Orsola Bronzini - Poesie e Racconti

Agli sposi

Sarà come una camminata in montagna,
infinita, bellissima e faticosa
verso una cima misteriosa.
Camminate tenendovi per mano
fin che potete,
poi quando la salita sarà più ripida
aspettatevi,
trascinatevi a vicenda.
Ma soprattutto guardatevi,
baciatevi,
toccate le vostre anime
col sorriso dei giorni migliori.
E se durante il viaggio,
ad un certo punto non sarete più soli
troverete una forza incredibile,
per un tratto il sentiero volerà
sotto i vostri piedi,
Ma voi fermatevi e baciatevi ancora
ridete del temporale che vi ha inzuppati!
Sulla cima ci arriverete da soli,
non si sa cosa troverete,
Forse un altopiano bellissimo
O un’aspra morena
Chissà, forse una discesa dolce e tranquilla,
potrebbe essere anche un dirupo.
Comunque la via dietro di voi
non è consentito ripercorrerla.
Perciò, ragazzi miei,
godetevi il viaggio
perché il biglietto che avete scelto
era di sola andata!!!

 

 

 

La fattoria dei golosi

Il tacchino Gesuino
Becca solo pane e vino
L’asinello Pimpinello
Si disseta col Brunello
Lalla la cavalla
Mangia solo fiori di calla
Per il toro Polidoro
Sempre fieno al pomodoro
C’è poi Giglio il coniglio
Che rosicchia solo tiglio
La mucca sta in parrucca
E pretende fior di zucca
L’oca Matriosca
Beve troppa capiroska
E le galline poverine?
Voglion solo fettuccine.
Il fattore disperato
Chiede aiuto immediato
«senza dubbio del gelato!! Ma che sia al cioccolato!!»
Consiglia in fretta
il signor Trombetta.
Ma la moglie Evelina
Dalla mente sopraffina
«Tutti a dieta!» sentenziò!!
E nessuno più fiatò!!

 

 

 

Vanità delle Stagioni

La betulla si pavoneggiò al venticello fresco, aveva rubato il colore al sole ancora tiepido dell’autunno ed indossava un vestito tutto d’oro con riflessi verde chiaro, era splendida e lucente. Il tronco snello quasi bianco faceva risaltare la bellissima chioma di foglie perfette che si muovevano con allegria creando giochi di luce meravigliosi.
L’ inverno si affacciò nella gola del Pisgana e la vide, restò immobile abbagliato da tanta sfolgorante bellezza e si ritrasse silenzioso. Tornò nei giorni a seguire a spiare la bella betulla che sempre più ambiziosa cambiava abito di giorno in giorno rubando giallo oro, arancione caldo e perfino un rosso appariscente. Si avvicinò finalmente e soffiò il freddo alito sulle foglie delicate. La bella rabbrividì e alcune foglie volarono via, si volse stizzita e chiese “perché mi fai questo?” L’inverno restò immobile e muto ma intorno si diffuse un freddo pungente e secco, la notte cadde la neve candida e con lei l’ ultimo meraviglioso vestito della betulla. Le foglie colorate si mischiarono alla neve con la spina dei giganteschi larici, passò una volpe e il miscuglio scricchiolò al suo passaggio, alzo il muso verso l’alto guardando i rami nudi e sottili e se ne andò.

 

 

 

