Nonna intanto spargeva il contenuto profumato di una ciotola attorno a me.

“Tanto tempo è passato

ma il potere è solo bloccato

Tutto è presente e completamente intatto.

Io sono l’artefice di questo malefatto

Il muro di ghiaccio ora io sciolgo

Pentendomi amaramente, io me ne dolgo.

Torna o potere dal fondo della mente addormentata

Più forte che mai voglio che questa venga scongelata”

Gli incantesimi così lunghi vengono usati solo in casi molto gravi.

Non sapevo quello che mi sarebbe successo ma molto presto me ne sarei accorta. Infatti cominciarono a volare oggetti sbattendo sul muro, le candele si spensero e attraverso la luce che filtrava dalla porta vidi le mie sorelle schiacciate contro la parete. Zia intanto urlava come una pazza:

“Lo sapevo, ve lo avevo detto, guarda cosa sta combinando. Avevo ragione a bloccarla!”

“Adalgisa per Santa Petronilla che pretendi da questa figliola? Noi abbiamo anni per abituarci ad usare i poteri, lei se li è trovati ormai da grande, lasciale qualche secondo per dominarli”

Poi Nonna rivolgendosi a me:

“Leo tesoro, calmati, chiudi la tua mente, bloccala come quando fai cambiare il colore all’insalata, bloccala su una cosa sola.”

Il consiglio mi aiutò un poco. Io non sentivo nulla, non mi sembrava di essere l’artefice di quello scompiglio, non ero diversa da prima o almeno così mi sembrava, ma avevo capito quello che voleva dire Nonna, era un gioco per me, quando facevo cambiare 50 volte colore all’insalata, per bloccarla su un preciso colore davo come uno stop nel momento desiderato e il colore si fermava. Tentai anche in quel momento e tutto si quietò all’istante lasciandoci senza fiato.

“Mi dispiace” – mormorai con voce flebile – “ma non ci sono abituata.”

Mà corse ad abbracciarmi e subito dopo anche le altre.

Rimase in disparte Zia Adalgisa piangendo silenziosamente.

Mà mi stava invitando con gli occhi ad andare da lei ma ero troppo arrabbiata per farlo! Mi ero sentita una scartina per tutta la vita, forse col tempo avrei cambiato idea. Cercai di inviare un pensiero rassicurante a mia madre ma ottenni invece gemiti da parte di tutte che si ritrovarono in ginocchio con le mani sulle orecchie.

“Sei troppo forte bambina mia” – confermò Nonna dal pavimento – “E’ come se avessi un microfono. Per noi tu stai urlando.”

Cominciarono ad arrivare proteste da tutte le parti della città dalle altre streghe per il messaggio che avrebbe dovuto essere indirizzato solo a Mà. Mentre Nonna calmava le acque, suonò il telefono.

Ci precipitammo in corridoio, Sil prese la comunicazione, erano loro. Mentre mia sorella, come concordato, comunicava il piano per la rapina e tirava per le lunghe la conversazione, noi ci ritirammo nuovamente nella stanza centrale dove Zia aveva riacceso le candele.

“Ora” – disse Nonna guardandomi negli occhi – “Vediamo quello che puoi fare tu! Bene, devi comunicare a Bis calma e tranquillità affinchè capisca che stiamo facendo quanto in nostro potere per aiutarla e poi cerca di sintonizzarti su di lei e di scoprire dove si trova, nel 1808 una nostra ava Maninta era in grado di trovare il famoso ago nel pagliaio, forse tu che sei così forte riuscirai a ‘sentire’ dov’è Bis. Poi penseremo a come liberarla. A quanto pare dovremo usare i poteri su quegli scriteriati invece che su gente innocente.”

Intanto Zia Adalgisa ansiosa di aiutare, annuiva talmente forte che i suoi due menti tremolavano sbattendo uno contro l’altro.

