Paolo Ferrante - Poesie e Racconti

DESIO D’UN SOGNO

 

Sedotto dal canto della vita,

abbraccio figure evanescenti,

come immagini irreali d’un sogno.

 

Brucio di parole,

bramose d’uscire fuori

dal mio tenace cuore,

per pacificare l’uomo e il mondo.

 

Ho bisogno di nuova linfa

che non gusti più di sangue,

che non parli più di guerre.

 

Ho bisogno d’immagini pulite,

come pulito è il cuore d’un bimbo.

 

Ho bisogno di uscire

dal cerchio ossessivo

della retorica dell’amore

per inebriarmi del canto della vita.

 

Così sprigioni da me musica

per unirmi alle buone note di questo mondo

in una danza che si fa canto,

in un canto che si fa innocente sogno,

sogno di una vita donata

a ogni umana creatura.



EBBREZZA DI SOLE TRA I MONTI TIBETANI

 

Su per sentieri tortuosi,

passo dopo passo,

inerpicarsi senza sosta.

 

Duro cammino che s’apre

tra gelidi sibili di vento

e danze sacre di radi alberi.

 

E’ tempo d’astergere il sudore

e di puntar decisi verso la cima

ch’ormai si fa più vicina.

 

Ora, rimirare da lassù altre vette

e attendere il soleo abbaglio

avendo il chiarore dell’alba in compagnia.

 

Ora, lasciarsi coprire d’ardenza

sempre più intima e forte

nel brillio accecante di luce.

 

Vivo desiderio, da sempre coltivato,

pur raggiunta e gustata l’ebbrezza,

mai più m’abbandonare.



GRIDARE LA LIBERTÀ

 

Mi sento naufrago dei miei sogni

fra i flutti tristi

d’una vita cadenzata

dal passo e dal “diktat” del partito.

 

Colpito da schegge impazzite,

sento spente le fibre del mio corpo

sospinto tra le spire

dell’impalpabile nulla.

 

Tradito nella dignità,

rimango muto al richiamo dei compagni.

Ho solo la forza d’un bisbiglio.

Mormoro il desiderio di libertà

sperando d’avere un giorno

il coraggio di gridarlo.



LA BANDIERA

 

Quando Mao issò la prima bandiera,

in piazza Tienanmen,

la vedemmo rossa

del sangue di chi,

per quella nascente patria, aveva dato la vita.

Guardammo pure la stella

che in grandezza superava le altre:

Simboleggia la guida del Partito”,

ci dissero.

Una di quelle quattro stelle più piccole

rappresenta voi, studenti”.

La guardammo estasiati.

Quattro stelle,

una per ciascuna delle classi sociali:

i soldati, gli operai, gli studenti, i contadini.

Nel volger di poco tempo

la grande Stella s’offuscò,

ci fagocitò.

Divenne forza che schiaccia,

drago che divora,

potere di uno,

assenza di libertà.

Vilipesi da tutto questo,

in piazza Tienanmen

patimmo ancor di più.

E’ lì che, nella bandiera,

in quella nefasta notte,

vedemmo spegnersi

la nostra piccola stella

ed è lì che, la Guida del partito,

perse l’onore e l’umanità.



LE RUOTE DELLE PREGHIERE

 

Girano le ruote delle preghiere,

sfiorate da mani che sanno di dolore,

che sanno di sudore e di speranza.

Girano le ruote delle preghiere,

con quel suono ormai familiare

a ogni tibetano

quale musica intrecciata

ai mantra dalle sei sillabe.

Preghiere,

dal mormorio basso,

che accompagnano

prima l’infanzia e poi l’età matura

con toni che si fanno sempre più profondi

con lo scorrere degli anni;

toni inavvicinabili a chi, a questo pregare, non è avvezzo.

Dopo millenni di storia,

girano ancora le ruote delle preghiere

in Tibet;

meno numerose, meno sfiorate,

sempre più pregne di sofferenza,

di sangue e di dolore.

Ma girano ancora,

speranzose,

le ruote delle preghiere.