Raccontami Una Favola Vera

Valentino si avvicinò allo Zio Mores e chiese << Mi racconti una storia vera?>>. Lo Zio alzò gli occhi dal Topolino che stava leggendo, si passò la mano sulla lucida pelata, poi si attorcigliò i baffi grigi agli indici e finì il gesto con una energica pacca su entrambe le cosce. Era il segnale!
Valentino si accomodò sulla piccola seggiola e la storia incominciò.
Devi sapere che nel mio campo nella piana del fiume Oglio crescono piante di mandarini grossi e profumati, piante di banane e cespugli con cioccolate incartate grandi come le mie mani. E’ un campo magico, i semi li ho portati dall’America. Valentino ascoltava e si immaginava quelle cioccolate grandi come le mani dello Zio avvolte nella carta d ’argento. Sicuramente la stessa carta che la mamma usava per fare i laghetti nel Presepio a Natale.
Aveva sentito tante volte quella storia ma non si annoiava mai.
Lui sapeva dove era la piana dell’Oglio e anche dove si trovava il campo dello zio, ma certo il campo dei mandarini non era quello, forse era nascosto da un bosco.
La sera a letto, con suo fratello Giacomo si consultò a lungo. Quella storia, che lo zio assicurava essere vera, li incuriosiva veramente, anche perché la mamma le banane le comprava nella piccola bottega del signor Checulì mentre invece le mele, l’uva, le pere, le prugne e anche le pesche le portava il babbo dai vigneti che coltivava.
Comunque quando il campanile suonò 10 tocchi avevano deciso che la domenica pomeriggio dopo dottrina piuttosto che fermarsi con gli altri sarebbero andati alla scoperta del campo magico. La piana dell’Oglio non era lontana, ci andavano spesso col carretto e la fidata cavalla Stella, che praticamente faceva tutto da sola mentre loro si perdevano nei loro giochi, lei tornava a casa da sola con il carico di checchessia integro, entrava nel cortile e aspettava pazientemente che qualcuno la liberasse dal carretto per recarsi alla fontana e alla sua greppia senza essere accompagnata.
E dunque arrivò domenica, manco a dirlo splendeva il sole e faceva un freddo frizzante perché era marzo.
Come al solito al primo pomeriggio, catechismo, dopo aver fatto disperare la signora China per una bella ora furono tutti liberi. Il problema era svignarsela senza farsi notare dai compagni. Così raccontarono che a casa c’erano i cugini della Svizzera e perciò dovevano ritornare subito. All’osservazione che in paese non era stata vista nessuna automobile con targa CH risposero che li aspettavano per la merenda perché avevano fatto tappa dalla zia Maria al paese confinante. Salirono verso casa ma deviarono verso la Valle e passando sopra la chiesa e poi attraverso i campi verso il campo magico. I cappotti belli e le scarpe della festa impedivano i movimenti, per non parlare del rischio di rovinarli. Comunque in breve arrivarono al coltivo dello Zio e cercando di non infangarsi nella terra controllarono attentamente le piante che cominciavano a risvegliarsi dall’inverno. Non trovarono nulla di diverso dalle altre coltivazioni, tutte le piante erano quelle conosciute perciò come sospettavano il campo dei mandarini non era quello. Proseguirono oltre e superarono tutto il terreno coltivato fino ad arrivare ad una zona ghiaiosa con degli arbusti selvatici e nessun segno del lavoro dell’uomo. Ad un certo punto una fila di cespugli disordinati e spinosi li fece sperare.
Faticosamente superarono i rami secchi senza strappare nemmeno un bottone ai cappotti, salirono un dosso di ghiaia, guardarono giù per la discesa ma niente solo sabbia e sterpaglia. Nel frattempo il sole tramontava, era ora di ritornare. Di corsa saltando i muri a secco ed evitando la terra morbida arrivarono trafelati in paese. Il campanile segnava le 17 passate, fecero tutta la salita a passo veloce ma senza correre per non dare nell’occhio, all’ultima fontana si pulirono le scarpe ed entrarono con fare noncurante nel cortile di casa. Peccato che fossero paonazzi! La mamma che proprio in quel mentre scendeva le scale per apprestarsi a rigovernare le mucche li apostrofò malamente accennando a compiti non fatti e a cartelle abbandonate sotto la scala che portava in camera. Sbarazzatisi dei vestiti della domenica si misero al tavolo con i quaderni mentre lo Zio Mores entrava in cucina, indossava il cappello a larga tesa, color caffelatte e i pantaloni col risvolto che aveva solo lui. Sedette vicino alla stufa e parlò di politica col nonno, suo fratello, che mangiava pere cotte direttamente dalla padella, il quale lo invitò a versarsi un bicchiere di vino.
Valentino guardò sottecchi lo Zio mentre il fratello faceva l’indifferente cercando di memorizzare la poesia che era stata assegnata per compito.
Il papà e la mamma rientrarono dalla stalla, lo Zio salutò e uscì dicendo qualcosa a proposito di minestra da riscaldare.
Per qualche giorno l’argomento non fu più toccato, ma un pomeriggio la mamma offri loro due belle banane da mangiare con il pane e allora seduti sui gradini della terrazza tornarono al fallimento della loro spedizione, Giacomo ora era il più accanito e propose di pedinare lo Zio Mores. Il problema era che lui andava nel campo generalmente al mattino mentre loro erano a scuola, la domenica lavorava solo in casi estremi tipo durante la fienagione o in inverno quando si uccidevano i maiali. Restava solo il giovedì, perché in quegli anni gli orari scolastici erano dalle 9 alle 12 e al pomeriggio dalle 14 alle 16, giovedì e domenica vacanza, sembra strano, ma era comodo per i bambini, che a scuola ci andavano a piedi avevano tempo per giocare durante il tragitto casa scuola ed inoltre la vacanza a metà settimana alleggeriva parecchio.
Bisognava dunque aspettare che si creassero diverse coincidenze: che lo Zio si recasse nel campo di giovedì, che i genitori non organizzassero qualche lavoro al quale loro potessero essere di aiuto, che ci fosse tempo bello, perché non si va nei campi se piove, ed infine che la scusa inventata fosse plausibile. Iniziarono così le indagini. La mamma alla domanda «cosa facciamo domani che è vacanza» rispose con un «perché?» i fratelli in coro «così…» – «Voglio andare al mercato di Breno e verrete anche voi che vi compro le scarpe leggere per l’estate». E un giovedì passò!! Per la verità passarono tutti i giovedì fino alla fine della scuola. Ma il primo martedì di vacanza il babbo era partito presto col nonno per il mercato di Edolo ,la mamma aveva preparato un bucato pazzesco, i ragazzini litigavano in cortile per le  solite stupidate quando lo Zio Mores entrò con la cesta appesa al braccio e la zappa in spalla annunciando che sarebbe stato al campo nella piana dell’Oglio tutto il giorno .”Andate tranquillo, visto che vado al lavatoio della Valle passo a salutare la Trisè ( moglie dello Zio nata in America ,il suo nome Tracy, era stato contaminato dal dialetto come d’altronde quello del marito Maurizio prima inglesizzato e poi al ritorno in Italia trasformato in quel Mores coì bello e affascinante). I fratelli salirono di sopra al volo, in cucina confabularono freneticamente per inventare una scusa e seguire lo Zio. Così esordirono «noi andiamo per insetti con Luca!» – «Ci sarebbe il cortile da scopare e portare su la legna per fare il formaggio stasera» – «Allora ci andiamo dopo mangiato!»
“Vedremo…”. La fortuna li premiò, al pomeriggio il babbo doveva andare a comprare i maialini da rivendere alla fiera di Ponte di Legno a fine giugno, perciò la mamma li lasciò liberi.
Arrivarono al campo e non si vedeva nessuno, stettero immobili per un po’ bisbigliando fra di loro indecisi su come muoversi quando all’improvviso lo Zio si materializzò dietro la pianta di prugne e subito li vide. Togliendosi il cappello con l’indice e il pollice e grattandosi contemporaneamente la pelata con le restanti dita domandò con apprensione cosa fosse successo.