Visualizzai Bis e tre secondi dopo l’avevo davanti agli occhi come se fossi stata nella sua stessa stanza: era legata ad una sedia con gli occhi bendati ed imbavagliata. Probabilmente Giancarlo ed i suoi compagni temevano che bis potesse far loro del male e non sapendo cosa poteva servire ad un strega per colpire, l’avevano bloccata completamente.

La trovai piccola e fragile, col viso gonfio dal pianto e tremante ma mi sentì, le spalle si raddrizzarono ed il respiro si fece più veloce, la sua mente si agganciò alla mia come se fossi un salvagente.

Ero arrabbiata, terribilmente arrabbiata con quegli stupidi Cowan che sogghignavano mentre Giancarlo era al telefono. Misi una mano invisibile sulla spalla di Bis che sussultò e mi scatenai. Tutto nella stanza si sconvolse facendo urlare i malcapitati ed infine i coltelli della loro cucina vennero a darmi manforte e si infilzarono in parti non indispensabili del corpo. Un bel piede impalato sul mobile bar, una chiappa affettata finemente, il centro di una mano attaccata alla scrivania e per finire il cavallo del pantalone di Giancarlo che sedeva a gambe larghe infilzato sulla sedia.

Diedi uno strattone alla mia mano immaginaria e mi sentii precipitare a terra con la sedia ed il corpo di Bis fra le braccia, oltre alla mia mente avevo ritirato, senza rendermi conto, anche il suo corpo facendola viaggiare nello spazio.

Ci ritrovammo tutte a parlare contemporaneamente, erano tante le mani che cercavano di sciogliere la nostra parente che Mà dovette picchiare sulle nostre dita per farci smettere, con calma liberò Bis dai suoi legacci e quando finalmente la potei guardare negli occhi vidi tutto l’amore che mi aveva riservato sempre e qualcosa di più: orgoglio.

“Lo sapevo che valevi molto Leo, l’ho sempre sentito che eri la più in gamba di tutte. Vieni qui amore mio, fatti abbracciare.”

Dall’emozione del momento feci scoppiare tutte le lampadine di casa, anche quello dell’albero di Natale in cantina.

PRESENTE:

Non posso dire che da quel momento tutto andò bene, sto ancora cercando di gestirmi con gran fastidio delle mie donne per le mie marachelle ma a volte mi sento così giocherellona che non riesco a controllarmi, devo recuperare tantissimi anni di inattività.

E chissà come mai ai mie ex sono successe tutte quelle cose terribili: invasioni di pulci della Tasmania, denti rotti mangiando semplice pane, acqua bollente seguita da quella gelata durante la doccia ed altre piccole simpatiche cose. Per quanto riguarda i rapinatori della storia posso dirvi che ho scoperto di riuscire a far scordare alla gente tutto quello che voglio ed è quello che è successo. Per loro è stato terribile ritrovarsi infilzati in malo modo senza nemmeno sapere il perché. Bisogna stare attenti: mai irritare una piccola strega.


 

UN AMICO A QUATTRO ZAMPE?

 

Il minuscolo gatto mi guardò un’altra volta, poi si mise a leccare una zampa. Era talmente bello, intento in quella faccenda che senza accorgermi sorrisi.

“Ti piace tanto Criss?” – chiese Luc osservandomi dalla sua altezza di 1 metro e ottanta. “Vieni” – e prendendomi per mano mi fece entrare nel negozio. Resistetti un po’ agli attacchi congiunti di Luc e del commesso del negozio di animali ma poi mi feci convincere. Avrei superato tutti i problemi che crea avere un animale in casa: unghiate sul divano e tende, pipì, almeno per i primi tempi, dovunque, lamentele dei vicini per eventuali miagolii durante la giornata lavorativa, peli ovunque. Aristotele, così avevo battezzato quel batuffolo, era adorabile, tutto nero con due occhioni azzurri, pelo molto folto e vibrisse lunghe. Il suo modo di comportarsi si dimostrò subito molto aristocratico. Visitò tutto l’appartamento annusando lentamente ed emettendo miagolii compiaciuti, poi con dignità scelse di acciambellarsi sulla poltrona vicino al termosifone.