L’UNICO SPIRAGLIO DI CIELO

 

Un lungo corridoio separava le celle,

come riga sulla testa di due parti disuguali di capelli.

Mi spinsero dentro la sesta cella.

Dissero che era la migliore.

Una coperta segnava il mio posto letto,

stretto tra altri compagni di sventura,

e la nuda terra come materasso.

Imparai che il bagno,

un catino pronto ad accogliere

ogni umano fetore,

doveva essere svuotato ogni tre giorni.

In alto, a destra,

si affacciava l’unico contatto con la libertà:

una piccola finestra con strette grate,

una carezza in un mare dove le onde della miseria

si accavallavano spingendo i prigionieri gli uni contro gli altri,

segnati sempre più da cicatrici

a perenne ricordo delle torture inflitte dalle guardie del carcere o dai kapò.

Fui sottoposto a lavoro forzato,

punto di forza anonimo nella rigida regola economica della Cina.

Qui, dove la parola più ricorrente era il castigo,

mille sogni visitavano la mia mente

e uno vi era più presente:

le tue movenze che si accavallavano

e si rincorrevano

e giocavano nei miei pensieri

e mi distraevano dai prigioni patimenti.

Strideva il pensiero di te con la feroce presenza dei miei aguzzini.

Perdonami se non ti ho lasciato andare,

perdonami se ti ho tenuto prigioniera nella mia mente,

perdonami se ti ho costretto

a stare qui

insieme con chi

fa del disumano divertimento

l’unico scopo della vita.

Tu, per me

eri, sei e sarai

l’unico spiraglio di cielo.



MIA MADRE

 

Eri donna aperta all’amore.

Eri madre donante la vita.

Mi hai cresciuto fiera,

mia cara luce.

Ti hanno imposto di denunciarmi,

o madre.

Tu ai scelto di privarti

della tua vita!



MIO PADRE

 

Ricordo l’arcobaleno che univa i monti della valle.

Ricordo il fulmine che aveva spezzato l’albero dei nostri giochi.

Ricordo la nostra casa disposta su due piani

e le piccole finestre

dalle quali si affacciava la nonna

stringendo, tra le mani ossute,

il tradizionale flauto in bambù.

Quel suono ritorna alla mente come un richiamo alla vita,

come un invito a non arrendersi.

 

Ricordo nostro padre,

mai spaurito davanti ai rigidi inverni

o alle ristrettezze della vita.

E ricordo quando vennero ad arrestarlo!

Avevano detto

che era un controrivoluzionario.

Mio padre sapeva solo di campagna e null’altro.

Gli volevo tanto bene

e, mentre veniva condotto via,

non ho trovato il coraggio o le parole per dirglielo.


 

PATRIA CINA

 

Vento che soffia impetuoso

e pervade d’amara paura,

sibilo che passa gli infissi

e porta messaggi di morte

è il tuo agire,

Patria mia!

 

Placa il tuo soffio,

poni fine alle contese,

libera la tua angoscia!

 

Cambia le orme che hai impresso

non con l’impeto della gelosia

e del terrore,

ma col sorriso

d’una dolce carezza

fatta ai tuoi figli.

 

Gonfia le vele,

espandi i profumi,

parla di vita

ed entra nei cuori,

Patria mia!


DIGNITÀ DONNA

Isola di Lampedusa.

«Cognome, nome e luogo di provenienza», chiese un funzionario delle forze dell’ordine.

«Je, unasema nini?», replicò la ragazza.

«Come si chiama e da dove viene?», ripeté pazientemente il poliziotto.

La giovane lo guardò con occhi interrogativi e un po’ impauriti.

L’uomo riprese: «Qual est votre nome?».

La ragazza scosse la testa.

«What’s your name?», insistette l’uomo.

Questa volta, comprese che volevano saper il suo nome, ma il resto delle richieste le fu  incomprensibile.