Bisogna precisare che non essendoci ancora i cellulari i bambini erano messaggeri veloci e fidati e quasi sempre reperibili tranne nell’orario scolastico; quale che fosse l’emergenza: una persona che stava male, una mucca che partoriva, un vicino che aveva bisogno di aiuto urgente, un signore che doveva parlare di affari, i bambini venivano spediti senza preoccupazione a portare la comunicazione a chi di dovere. Di solito rientravano con un minuto di anticipo sul ricercato portando la risposta che era sempre quella «ha detto che viene subito». Perciò lo Zio era preoccupato della loro visita e attendeva.
I fratelli non avevano nessun messaggio e non avevano preparato una scusa che giustificasse la loro presenza lì.
«No niente, siamo venuti a vedere se hai qualcosa da portare a casa» esordì brillantemente Giacomo – «vi ha mandato la mamma?» – «no no» – «beh allora già che siete qui raccogliete le ciliege prima che le becchino i passeri!». I ragazzini si arrampicarono veloci sull’albero e prendendo la cesta che il vecchio aveva allungato sui rami iniziarono a riempirla alternando la bocca al cestino con una certa frequenza. Lo Zio si allontanò di pochi passi poi girandosi con le mani sui fianchi e le gambe divaricate osservò” Ma siete venuti per il campo della cioccolata?” Le fronde del ciliegio nascosero il rossore dei volti e siccome non arrivava risposta prese la zappa e si avviò verso i fagioli. Dopo un po’ ritornò al ciliegio e verificò il raccolto dei pronipoti. Con noncuranza prese il toscanello dal taschino fece qualche tiro poi come d’abitudine lo spense e ficcò la rimanenza tra la guancia e i denti che non aveva. I ragazzini scesero con un salto dall’albero passandosi la cesta colma di lucide ciliegie e Valentino chiese «ma dove si trova il campo delle cioccolate esattamente?» – «Ah non potrei dirvelo ma visto che oramai sono vecchio è meglio che qualcuno sappia dove si trova, altrimenti se mi capita un accidente la cioccolata e tutto il resto andranno alla malora!” Sputò lontano la saliva marrone di tabacco e disse sorridente «Andiamo però che si fa tardi!»
Camminarono verso il fiume, arrivati alla riva si rinfrescarono e proseguirono seguendo l’acqua che scorreva tranquilla, perciò nella direzione opposta a dove avevano cercato la domenica di marzo. Ad un certo punto il terreno si fece morbido, con sabbia fine e asciutta e proprio d’innanzi a loro in linea perfetta c’erano tre salici piangenti maestosi che con le loro fronde sfioravano il terreno sabbioso, «Ecco siamo arrivati» disse il Vecchio Zio.
I fratelli si bloccarono di scatto e osservarono attentamente tutt’intorno poi in coro «Ma dove sono le piante delle cioccolate?» – «Ma come non le vedete?» E prese ad indicare, camminando lentamente zigzagando qua e là. «Questi sono mandarini, questi sono tamarindi, ecco qua i cioccolatini che si stanno formando. Speriamo che faccia caldo così saranno pronti per S. Lucia, Ah questo cespuglio lo scorso anno ha fatto 10 splendide cioccolate che ancora mi durano. Le banane sono un po’ piccole vero? Forse le brine di marzo le hanno indebolite.» – «ma Zio noi non vediamo niente!! Sei sicuro che non ci prendi in giro!!» – «Sì vi prendo in giro… guardate che meraviglia, possibile che lo veda solo io!? Ho zappato tutta la notte ho cavato tutta l’erba e i sassi!».
I bambini restarono ammutoliti e sospettosi, lo Zio era un burlone ma non sarebbe venuto fin lì solo per uno scherzo, lui scherzava con le parole non con i fatti. Poi questa storia, pensandoci bene, la sostenevano anche il babbo e il nonno.
«Su sedetevi qui all’ombra di questo arancio con me!» Restarono in silenzio tutti e tre, lo Zio sembrava triste e i bimbi un poco spaventati. Passarono alcuni minuti poi Mores disse « Non avevo mai portato nessuno qui, nemmeno il vostro papà e i suoi fratelli, non mi sono mai domandato se qualcuno avesse visto queste meraviglie, però non ho mai tenuto segreto niente ed ora scopro che solo io posso le posso vedere. Mi prenderanno per matto, non mi crederà nessuno! Ma voi almeno ci credete?» Giacomo osservò le sue scarpe con attenzione e poi dichiarò che sì, lui ci credeva e avrebbe aspettato che maturassero le cioccolate e i mandarini. Valentino tacque rispettoso. Lo zio si alzò posò le mani sulle teste dei bimbi e annunciò “beh andiamo che si fa tardi e la mamma penserà male”.
Passarono i giorni e altre avventure occuparono i due ragazzini la stori del campo magico restò in un angolo della mente, mai dimenticata.
Mores invecchiava senza cambiare aspetto e la vita fece il suo corso con lutti matrimoni e cambiamenti. Nacque un’altra generazione e il vecchio Zio a dondolare sulle ginocchia i figli di Giacomo e valentino raccontando di stupefacenti alberi di cioccolata e caramelle. Morì a 98 anni nella casa di suo fratello accudito dal nipote, dal pronipote e dalla di lui moglie.
Altre nascite ci furono e due bambine resero nonno Valentino, così la grande e antica casa risuonava spesso dell’allegria delle piccoline visto che dalla pianura dove abitavano salivano tutti volentieri al paese.
Il territorio era molto cambiato, i vigneti trascurati si trasformarono in boschi di latifoglia e rovi, tranne qualche appezzamento coltivato non certo per guadagno ma per un attaccamento che lega le famiglie dei contadini alla propria terra anche se aspra e poco generosa. Il cortile della casa era ancora uguale con poche galline e il cane. Giacomo e Valentino continuavano a mantenere viva l’essenza della famiglia di origine con il susseguirsi delle stagioni e il lavoro nei campi anche se in misura quasi di passatempo. Perciò si vendemmiava ancora l’uva che riuscivano a produrre nei ritagli di tempo e facevano un po’ di vinello, così, credo per rispetto delle generazioni precedenti.
Un giorno d’inverno finita la potatura raccogliendo gli attrezzi si apprestavano a tornare a casa Quando Valentino disse” saranno 30 anni che non vado più dove c’era il campo dello Zio Mores nella piana dell’Oglio!” “deve esserci un’impenetrabile boscaglia “rispose il fratello” “va bè facciamo un giro”. Col trattore arrivarono in 10 minuti ma veramente era un disastro, l’opera insistente e puntigliosa dell’uomo era stata cancellata con alterigia dall’irruenza della natura, a testimoniare che quello che ci prendiamo è solo per gentile concessione della stessa.
Scesero al trattore e senza proferire parole proseguirono verso il campo magico. Trovarono i tre salici allineati ora maestosi, nonostante uno fosse stato spezzato dalle intemperie era sopravvissuto, il terreno era su per giù uguale ,qualche arbusto in più ma sostanzialmente il posto era come lo ricordavano e senza bisogno di discorsi il silenzio riportò i ricordi dell’infanzia e le parole dello Zio aleggiavano come farfalle nel cuore di entrambi. Nonostante tanto tempo fosse passato la sostanza della loro vita era rimasta immutata. Ritornarono senza dirsi nulla e giunti nel cortile di casa le nipotine cinguettarono attorno chiedendo dove fossero stati, Giacomo riprese il filo del passato e ricominciò la storia degli alberi di mandarini e cioccolata e si vide l’ingenua curiosità accendersi negli occhi delle piccole.
Si lavarono le mani alla fontana e osservarono l’antica pergola che affondava le radici sotto il cemento del cortile e si arrampicava spoglia delle sue rigogliose foglie estive sul muro della casa del vicino per poi estendersi sulla terrazza. Ogni anno da tempo immemore dava un’uva bianca e dolce, una primizia che tutti quelli che frequentavano la casa ricordavano come un dolce frutto quasi proibito.
Si affacciò sul portone la moglie di Valentino e annunciò «preparo io la cena stasera, quanti siamo?»
E intorno alla tavola rifiorirono gli alberi di arance e mandarini le palme delle banane più lunghe che si fossero mai viste e perfino un cespuglio di ovetti kinder con tanto di fantastiche sorprese inedite.
Questa favola vera la dedico alla mia gente, che se ne andò in America, fece fortuna ma ritornò al paese, perse tutto e ricominciò con la testa alta e il cuore grande. Bella gente, dentro e fuori, generosa e ospitale, forse un po’ altezzosa…
La mia gente che sotto il cemento ha radici profonde.