“Da lì non lo togli più, quando un gatto prende un’abitudine…” – disse Luc accarezzandomi il viso.

Lo guardai facendogli la linguaccia. E dovetti ammettere che Luc, quel giorno era più bello che mai con i suoi vecchi jeans e l’enorme maglione bianco che lo faceva apparire più giovane. Ma quello che più mi piaceva di in lui era il suo ciuffo biondo ribelle che si aggiustava meccanicamente quando gli ricadeva sugli occhi che erano di un azzurro cielo talmente chiaro che a volte mi perdevo fissandoli. Ora era intento al sacro rito ‘accensione pipa’ che avrebbe impiegato qualche minuto perchè non era mai stato capace ad usarla come si doveva. Aveva lo sguardo concentrato e le sopracciglia aggrottate, sembrava anche lui un cucciolo bisognoso di affetto ma bastava osservare la bocca ed il mento per capire che era un uomo deciso, intransigente ed a volte crudele. Lo avevano sottovalutato in molti nel campo lavorativo, considerandolo troppo giovane ma lui li aveva annientati senza pietà. Era un asso nel suo campo, nessuno lo batteva, aveva fiuto e un sesto senso notevole per gli affari. Mi riscossi dalla mia contemplazione e ribattei:

“Esagerato, è appena entrato in casa e poi, anche se fosse?” – dissi andando a preparare il caffè – “Ci possiamo stare tutti e due su quella poltrona.”

Nei giorni successivi il mio nuovo acquisto ed io ci trovammo nel nostro posto preferito. Quando non c’ero l’occupava tutto stendendosi completamente, quando rincasavo si stiracchiava un po’ e poi mi si acciambellava in braccio. Il comportamento di Aristotele era impeccabile, dopo la prima volta che gli avevo mostrato dove fare i suoi bisogni non ebbi bisogno di riprenderlo. E così per tutto quello che riguardava la casa, non mi combinò mai disastri. Era un gatto tranquillo, pigro e giocattolone ma solo con me che lo facevo correre con una pallina rossa che lui mi riportava fino allo sfinimento di entrambi. Le mie amiche mi prendevano in giro dicendomi che avevo spettato anni per avere un gatto tutto mio perchè stavo proprio attendendo la nascita del mio ammirevole compagno. Con le mie amiche, Aristotele era socievole ma un po’ sulle sue, dopo i convenevoli e 5 minuti di coccole, se ne andava sulla libreria, arrampicandosi agevolmente e controllando tutto quello che succedeva in basso. Il comportamento anomalo si manifestò o almeno lo notai dopo una delle riunioni settimanali delle ragazze dell’ufficio e dell’immancabile Luc nostro datore di lavoro. Elena aveva un nuovo profumo che lasciava una scia talmente intensa che la prendemmo in giro per tutta la sera asserendo che aveva rovesciato la boccetta nella vasca prima di fare il bagno. Quando finalmente se ne andarono era molto tardi, ero stanca ma tormentata da un feroce mal di testa. Il profumo persisteva nella stanza dandomi quasi una leggera nausea, aprendo la finestra vidi rispecchiarsi nel vetro gli occhi di Aristotele, erano luminosi come due diamanti. Mi girai sorridendo, sapevo bene come potevano essere splendidi gli occhi di un gatto di notte visti con una certa angolazione, quando però li guardai al naturale, senza il riflesso nel vetro, gli occhi continuarono a splendere. La luce era accesa e quindi l’illuminazione era sufficiente per non far brillare gli occhi così. Rimasi paralizzata, poi Aristotele si mosse saltando agilmente fino a me. Lo guardai prendere posto nella poltrona e miagolare guardandomi incerto se prendere possesso della poltrona o se attendere la mia seduta. Chiusi la finestra perchè stava rinfrescando. Mentre mi sedevo accanto al gatto mi diedi della visionaria, era solo quel maledetto mal di testa che mi tormentava e che mi faceva pulsare le tempie, mi dissi che era meglio andare a letto invece di starmene lì ad infreddolirmi ma inspiegabilmente non riuscivo a muovermi, mi aveva preso una grande spossatezza. Mi ritrovai, come d’abitudine, ad accarezzare la bestiola dietro alle orecchie. Lo guardai e mi immobilizzai: i suoi occhi erano ancora splendenti, quasi gialli adesso che lo vedevo da vicino.