Allora, il poliziotto aspettò che il mediatore culturale terminasse di parlare con un immigrato, poi lo chiamò. Il mediatore, un giovane sui trent’anni con una buona esperienza di lavoro, aveva studiato lingue al liceo e aveva seguito un corso di arabo all’università “L’Orientale” di Napoli. Neanche lui riuscì a farsi capire. Perciò, il poliziotto dispiegò davanti alla ragazza una cartina geografica con i due planisferi. La giovane comprese e con l’indice puntò decisa una zona dell’Africa, la Tanzania. Identificata la provenienza, bisognava trovare qualcuno che parlasse lo Swahili.

Fu così che quella storia mi coinvolse. Avevo studiato lo Swahili in Tanzania, presso una scuola gestita da luterani; sei mesi d’intenso studio, poi la pratica fatta nei quattro anni trascorsi nei villaggi della savana, a seicento chilometri dalla costa oceanica.

Mi trovavo a Lampedusa per un periodo breve di vacanza. Avevo preso in affitto una casetta indipendente, desideroso di stare da solo e godermi la bellezza delle coste dell’isola e il silenzio dell’entroterra. Non so chi, ma qualcuno segnalò il mio nome e la mia presenza sull’isola. Mi trovarono presso la spiaggia di Cala Croce; così, dovetti lasciare la tranquillità delle due spiaggette che si affacciavano ridenti sulla Cala e raggiungere il Centro d’accoglienza in contrada Imbriacola.

La struttura presentava ancora i segni dei due incendi dolosi causati da un gruppo di profughi che si era rifiutato di sottoporsi alle procedure di identificazione. Entrando nella struttura vidi alcuni giovani sdraiati in una zona d’ombra del cortile; c’erano anche dei bambini che giocavano a palla e diverse donne, alcune delle quali in stato di gravidanza. In seguito, venni a sapere che taluni immigrati dormivano all’aperto per mancanza di posti letto. La struttura aveva una capienza di quattrocento posti circa, ma di ospiti ve n’erano stipati quasi il doppio!

Fui accompagnato nel piccolo locale occupato dalla polizia, all’interno del quale si procedeva all’identificazione dei migranti prima d’essere trasferiti in altri centri d’accoglienza o rimpatriati. Mi fecero accomodare su di una panca di legno addossata alla parete di fondo della stanza. Attesi pochi minuti, poi entrò una ragazza di colore accompagnata da un mediatore culturale. Era lei la persona alla quale dovevo fare da interprete. Valutai che doveva avere circa sedici anni. Indossava un kanga che le copriva il busto e il kitenge stretto attorno ai fianchi. Mi colpì l’immancabile frase proverbiale scritta vicino al bordo del kanga “Penye nia, pana njia” (Dove c’è la volontà, lì c’è la soluzione).

Quando i suoi grandi occhi incrociarono il mio sguardo, mi presentai salutandola nella sua lingua natale. Lei accennò un sorriso e rispose: «Mimi ni Agata Mtifu».

Il funzionario di polizia volle sapere, oltre al nome e cognome, la data di nascita, il nome della città o del villaggio di provenienza, la scolarità e il motivo per cui avesse lasciato la patria. Lei, a volte fissandomi negli occhi altre volte tenendo lo sguardo abbassato, rispose a tutte le domande tranne che all’ultima. Dietro insistenza del funzionario, dovetti ripeterle la domanda: «Kwa nini wewe kushoto Tanzania?» (Per quale motivo ha lasciato la Tanzania?).

La ragazza abbassò lo sguardo per un tempo più lungo rispetto alle altre volte e si strofinò nervosamente le mani. Forse una presenza femminile l’avrebbe messa a suo agio, ma in quella stanza c’eravamo soltanto uomini! La lacrima che si formò lenta nei suoi occhi, scivolò veloce verso il mento rigando quel viso che sapeva di giovane innocenza. Nessuno le fece fretta. Le porsi un fazzoletto di carta, lei si asciugò le lacrime dal volto e iniziò a parlare a bassa voce, con pudore.