 

 

 

La famiglia Marmotting

La famiglia Marmotting viveva poco sotto la cima Bleis. I componenti erano 14: mamma Flora, papà Eusebio, zia Rosy e zio Roman, il nonno Leo e nonna Tona, i ragazzi Pico, Lina, Pelù e Liolà che con quel nome romantico si atteggiava a principessa. Poi c’erano gli ultimi nati: Felice, Renata, Giacomino e Valeruz, questi era una specie di scavezzacollo imprevedibile che tutta la famiglia cercava di sorvegliare al meglio.
Non era importante sapere di chi erano figli, gli adulti si occupavano dei piccoli e questi ubbidivano agi adulti punto. Le regole erano facili da imparare: un fischio lungo quando il pericolo arrivava dall’alto, ad esempio un’aquila in volo o un uomo sul pendio soprastante. Due fischi consecutivi quando il rischio arrivava da un lato.
Quel giorno Pico era di guardia mentre Liolà poco distante sceglieva i fiori più saporiti mangiando di gusto. Ad un tratto un lungo fischio risuonò in tutta la valletta. Tutti i familiari corsero a perdifiato e si tuffarono nelle varie entrate della loro tana. Liolà invece ignorò l’allarme perché troppo presa da un cespuglio in miniatura di una gustosissima erbetta con magnifici fiorellini rosa (suo colore preferito), inoltre Pico, durante il turno precedente aveva dato un falso allarme.
Dietro una piccola roccia bianca costellata di stelle alpine spuntò il muso nero di un bel lupo che con occhi lucenti fissava Liolà, questa con la bocca piena quasi si strozzò nel lanciare un grido acutissimo che echeggiò fin giù al passo del Tonale, poi partì come un razzo verso la tana e il lupo dietro di lei, ma quando ormai si stava buttando sulla giovane marmotta questa spiccò un salto degno di una lepre e atterrò davanti all’imbocco del cunicolo con uno scroscio di sassi. Mamma Flora l’agguantò per la pelliccia e la trascinò dentro insieme al resto della famiglia. Il lupo piuttosto contrariato grattava tutt’intorno all’apertura nel tentativo di allargarla. Si infilò nel buco fino alle spalle mentre tutti scappavano terrorizzati nella camera successiva. Valeruz, troppo piccolo per capire il rischio, si girò di scatto e affondò i dentini aguzzi nel morbido naso del lupo, poi trotterellando orgoglioso si mise vicino al babbo. Nessuno fiatò aspettando tremando.
Il bel lupo invece si ritirò dolorante e scornato, proprio non se la sentiva di raccontare in giro che una palla di grasso lo aveva morso.
Le marmotte felici per lo scampato pericolo decisero di fare una festa con i vicini. Perciò il giorno a seguire tutti insieme organizzarono giochi e gare. Tutti si divertivano soprattutto i piccoli. Valeruz era il protagonista e raccontava orgoglioso la sua bravata. Gli adulti chiaccheravano rosicchiando erbe succose. C’erano 3 sentinelle: Pelù, Zia Rosi e papà Eusebio che osservavano tutto il territorio senza distrarsi.
Tra la morena sul costone di destra avanzava lentamente il bel lupo con tutto il suo branco (8 in tutto), aveva raccontato che un gruppo di marmotte lo avevano attaccato per difendere un cucciolo caduto sotto le sue grinfie. Perciò era stata decisa una spedizione.
Zia Rosy notò il movimento di una coda grigia tra un boschetto di rododendri e fischiò con tutto il fiato che aveva. Ci fu un parapiglia generale con scontri e ruzzoloni mentre i lupi ormai scoperti scendevano a rotta di collo dalla montagna. Tutti i buchi furono presi di mira e Felice e Giacomino si infilarono contemporaneamente in una tana non troppo larga. Restarono incastrati col sedere fuori continuando a spingere e raspare. Un giovane lupo li vide e si lanciò all’attacco. Affondò i denti nel morbido di dietro di Felice che dal dolore, fece uno scatto esagerato liberandosi di colpo insieme a Giacomino. Schizzarono nella camera adiacente dove trovarono nonna Tona con altri vicini.
Il terrore era tanto mentre fuori i lupi ringhiavano e scavavano alle entrate.
Il tempo passava e la situazione non cambiava. Poi non si sentì più nulla ma le marmotte restarono immobili.
Il branco si era allontanato per decidere il da farsi. Tra di loro c’erano 2 cuccioli e il capo decretò che uno di loro si sarebbe cacciato in una tana per spaventare le marmotte e costringerle ad uscire allo scoperto.
Fu scelto Turco che era un tipo veramente strano ma sveglio, d ‘altronde la piccola Astra era molto snella e adatta al compito ma piuttosto fifona.
Ormai era sera, il sole, tramontato da un pezzo, colorava il cielo di rosa, le mucche tornavano tranquille al posto di mungitura, il gregge invece era sparso sulla sponda opposta e brucava avidamente approfittando dell’umidità dalla sera che rendeva l’erba più tenera.
I lupi si acquattarono nei dintorni e aspettarono l’alba, mentre nelle tane la paura si poteva tagliare col coltello.
Quando le luci del nuovo giorno balenarono sulle creste dell’Adamello, Turco, svegliato dai grandi, si avvicinò a passo leggero alla buca più larga e come gli aveva insegnato mamma lupa si intrufolò nella tana.
Il lupetto sentiva odori stranissimi, non vedeva un fico secco, il soffitto era bassissimo e lo spazio molto limitato anche per lui.
Le marmotte fiutarono l’intruso e restarono paralizzate dalla fifa, ma i cuccioli non capirono e curiosi come sempre, sgaiattolando fra le zampe dei grandi, si avviarono in fila indiana lungo i cunicoli. Valeruz che era davanti si bloccò di colpo alla vista dell’intruso e gli altri tre gli rovinarono addosso. Renata lanciò un fischio imitata subito da Felice e Giacomino, Turco dallo spavento si alzò di scatto sbattendo la testa restando mezzo tramortito. I piccoli si avvicinarono annusando lo straniero, vedendolo così calmo cecarono di parlargli. Certo il linguaggio era diverso, ma si sa i cuccioli sono tutti simili e così cominciarono a giocare ridendo e nascondendosi nel cunicolo per poi riapparire davanti al nuovo amico che con la testa tra le zampe emetteva dei brontolii simpatici.
Fuori i lupi sorvegliavano con le orecchie dritte tutte le uscite, pronti a gettarsi sulle loro prede, la Lupa invece controllava la coda del suo piccolo che si muoveva spazzando il terreno sulla soglia della buca, aspettò per 10 minuti, poi con la bocca la afferrò e trascinò l’esploratore all’aria aperta.
Il branco ascoltò dal piccolo infiltrato come la tana fosse troppo stretta per poter far uscire le marmotte. Tutti tacevano e allora la Lupa guardò il capo e con voce decisa disse «son 3 giorni che non mangiamo, se permetti vado a seguire il gregge e cercherò di cacciare una pecora zoppa …» Poi aggiunse con voce più bassa «anche perché tutto questo grasso di marmotta non lo digerisco»
Risalirono il crinale e tenendosi sotto vento si avviarono verso il gregge che era sparso sulla sponda sinistra.
Dopo un’ora buona Pelù ed Eusebio decisero di tentare una sortita per controllare la situazione e con molta precauzione perlustrarono i dintorni. Verso sera vennero a sapere dai vicini che i lupi se ne erano andati verso la cima Cadì e oltre.
L’estate passò tranquilla per tutti, con corse e ruzzoloni, turisti curiosi, agnelli nati e mucche rumorose. Poi l’erba si fece secca e dura e tutte le marmotte lavorarono sodo per prepararsi al letargo.
Quando la prima neve cadde la montagna era silenziosa e deserta. Nelle tane i cuccioli stavano vicino agli adulti per poter mantenere il calore necessario per sopravvivere fino a primavera.