“Perchè sei così stasera?” – mormorai dicendomi mentalmente che dovevo andarmene a letto, che domani avevo una giornata pesante e che tutto sarebbe tornato alla normalità. Invece mi ritrovai ancora con le mani su quel pelo di velluto mentre Aristotele faceva le fusa sonoramente. Dopo 5 minuti feci un salto sulla poltrona pensando di essermi assopita però stavo ancora accarezzando il gatto che mi guardava con i suoi occhi di giada. Con uno sforzo mi staccai da lui.

“Adesso basta, andiamo a letto.” -dissi cercando di scuotermi dal torpore che avevo addosso. Il mal di testa era sempre più forte. Fu a questo punto che le cose non furono più normali. Aristotele con un balzo si appollaio sulla testiera della poltrona e mi abbrancò il capo, non so in che altro modo spiegarlo, mise le sue zampe anteriori, attorno alla mia testa. Rimasi immobile, temendo mi graffiasse, non aveva mai fatto ciò, dopo uno o due secondi mi sentii meglio, il mal di testa era sparito e nemmeno mi sentivo più stanca. Come una sonnambula ripresi ad accarezzare il gatto dietro alle orecchie.

Il giorno dopo ovviamente pensai di essere esagerata nell’aver pensato che il mio mal di testa se ne fosse andata per l’intervento del mio gatto ma due giorni dopo mi beccai un bella infreddatura che mi mandava in frantumi i piani per la montagna del prossimo week-end. Ancora Aristotele si mise dietro la mia testa sul cuscino del letto circondata da fazzoletti ed aspirina, me l’abbracciò e nel giro di pochissimo non solo non avevo più raffreddore e mal di gola ma mi sentivo pronta a scalare l’Everest. Subito dopo il micio si mise sulla mia pancia con il muso tra le mie mani pronto a farsi fare le coccole. A questo punto telefonai a Luc che era uno specialista in animali per raccontagli tutto anche se rischiavo di essere considerata paranoica ma quando lui rispose al telefono gli dissi solo che l’indomani sarei andata con loro in montagna perchè stavo meglio.

Dopo qualche momento ricordai che gli avevo telefonato per dirgli altro, come era possibile che me lo fossi dimenticato? Guardai il gatto, i suoi occhi splendevano.

Cominciai così nei giorni che vennero ad avere una sorta di paura, tutte le volte che cercavo di raccontare quello che mi era successo col gatto non riuscivo a spiccicar parola.

Il fatto però che mi convinse che il mio non era un gatto normale lo ebbi il giorno del mio compleanno. Avevo comprato un vestito nero nuovo che mi stava particolarmente bene con la mia carnagione pallida ed i capelli corvini, avevo abbinato gli accessori in verde per far riferimento ai miei occhi. Ero molto soddisfatta del mio aspetto e quella sera mentre preparavo il limone da mettere negli aperitivi mi tagliai profondamente il dito. Cominciai a spaventarmi quando vidi che il sangue non si fermava. Corsi in bagno a cercare qualcosa per tamponarmi ma non riuscivo a fermare il flusso di sangue. Silenziosamente entrò in bagno il gatto, mi sentii fissata e mi girai, i suoi occhi luminosi mi guardavano, mi chinai verso di lui che appoggiò la zampina sulla mia ferita ed inspiegabilmente il sangue si fermò, dopo poco era rimarginata. Ero sbalordita, come le altre volte, il gatto si fece accarezzare a lungo.