 

Sentivo le urla di mia sorella, la mediana delle tre. La zia paterna era arrivata dal villaggio vicino per quell’incarico. Nella capanna c’erano con lei altre tre donne. Mamma aveva preferito stare con me. Non eravamo distanti dalla capanna, stavamo sedute sotto un’ombrellifera. Io tenevo il capo sul grembo di mamma e lei poggiava le mani sul mio orecchio, quasi a ovattare le urla strazianti di Pili; inoltre, stava col capo chino. Si vedeva che soffriva! Io sapevo che cosa erano venute a fare quelle parenti e cosa stesse succedendo nella nostra capanna. Nonostante il divieto dato dagli adulti, noi bambine di nove e dieci anni ne parlavamo rassegnate con le amiche giovani che avevano vissuto quell’esperienza. Non ho ricordi di quando fu il turno di nostra sorella maggiore, ma ero terrorizzata dall’idea che da lì a poco sarebbe toccato a me.

Pili rimase a letto alcuni giorni dolorante e febbricitante. Solo dopo diverse giornate trovò la forza e il coraggio di parlarmene; mi disse che le avevano asportato il clitoride utilizzando un pezzetto di vetro come coltello!

Ero terrorizzata dall’idea dell’arrivo delle mestruazioni; poiché, queste segnavano il passaggio dall’età dell’infanzia a quella della donna pronta a dare alla luce un figlio: finiva il tempo del piacere e iniziava quello del dovere! Tanto ero spaventata che quando si presentò la prima perdita di sangue non ne parlai con nessuno; né con le amiche, né con le mie sorelle e neppure con mamma. Avevo undici anni!

Alcuni mesi dopo, approfittando dell’assenza di papà e delle mie sorelle, mamma mi invitò a entrare nella capanna.

«Agata, so della tua nuova condizione».

Feci finta di non capire.

«Quale condizione?».

«Lo sai che non possiamo nasconderla a lungo?».

«Mamma, io non voglio che mi tocchino!».

«Se rimani qui, quel che deve essere fatto sarà fatto!».

«Mamma, sto diventando donna e non voglio rinunciare a nessuna parte del mio corpo».

«Agata, a te la scelta; se rimani dobbiamo farlo. Io non posso oppormi a questa tradizione».

«Mi stai dicendo di lasciarvi?».

La mamma non rispose. Mi abbracciò e pianse.

«Sono troppo piccola. Non riuscirei a vivere da sola!», ripresi dopo un tempo che a me parve interminabile.

«Ho parlato con un lontano parente che vive a Dar Es Salaam. Andrai a vivere per un po’ da lui. Convincerò papà che vuoi finire gli ultimi tre anni della scuola primaria in città e proseguire con gli studi della scuola secondaria pagati da questo nostro parente. Nessuno si opporrà al piano poiché non abbiamo le risorse economiche per sostenere i tuoi studi oltre la scuola primaria e poi una bocca in meno da sfamare è sempre un aiuto per tutta la famiglia! Quando sarai a Dar, passati due mesi, dirò che il nostro parente ha mandato delle comunicazioni, tra queste dice che tu hai avuto le tue cose. Verrò io da te e di ritorno comunicherò alla famiglia che quel che doveva essere fatto è stato fatto. La partenza è prevista per la prossima settimana. Quel giorno non andrai a scuola; attraverseremo i campi di mais e arriveremo al villaggio di Ndolela. Ci sarà un amico ad aspettarci. Io tornerò a casa, tu proseguirai il viaggio con lui in bicicletta fino a Iringa. In città ti farà salire sull’autobus per Dar, viaggerai da sola. A Dar verrà a prenderti la persona della quale ti ho già parlato».

Quella notte non dormii. Nella mia mente si alternavano pensieri di paura per quel futuro incerto e pensieri di speranza per la possibilità che nella mia vita si stava aprendo una prospettiva nuova, un avvenire fatto di rispetto per me, di considerazione della mia volontà e del mio corpo. Neanche mamma dormì. La sentivo rigirarsi sulla stuoia e di tanto in tanto parlottare con papà.

Il giorno dopo, tutto andò come lei aveva programmato. Era già buio quando arrivai a Dar Es Salaam.

«Sei tu Agata?», mi chiese l’individuo che mi vide scendere dall’autobus.