La primavera arrivò, piano piano la neve si sciolse e la montagna ritornò a vivere.
Le marmotte si svegliarono deboli e magre ma i germogli succosi le rimisero presto in forma. I lupi che avevano svernato tra le cime innevate erano nervosi e affamati ma chissà perché nella zona del Bleis evitavano di passare.
Si sparse così la voce che tra loro e la famiglia Marmotting ci fosse un certo rispetto. Verso luglio si cominciò a dire che Valeruz, Renata, Giacomino e Felice si trovassero con un bel lupo giovane a giocare ad acchiapperella vicino al laghetto del Bleis.
Non sappiamo se accadesse davvero, di certo le storie di lupi si sprecano, ma questa mi è proprio piaciuta!
MA VOI VE LO IMMAGINATE UN BEL LUPO CHE GIOCA AD ACCHIAPPERELLA CON 4 MARMOTTE?! Io darei 10 ore di cartoni animati per poterli vedere almeno 5 minuti!!!

 

 

 

La bufera

La bufera sibilò al ragazzo: «Cosa fai quassù?» – «Vado alla guerra» – «Perché?» – «Perché è arrivata la cartolina» – «Cosa c’era scritto?» – Non lo so, non so leggere, sono andato dal prete e mi ha detto che dovevo partire per salvare la patria altrimenti mi sparavano». «Cos’è la patria?» – «Non lo so, dove vivo io non si è mai vista» – «Nemmeno qui», sussurrò la bufera. Mentre parlava col ragazzo si era calmata e il vento ora era più lento. Il mulo soffiò piano tra le froge, il vapore del respiro si unì a quello del soldato. Camminavano a fatica nella neve polverosa senza sapere dove andavano. Seguendo la coda del mulo che li precedeva, carichi di pezzi di ferro.
Il freddo aveva intorpidito il corpo che continuava a salire per non gelare. Il vento soffiava la neve trasformandola in lame minuscole che tagliavano la pelle ormai insensibile e sembrava non si fermasse mai, eppure il camminamento era coperto di cipria gelata dove si affondava, come in una strana farina.
Il ragazzo pensava alla sua casa e mai le era sembrata così accogliente.
Sentiva l’odore dello “schelt”, la pappa di farina di castagne. Molte volte aveva maledetto quel cibo noioso, anelando un pezzo di carne, ma ora quel profumo dolciastro gli saliva dall’anima e si mescolava col salato delle lacrime.
Tutto aveva perso senso, perfino la certezza inculcata che l’inferno fosse un luogo di fiamme e calura. Lì su quel sentiero spazzato dalla tormenta ebbe la certezza che quella era la via per gl’inferi e che la mamma, il prete e tutti quanti si erano sbagliati di grosso.
Per l’inferno si saliva, altro che paradiso. Quello chissà dov’era, se avevano sbagliato sull’inferno c’era pure da sospettare che il paradiso fosse una balla.
I pensieri ondeggiavano in balia dell’ignoto e le forze scemavano. Mulinelli di neve toglievano ogni visibilità, in certe vallette si sprofondava fino alla vita, i muli cadevano in ginocchio tenendo il muso alto per non respirare la neve.
Non c’era terra, non c’era cielo, tutto era uguale, solo il mulo era la prova che si era ancora in questo mondo.
Poi ci fu un brontolio inquietante e dal crinale scese tutta la neve accumulata. Scivolò sopra la fila di cristiani e animali lasciando una scia pulita riportando fuori sassi e cespugli sradicati.
Fu silenzio e nient’altro, pure la bufera si era zittita.
Nulla sarebbe tornato alla luce per molto tempo, e nella povera casa del ragazzo sarebbe arrivata un’altra cartolina che il prete avrebbe letto alla madre esausta e rassegnata.
Negli anni a venire, nella piazza del paese, avrebbero scolpito i nomi di tutti quelli partiti e poi spariti per la follia di pochi. Nelle città avrebbero dato nomi nuovi alle vie per elogiare chi, con noncurante esaltazione, aveva mandato muli e ragazzi a sfidare la bufera e i cannoni.
Pochi di quelli tornati avevan parole per raccontare, gli altri ripresero la miseria per mano e cercarono di vivere.

 

 

 

Italiani

C’e sulla terra un paese bellissimo, tutti lo conoscono.
Ha la forma strana di uno stivale.
Questo paese si chiama Italia.
Il tacco dello stivale galleggia sul mare, c ’e quasi sempre il sole caldo e aria asciutta,
maturano olive e uva buona che da un vino che ti fa girar la testa perché dentro c’è tutto il calore del Sud.
Comunque da qualche parte di questo tacco viveva un ragazzo di nome Vito. Studiò, amò, si divertì e un giorno trovò lavoro in Svizzera che si trova in cima all’Italia divisa da questa dalle montagne più belle del mondo: Le Alpi.
Vito per lavoro viaggiava per il mondo e per un po’visse in paesi lontani.
Tornato a Lucerna, in Svizzera, trovò nuove amicizie, belle ragazze.
Tutte erano affascinanti ma tra lui e Marcella sbocciò il sentimento magico che tutti chiamiamo amore.
Anche Marcella era Italiana, ma la sua Italia non è del tacco dello stivale, ma in alto dove il gambale è più largo per infilarci il piede. (Infatti molti popoli stranieri si infilarono proprio lì)
È una pianura fertile dove ci vive gente laboriosa e un po’ esagerata, come il fiume che la attraversa: il Po.
Marcella portò Vito a conoscere la sua Italia. Il ragazzo sperimentò un caldo umido e un paesaggio piatto e noioso popolato da simpatiche zanzare che si accaniscono sempre sugli stranieri di passaggio. Mangiò tortelli di zucca, passeggiò in bicicletta con la sua amata nonostante l’afa soffocante e si ripromise di tornare con la stagione fresca.
Così il Natale successivo conobbe la nebbia della pianura padana che si può tagliare a fette, il freddo di pochi gradi ma che trapassa le ossa, mangiò buoni salami e tutto quello che gli misero nel piatto e capì che era pronto per stare per sempre con Marcella.
Poi arrivò la pandemia e tutto si fermò.
Ma i due ragazzi si volevano bene davvero e così dentro Marcella iniziò una nuova vita che si
Chiamerà LIVIA.
Imparerà ad amare l’Italia del tacco e quella della pianura, mangerà tortelli di zucca e pane con l’olio di oliva e quando vedrà le Alpi dirà: dall’altra parte c’è la mia Terra, il paese più bello del mondo perché ci sono nati mamma e papà.