Nemmeno questo ultimo fatto era riuscito a farmi parlare delle doti del mio gatto ad altri. Era come se in loro presenza io dimenticassi tutto. Ascoltando il telegiornale qualche giorno dopo sentii una cosa che mi sconvolse:

“ …ed ecco delle notizie curiose. Nell’avvicinarsi delle vacanze come al solito c’è un increscioso aumento dell’abbandono da parte di persone nei confronti dei loro animali domestici e proprio nella nostra città c’è stato la vendetta di questi ultimi nei confronti dei loro ex padroni. Due differenti signori mentre ultimavano i preparativi per la partenza per le vacanze lavorando intorno alla propria auto sono stati assaliti dai loro animali domestici abbandonati qualche giorno prima sull’autostrada. Uno di questi assalito dai suoi due ex cani si è talmente spaventato da avere un infarto, l’altro, assalito da un gruppo nutrito di gatti capitanato dal suo ex gatto è caduto battendo la testa sul marciapiede, è in prognosi riservata.”

La cosa mi lasciava sconcertata, va bene intelligenza da parte dei nostri animali ma non esageriamo quanto mai si è sentito di un gatto che raduna degli ‘amici’ per  vendicarsi? Osservai Aristotele che guardava intensamente la tv. Quella sera il mio gatto uscì per tutta la notte, la mattina lo ritrovai ai piedi del letto a dormire beatamente. Nei giorni seguenti cercai di pensare chiaramente, di fare il punto della situazione. In fondo che era capitato? Un mal di testa ed un raffreddore passati in un batter d’occhi per una ‘toccata’ del gatto? Ma via, solo combinazione e la ferita? Quella come la giustificavo? A meno che non me la fossi sognata perchè non avevo nemmeno il segno del taglio, d’altra parte le salviette inzuppate di sangue le avevo dovute lavare. E la reticenza di parlarne con altri? Decisi che ne avrei per forza parlato con qualcuno e visto che tutte le volte mi passava di mente, feci un appunto e lo misi in borsetta. Quella sera quando rincasai controllai dove fosse Aristotele e non trovandolo mi sentii sollevata, la finestra della cucina era socchiusa, ero quasi certa di aver chiuso tutto quella mattina ma a questo punto ero così distratta in questo periodo. Dopo un bagno rilassante ed una cena veloce mi preparai ad una serata davanti alla tv quando suonarono alla porta, era Luc che mi faceva una delle sue solite improvvisate, invece di essere irritata come di solito lo invitai in casa con un sorriso.

“Sei proprio strana in questo periodo” – mi disse togliendosi il soprabito ed allungando le gambe dinoccolate sedendosi sulla poltrona di fronte alla mia. “Le altre volte mi accoglievi ad urlacci, mi dicevi: ‘E avverti prima, lo sai che non mi piacciono le sorprese…’” – e motteggiò la mia voce.

“Lo sai che sono abitudinaria,” – mi giustificai -”Ho bisogno di programmare le cose ma stasera devo ammettere che mi sentivo sola e sono contenta di vederti. E poi per cos’altro sono strana in questo periodo?” – chiesi andando a prendere le caramelle nella borsa.

“Oh non so di preciso, ti ho beccato un paio di volte con lo sguardo assente, l’altra mattina ti ho                trovata fuori dall’ufficio e non mi hai nemmeno salutato!”

“Davvero? Mi dispiace ma non ti ho visto” – intanto rigiravo un foglietto trovato nella borsa che diceva che dovevo parlare del comportamento del gatto. Che mai voleva dire? La grafia era la mia. Lo mostrai a Luc ridendo a comprova delle sue parole.

“Guarda tu ti lagni perchè non ti saluto, io mi faccio gli appunti e non so nemmeno che vogliano dire.”