 

 

 

Avventure di una pecora

Nella piccola frazione di Frai, in Vallecamonica, viveva una signorina anziana che possedeva un piccolo gregge, aveva una vita semplice e libera. Tutte le sue pecore erano ordinate e ubbidienti, bianche come la panna, morbide e ben curate.
Quando non era inverno, dopo aver mangiato la minestra avanzata dalla sera prima, ogni mattina la signorina Maria metteva pane, formaggio e lavoro a maglia nello zaino.
Con il cane Bric, portava le sue pecore su per il sentiero in mezzo al castagneto fino al pascolo di sopra.
Qui c’era erba fresca e abbondante, così lei si si sedeva all’ombra e sferruzzava tranquilla controllando con lo sguardo i suoi animali. Al bisogno chiamava Bric e con la mano indicava le pecore da riportare nel gruppo.
Nel piccolo gregge c’era armonia e tranquillità, i piccoli scorrazzavano felici tornando spesso dalle madri a succhiare il latte sostanzioso che li faceva crescere in fretta, così, quando erano pronti per la vendita, Maria riusciva a ottenere un buon prezzo.
La pecora più vecchia e grande era la Gina, che decideva dove mangiare e quando riposare, si metteva a capo fila durante i viaggi e portava il campanello che si udiva più da lontano. Ogni gregge ha un elemento così, è sempre femmina e i pastori la chiamano la Batidura che praticamente significa “quella che indica la strada “.
La più bella di tutte era Michelle, così l’aveva chiamata la Signorina, come tante altre che si erano susseguite nel tempo. Quel nome lo leggeva sull’unico vecchio romanzo che teneva sulla credenza, un libro con la copertina verde e i decori dorati. Glielo aveva regalato la sua maestra quando aveva lasciato la scuola per aiutare la mamma coi fratellini, il babbo era partito per le miniere del Belgio per fare un po’ di soldi e aggiustare il tetto della casa.
Michelle era una bella pecora robusta, non aveva ancora dato alla luce nessun agnello perché era giovane e aveva un carattere un po’ superbo. Sicuramente sarebbe diventata la capo gregge quando la Gina fosse stata troppo vecchia. Per ora era sempre quella che sia allontanava dalle altre per brucare l’erba più buona e non calpestata. Quando poi c’erano le castagne si attardava sempre a frugare tra le foglie, masticandole poi camminando con noncuranza. La vecchietta la conosceva e la lasciava un po’ fare, c’era sempre il suo fidato Bric che la rimetteva in fila. Una volta l’aveva persino morsicata alle zampe posteriori, ma lei aveva dimenticato presto la lezione.
Una sera d’estate, Maria lasciò pascolare le pecore un po’ più a lungo: durante il giorno erano rimaste all’ombra senza mangiare tanto era caldo, ma verso sera la canicola scemava e così si attardarono. Maria raccoglieva fragole cresciute lungo un muro e Michelle, una brucata dopo l’altra, arrivò al ruscello indisturbata, bevve avidamente, si guardò indietro e poi saltò sull’altra riva. Scoprì un praticello fiorito, tuffò il muso tra le foglie saporite mentre un’arietta fresca arrivava dal bosco.
Quando nel foulard ci furono due manciate di fragole da schiacciare con zucchero e vino, Maria chiamò il cane: «Andiamo Bric! Portiamole a case che si è fatto tardi!». Gina si incamminò verso il sentiero seguita dalle altre. Nessuno notò l’assenza di Michelle, ormai piuttosto lontana continuò ad ingozzarsi freneticamente come se quella fosse l’ultima occasione per mangiare. Ogni tanto alzava la testa guardandosi attorno soddisfatta di essere sola, poi riprendeva il suo divorare forsennato.
Maria aprì la stalla e attese che Bric spingesse le pecore all’interno e mentre ad una ad una entravano si accorse che Michelle non c’era. Parecchio arrabbiata tornò indietro lungo la mulattiera assieme al cane chiamando e fischiando, ma niente. Ormai era l’imbrunire e spazientita tornò a casa sperando che ritornasse da sola.
Accese il fuoco e mangiò la minestra molto più tardi del solito, e mentre sedeva con la porta aperta, un colpo di vento la chiuse: si avvicinava un temporale, le fronde degli alberi sbattevano sul tetto e presto grosse gocce si spiaccicavano sui vetri, tuonava forte e i lampi rischiaravano la stalla, ma la pecora ancora non si vedeva.
Si ricordò delle fragole e le preparò con cura, ma quando si apprestò a gustarle la preoccupazione la sopraffece e facendosi il segno della croce chiese a Sant’Antonio di proteggere i suoi animali.
Andò a dormire quando il cielo si stava aprendo e le stelle facevano capolino tra le nubi sospinte dal vento.
Michelle, quando il temporale cominciò, si staccò dal suo pascolo e saltò il ruscello. Poi la pioggia si fece fitta e fredda, e spaventata corse giù per il bosco senza seguire il sentiero. Si ritrovò così vicino ad una casa. Fuori c’era un cane grosso e minaccioso legato vicino al cancello che abbaiava contro di lei. Vide la luce alla finestra e restò ferma al di qua della recinzione, mentre la pioggia la bagnava fino alle ossa, dividendo la lana con una riga esatta lungo la schiena.
Il proprietario della casa, sentendo tutto quell’abbaiare, si affacciò: «Che ci fa una pecora sotto questo diluvio?» si domandò. Aspettò un poco ma era sempre lì, immobile con lo sguardo perso. Allora uscì con l’ombrello, zittì il cane e aprì il cancello. La pecora entrò fiduciosa, e lui la sospinse nel pollaio insieme alle sue galline, che già mezze addormentate si spaventarono, e iniziarono a svolazzare qua e là facendo un gran baccano.
Il signore chiuse la porticina e si ritirò.
Ah, una nottataccia per la pecora! Niente da mangiare, un odore strano, le galline che la sorvegliavano e ad ogni suo movimento schiamazzavano svegliando il cane che abbaiava allarmato dalla confusione.
Quando fece chiaro iniziò a belare disperata. Più di lei lo era il padrone della casa, che tra il temporale, la pecora e le galline e il cane non aveva chiuso occhio. Si alzò e ancora in mutande andò ad aprire il pollaio, forse così ci sarebbe stata un po’ di pace.
Passava di lì il signor Piero in bicicletta e vide le galline, la pecora e il signor Martino in mutande. Si fermò di botto e urlò: «Che succede?» – «Ma guarda, ieri sera mi è arrivata qui ‘sta pecora, e ora non so che fare». Piero la guardò e disse: «Mi sembra una pecora di Maria, ma strano che sia arrivata fino a qui».
Tornò sui suoi passi e passò dalla vecchietta che, sveglia da tempo, aveva deciso di partire prima per cercare Michelle.
«Buongiorno Maria! Avete mica perso una pecora?»
«Si, mi manca da ieri sera.»
«Guardate che è da Martino!»
«Oh, come sono felice, vado subito a prenderla!».
Partì con il cane alle calcagna, il sole scaldava e asciugava le pozzanghere. Ci volle quasi un’ora per arrivare, e quando la vide tutta triste e agitata trasse un sospiro. Ringraziò Martino, e aprendo il cancello la pecora le corse incontro.
Per tutto il tragitto, Michelle le stette attaccata al grembiule, belando ogni tanto. Quando poi si riunì al resto del gregge sembrava le volesse salutare ad una ad una, ma le altre neanche la guardavano.
Per qualche giorno tutto fu tranquillo, e si scordarono dell’accaduto. Anche Michelle piano piano riacquistò le sue abitudini, e senza dare nell’occhio, cercava sempre di sgattaiolare via. Certo la signorina, ricca di esperienza, notava i suoi movimenti e la riportava nel gruppo.
Gina avrebbe partorito a breve e un giorno passò dal pascolo il pastore Matteo. Chiese a Maria se volesse vendere qualche pecora, per esempio quella con la campanella di bronzo. Cosi dopo un po’ di trattativa, si accordarono per la Gina e altri tre agnelloni belli grassi.
«Verrò a prenderle la prossima settimana» – «Va bene, vieni per cena e porta tua moglie».
Maria si pose quindi il problema di chi sarebbe stata la capo-gregge. Molto indecisa, prese il campanello e lo mise al collo di Michelle, sperando in cuor suo che non fosse una scelta azzardata.
Di sicuro, a Michelle piaceva fare la capa. Davanti a tutte camminava in modo che il campanello suonasse forte, faceva perfino un movimento con la testa per accentuare lo scampanio.
Al quarto giorno, mentre Maria si attardava con un turista che chiedeva informazioni il piccolo gregge scomparve dalla vista. Il silenzio ne denunciò la mancanza. Bric fu svegliato bruscamente e partì di corsa abbaiando. Le fuggitive erano scese a rotta di collo dal sentiero ed erano arrivate ai prati falciati. Michelle, non ancora soddisfatta, proseguiva di gran carriera, seguita dalle altre in una marcia disordinata e frettolosa. Sotto un muretto a secco apparve un campicello di patate, con piante di fagioli e una ventina di bellissimi cavoli, grossi e duri, tante zucche colorate di tutte le forme da sembrare finte. Michelle saltò il muro e, seguita dalle altre, iniziò il disastro. Sembrava proprio che tutto il gregge fosse preso da una voracità straordinaria, ma non per fame, bensì per il gusto di fare un dispetto.
La vecchietta arrivò sul posto quando il cane le aveva già scacciate e spinte contro il muro, tenendole a bada. Maria portò il gregge sul sentiero basso, e attraversando la costa sopra il cimitero del paese, fece rientro a casa. Era molto arrabbiata, ed entrò nella stalla apostrofando gli animali in malo modo. Prese Michelle per il campanello, glielo tolse schiaffeggiandole il muso bruscamente.
Andò in paese, e bussò alla porta della signora Colomba. Quando le fu aperto disse in un fiato: «Mi sono scappate le pecore nel tuo campo e hanno mangiato le verze. Dimmi cosa ti devo dare per ripagarti». La Colomba, che non aveva un buon carattere, iniziò una sequela di lamenti mista a insulti con un qualche accenno ai Santi e alla Madonna. Al che, Maria salutò scusandosi per l’accaduto e se ne andò. La padrona del campo non avrebbe mai detto quanto pretendeva per il danno, cosi lei si sarebbe sempre sentita in debito.
Veramente seccata, dopo averci pensato tutta la notte, al mattino Maria legò Michelle con una corda e allettandola con un pezzo di pane la condusse fino alla stalla della Colomba, annodando la corda al catenaccio. Passando vicino all’orto, si mise sotto la finestrella della cucina e urlò: «Ti ho portato una pecora per ripagarti del danno! Ti saluto», e con passo di marcia tornò a casa, prese lo zaino, spalancò la stalla e ferma sulla porta urlò: «Vediamo se senza quella golosa state al vostro posto, o se vi devo chiudere nel recinto elettrico!».
Fu una bella giornata e tornando a casa Maria pensava a quanto le era costata la fuga delle verze. Forse aveva esagerato a portare una pecora, ma con la Colomba non c’era modo di ragionare. Con tutti aveva avuto da ridire e nessuno voleva avere a che fare con lei.
Mentre entrava in cucina, dalla strada arrivò una voce che gridava: «Tieniti la tua pecora, che ha aggiunto danno al danno! Mi è entrata nell’orto e ha mangiato perfino i fiori dei morti!».
«Ma non è colpa mia!» – ribatté Maria – «la pecora, da ieri sera è tua!».
«E adesso è di nuovo tua! Portami la lana per quattro cuscini e che sia finita lì!».
Così Michelle rientrò nel gregge con fare da vincitrice. In fondo, lei aveva rubato le verze, devastato l’orto e ora era di nuovo al sicuro nella sua stalla arraffando il fieno più buono.
Maria durante l’inverno si ammalò e non poteva più accudire i suoi animali, così incaricò il nipote di vendere il gregge, dandogli tutti i consigli per ottenere un prezzo vantaggioso.
A fine gennaio venne un camion, e fece salire i quadrupedi belanti mentre Maria, in camicia da notte e con gli occhi lucidi, osservava la partenza dalla finestra della sua camera.
Vennero scaricate dopo due o tre ore di viaggio in un campo di stoppie dove già pascolava un numeroso gregge. Erano tante, forse mille, quattro cani bianchi giravano fra il gregge. Uno nero con un occhio azzurro e uno marrone stava vicino al pastore, mentre un altro rossiccio stava sdraiato vicino al furgone.
L’autista consegnò i documenti delle pecore che aveva portato al pastore, e poi partì.
Le pecore di Maria restavano tutte ammucchiate e spaventate, non osavano neppure belare. Terrorizzate dai cani, non mangiavano e continuavano a stringersi tra di loro. Il pastore si avvicinò e, con movimenti delle braccia e la voce, le incitò a unirsi alle altre.
Furono giorni tristi per il piccolo gregge di Maria. Per prima cosa, la sera non si rientrava nella stalla ma si stava fuori con qualsiasi tempo, chiuse nel recinto elettrico. Al pascolo era sempre difficile riuscire a brucare erba non calpestata, se restavi indietro, facevi la fame. Rischiavi sempre di perdere gli agnelli nella confusione, i cani non erano delicati come Bric: a volte azzannavano anche senza motivo. Il pastore poi, per dominare tutti quegli animali, doveva alzare la voce e per farsi ubbidire dai cani era costretto a continui fischi e urli.
Le nuove arrivate restavano sempre insieme e formavano un piccolo gregge dentro al gregge. Non avevano campanelli, perché la vecchietta li aveva tenuti per ricordo.