“Sei sicura di star bene?” – l’uomo si fece serio – “Quando lo hai scritto questo? Oggi?” – alzai le spalle, sapevo di dover dire qualcosa di importante a Luc, ce l’avevo sulla punta della lingua ma non mi veniva in mente. Accidenti avrei dovuto fare un appunto più chiaro. Stringendo spasmodicamente il foglio e rileggendolo continuamente ricordai ed iniziai a raccontare tutto. Alla fine un Luc perplesso mi fece ripetere tutto di nuovo.

“Hai visto al telegiornale l’altro giorno?” – mi chiese – “I gatti ed i cani…” – anche lui aveva collegato lo strano comportamento del mio gatto con quei fatti incresciosi.

“Oh cielo cosa può essere? Mi sono inventata tutto?” – dissi asciugandomi una lacrima che chissà come era scivolata sulla mia guancia – poi sentii freddo alla nuca ed i pensieri si confusero. Guardai Luc che stava fissando dietro di me, mi girai lentamente e come il mio subconscio si aspettava incontrai due occhi luminosi.

“Non ti sei inventata niente” – sussurrò Luc come parlando a sé stesso –  “quegli occhi non dovrebbero essere così.”

Aristotele avanzò a passo sicuro. Adesso che ero riuscita a confidare i miei sospetti ad un’altra persona mi sentivo più razionale ed avevo paura di quel gatto sconosciuto. Si mise fra noi sedendosi sulle zampe posteriori ed arrotolando la coda attorno alle zampe stesse muovendola ad intervalli regolari.

“Vi ho sottovalutato.” – feci un balzo, noi umani ci guardammo, nessuno di noi aveva mosso le labbra – “Eh non spaventatevi così, il mio ordine ipnotico non ha fatto il suo effetto e tu hai parlati di me a lui. Ora il mio capo mi dirà di estinguervi. Non fate quella faccia…”

“Ma siamo umani, esseri viventi..” – cominciò Luc

“Ma siete così tanti, uno più o meno. E voi che fate ai miei simili sulla terra? Perfino la vivisezione lo so che non hanno la vostra intelligenza ma sono esseri viventi anche loro non credete?”

“Ma noi siamo contrari a quello che dici e con noi moltissima altra gente” – risposi allarmata –

“E’ per quello che ti ho aiutato, perchè eri differente dagli altri che avevo conosciuto, tu eri dolce, affettuosa, rispettavi i miei comportamenti e ti adeguavi ad essi. Poche volte ho dovuto intervenire per farmi dare da mangiare.”

“Intervenire?” – chiese Luc accucciandosi sul tappeto.

“Sì, noi possiamo dare dei semplici comandi ai vostri cervelli per cose di prima necessità come mangiare o l’uscita per i cani. Sapessi quanti padroni si dimenticano della nostra esistenza se non per mostrarci agli amici come trofei e noi mangiamo grazie alle nostre capacità di obbligare la gente  a ricordarsi almeno del cibo. Ma alcuni di noi esagerano, obbligano i loro padroni a diventare servi com’è nel nostro pianeta ma questa è un’altra storia.”

“Oh no, non è un’altra storia.” – dichiarò Luc guardandomi – “Vuol dire che non siete nati qui? Che siete di un altro mondo?”

“Ok, vi racconto tutto, tanto poi a chi lo raccontate? Sarete annullati. Sì siamo di un’altra galassia ma non possiamo più vivere lì, gli schiavi si sono ribellati ed hanno distrutto gran parte del nostro patrimonio alimentare che consiste negli unici frutti che crescono sul pianeta. E’ stato allora deciso di partire in massa e di cercare un altro posto dove installarci. Questo è il primo pianeta che va bene per noi, poi quando abbiamo visto che con poche modifiche voi avreste potuto scambiarci per i vostri animali da compagnia a noi è sembrato di aver raggiunto la nostra meta. Ma le cose si sono subito complicate. Qualcuno di voi ci ha ucciso. Catturato, torturato prima che noi potessimo fare un piano di difesa. Vi pensavamo pacifici ed amanti degli animali ma a quanto pare avevamo analizzato dei campioni sbagliati.