Un pomeriggio, mentre il sole scaldava finalmente la lana umida delle bestie, il pastore curava le sue pecore: controllando gli zoccoli di quelle che zoppicavano, applicando uno spray a quelle che mostravano i segni della rogna, disinfettando piccole ferite e facendo un po’ di conti in previsione di prossime vendite. Ancora una volta notò che le pecore comprate da Maria mantenevano le distanze dalle altre. Afferrò Michelle e mormorò: «Metterò un campanello a questa, almeno quando saliremo in montagna saprò ritrovarle. Son sicuro che queste appena le scarico faranno di tutto per stare da sole.».
Da quel giorno fu più facile, il gruppetto aveva il suo riferimento grazie al campanello. Michelle prese coraggio e iniziò a stare davanti, seguita dalle altre conquistavano le posizioni migliori nel pascolo e nel recinto si proteggevano a vicenda.
Arrivò maggio e la pianura si fece calda e rigogliosa. Il pastore organizzò la partenza per la montagna. Quell’anno aveva preso in affitto una malga proprio nel comune dove viveva la vecchia Maria. Il gregge fu caricato sugli autotreni all’alba di una bella giornata. Fu una specie di incubo: i cani abbaiavano, i pastori al solito fischiavano e urlavano, gli autisti spingevano coi bastoni, gli agnelli furono catturati e caricati nei cassoni sotto i camion separati dalle madri. I belati si stendevano nella pianura e gli agricoltori mormoravano: «Il pastore parte per i monti finalmente!», quasi fosse un pensiero in meno. Dopo più di tre ore di viaggio angosciante, tra i belati ormai rochi, si spalancarono i portelloni dei camion, e le pecore si riversarono nella rada boscaglia in riva al torrente, dove gli autisti avevano potuto fermare i mezzi. Altre urla e fischi, e poi tutte dietro al pastore incalzate dai cani.
Per arrivare ai primi pascoli della malga, ci volevano almeno due ore di cammino, ma il gregge aveva bisogno di bere e mangiare, così salirono in mezzo al paese e presero il sentiero sopra il cimitero, e poi attraverso i castagneti fino ai prati alti ormai abbandonati dai pochi contadini. Qui avrebbero fatto tappa per la notte.
La signorina Maria stava meglio e usciva a passeggiare insieme al cane. Quella mattina aveva deciso di scendere al paese per il piccolo mercato mensile, avrebbe poi fatto visita al nipote che l’avrebbe riportata a casa in automobile. Fu così che si ritrovò in mezzo al gregge. Riconobbe le sue pecore, Michelle stava davanti, appena dietro al pastore e portava una bella campanella di bronzo. Camminava fiera seguita dalle altre mille e più, ma vicino a lei c’erano le “montagnine”. Così chiamava il pastore quella manciata di pecore che se ne stavano sempre fra loro. Maria fu felice di vedere che i suoi animali stavano in salute e vedendo Michelle davanti a tutte sorrise, ricordando le verze e l’orto della Colomba.
La malga era vasta, erba in abbondanza e un po’ di libertà, assicurava il benessere del gregge. I cani dormivano e il pastore si godeva la tranquillità e il clima, concedendosi lunghi riposini. Non c’erano strade trafficate, o coltivazioni da evitare come in pianura.
La vita del pastore è tra le montagne, il tempo passato in pianura è solo l’attesa del ritorno sui monti. Solo lì c’è la libertà e l’essenza di un lavoro che è passione e armonia con gli animali. E così in quel clima di rilassatezza, le montagnine si allontanavano dal gruppo, e se rimanevano in vista, il pastore le lasciava da sole. Le capiva, abituate alla stalla, sempre in poche e accudite da una donna, la vita nel gregge numeroso per loro era una baraonda. Era fortunato che non si erano ammalate e gli agnelli non erano morti.
Una notte di agosto la montagna pulita senza alberi era rischiarata a giorno dalla luna. Michelle e le altre stavano in una piccola conca, mentre il grosso del gregge dormiva sotto la baita diroccata. D’un tratto i cani bianchi si agitarono e le pecore si mossero tutte insieme. Due lupi avanzavano tra l’erba pronti all’attacco. E così fu, nonostante i cani, riuscirono a uccidere due agnelli e rovinare una pecora.
Anche la montagna diventava difficile. I lupi erano una novità, da più di un secolo erano spariti e il loro ritorno sconvolgeva malgari e pastori.
In tutto ci vuole fortuna, e le montagnine ne ebbero. Nonostante non avessero la protezione dei cani, non furono mai attaccate, e una sera Michelle partorì due bellissimi agnelli, orgoglio del pastore. Il piccolo gregge era sano e pure di buona razza, e lui era soddisfatto. I colleghi che venivano a trovarlo gli chiedevano: «Che ne fai di quelle solenghe? Quando scendi giù ti faranno tribulare e nella baraonda dimagriranno e gli agnelli moriranno. Vendile intanto che sono in carne». E poi: «Dalla a me la batidura con gli agnelli!». Facevano offerte strepitose, ma il pastore non vendeva. Gli piaceva vederle così libere, e forse si rivedeva un po’ in loro. Lui che aveva mollato tutto ed era tornato a fare il lavoro del padre. Quando osservava il suo gregge sparso sulla montagna, si sentiva leggero e ricco, anche se non di soldi.
Quando era seguito dal suo gregge lui era il re di un regno senza limite perché i confini li disegnava la sua libertà.
A settembre nevicò e il gregge fu spinto giù fin quasi ai castagneti. Michelle e le altre non c’erano. Le videro con il binocolo quasi sulla cima in mezzo alla neve. Per riportarle il pastore dovette chiedere aiuto a un amico, che non mancò di fargli notare che quelle pecore erano delle piantagrane mezze selvatiche.
Era tempo di transumanza, i camion sarebbero arrivati l’indomani, era l’ultima sera e si scendeva fino alla strada statale. Michelle aveva ripreso il suo ruolo con i due agnelli sempre vicino, era una regina e il gregge era il suo strascico. Attraverso il castagneto, giù fino ai prati e poi ecco il campo della Colomba, con le verze ormai pronte da cogliere. Il muretto a secco superato in un balzo e la moltitudine dietro di lei. I fischi e le bestemmie, i cani che mordono le ultime e il sapore dolce della sola foglia di cavolo rubata. Di nuovo sulla stradina e il campicello ridotto un disastro, il pastore che urla: «Dovevo venderla quella balenga!». Ma non l’ha fatto, e adesso la Colomba canterà le lodi dei suoi cavoli fino a primavera, e magari andrà pure dal sindaco a farsi rimborsare!
Passarono davanti alla casa di Maria, e il pastore vedendola gridò: «Signora Maria, le avete viziate queste pecore! Salutatemi la padrona del campo con le verze!».
Maria capì e rise di cuore, seguendo con lo sguardo il fiume bianco che spariva dietro la curva.

 

 

 

foto per minisito