“No, non tutti sono così, anzi solo una piccola percentuale è crudele.” dissi stringendomi le mani dal nervoso.

Il gatto mosse la testa e si leccò una zampina.

“Bhe non è quello che pensano i miei capi ma non ha più importanza per voi.” – i suoi occhi ricominciarono a farsi luminosi.

“Ehi fermo.” – disse Luc allungando le mani ed accarezzando l’animale tra le orecchie – “Noi possiamo esservi utili. Alleiamoci, staremo dalla vostra parte e cercheremo una casa per ognuno di voi, un posto dove starete bene e con persone che vi amano.”

“Non è così facile, non decido io. E poi l’ordine è di annientare ogni persona che viene a sapere della nostra natura di extra terreste.”

“Ma puoi comunicare con i tuoi capi? Chiedi un incontro, ci parleremo noi. Non ci saranno più uccisioni di nessuno, ne di voi ne di noi. Sai quanta gente sarebbe entusiasta di avere in casa un essere intelligente come voi da trattare alla pari?”

“Volete dire che dovremmo comunicare al mondo della nostra esistenza?” – chiese il gatto chinando il capo da un lato.

“Se volete essere trattati come pari sì.” – rincarai io – “Tutti dovranno temervi, basterà questo spauracchio per far sì che si comportino bene nei vostri confronti.”

Il gatto ci pensò su per qualche secondo e poi: “Si può fare.”

L’incontro con i Gattofori, come si fecero chiamare loro, fu piuttosto lungo e le trattative snervanti. Dovemmo metterci in contatto con le autorità, dando loro prova di quello che i nostri ‘amici’ sapevano fare ad una persona. Alla fine si convinsero, non potevano ingabbiarli tutti perchè non si distinguevano dai normali cani e gatti e quindi erano tutti potenzialmente pericolosi. Molte persone temevano i loro animali da compagnia ma avemmo la parola dei Gattofori che si sarebbero sempre fatti riconoscere e che non sarebbero stati più sotto mentite spoglie. Li convincemmo infatti di mostrarsi con il loro aspetto reale: i gatti erano enormi, grossi come un poni, i cani invece un po’ più piccoli, tutte e due le specie dai colori sgargianti che andavano dall’arancione al viola.. Al di fuori delle case di noi umani costruimmo delle enormi cucce che per loro erano abitazioni confortevoli, alcuni preferirono stare in casa con noi avendo una stanza propria. Non davano affatto fastidio, anzi era interessante assistere alle conversazioni tra umani e Gattofori, questi silenziosi e gli umani rumorosi come sempre che rispondevano ai loro amici a quattro zampe ridendo e facendo baccano. Guardando dal di fuori sembravano dei matti che parlavano da soli.

Per la paura di ripercussioni da parte loro anche per i nostri animali da compagnia autoctoni ci fu un bel cambiamento, tutti furono trattati con rispetto ed affettuosità. Finalmente gli umani capirono che tutti, ma proprio tutti erano esseri viventi. E che dire di Aristotele? Rimase con noi prendendo possesso della cameretta che divenne anche la stanza dei bimbi quando Luc ed io ci sposammo. Non volle sentir ragioni, i gemelli avrebbero imparato da subito cosa voleva dire la convivenza con un Gattoforo, dolce, grasso e tremendamente affettuoso, infatti i miei figli dopo il bagnetto serale avevano una ispezione completa da parte del quinto membro della famiglia e se secondo lui non erano lavati a sufficienza la sua lingua completava il rito. Sospettavo però che molte delle volte in cui leccava i bimbi era per puro piacere, adorava prendersi cura di loro ed era il baby-sitter più attento del mondo.