L’uomo che mi stava davanti somigliava alla descrizione che mamma aveva fatto di lui.

«Si» risposi, tenendo nervosamente stretto in mano il fardello con la poca biancheria che mamma era riuscita a mettere insieme.

«Io sono Peter. Andiamo a casa. Abito qui vicino».

Lo seguii in silenzio camminando una ventina di minuti fino a quella casetta col tetto in lamiera e addossata alle altre. Un cavo di corrente elettrica, fissato sul palo adiacente alla casa, entrava nell’abitazione. Nel mio villaggio e in tutti quelli vicini al mio non c’era la luce elettrica! Non appena varcai la soglia della porta, la lampadina accesa illuminò il mio viso; quella luce mi sembrò di buon auspicio, annunciatrice di buone speranze per il futuro.

«Lei è Aisha, mia moglie. Loro due sono le mie figlie: Furaha e Sauda. Dormirai con loro».

Accennai un timido saluto col capo biascicando il mio nome e aggiunsi:

«Mamma e la mia famiglia vi mandano tanti saluti». Non dissi altro.

Da quella sera, passarono due anni, nessuno mi venne a cercare, nessuno mi mutilò. Mamma era venuta a trovarmi pochi mesi dopo il mio arrivo a Dar Es Salaam, come avevamo concordato, e di ritorno aveva comunicato ai parenti del villaggio che la tradizione era stata rispettata.  

Un triste giorno, mentre tornavo da scuola, frequentavo l’ultimo anno della primaria, qualcuno per strada mi agguantò e mi spinse brutalmente dentro un’auto; un altro, che sedeva sul sedile posteriore del mezzo, mi afferrò le braccia, mi tirò giù verso il sedile e mi tappò la bocca. Prima che mi rendessi conto di ciò che stava succedendo, l’auto partì velocemente mescolandosi nel traffico cittadino tra l’indifferenza della gente che assistette all’episodio. In me tornarono le tenebrose paure del passato. Ero confusa, disorientata, spaventata.

«Chi siete! Lasciatemi andare!», riuscii a dire quando l’uomo mollò la presa dalla mia bocca.

Nessuno dava retta alle mie domande e alle mie richieste di aiuto. L’auto era già uscita dalla città e le mie urla si disperdevano inutili nella campagna. Perciò, iniziai a formulare delle ipotesi per spiegarmi l’accaduto. Ritenni improbabile il sequestro per ottenere un riscatto, io ero povera! Non avevo fatto male a nessuno, non avevo nemici. Chi sono, dunque, queste persone? Che cosa vogliono da me? Un interrogativo, rispetto agli altri, guadagnò spazio nella mia mente. E se fossero state mandate dai miei familiari che, scoperto l’inganno ordito dalla mamma, avevano deciso di ricondurmi al villaggio?

Questa ipotesi mi sembrò la più plausibile e, un po’ rassegnata agli eventi, mi calmai. Purtroppo, mi sbagliavo. Fui condotta in un luogo sconosciuto e accompagnata in una struttura seminterrata. Le finestre a feritoia erano molto strette e collocate in alto, cosicché il monolocale giaceva nella semioscurità. Solo quando la porta fu chiusa e gli occhi si furono abituati alla penombra, notai alcune ragazze che se ne stavano rannicchiate e impaurite in un angolo della stanza. Erano in cinque. Non so se fu la disperazione o cos’altro, fatto sta che fui io a rompere l’angoscioso silenzio che regnava nella stanza. Seppi che anche loro erano state rapite più o meno con la mia stessa modalità.

Restammo prigioniere in quel locale per quattro lunghi giorni. Alle nostre ripetute grida di aiuto nessuno rispose. Patimmo la fame e molto di più la sete. La sera del quarto giorno vennero ad aprirci. Urlavano frasi poco educate contro ciascuna di noi e, spingendoci, fummo costrette a salire sul fuoristrada parcheggiato davanti alla casa. Alcune, con il residuo di forze rimaste, scalciavano e gridavano implorando d’essere lasciate libere. La risposta fu sempre la stessa: calci, schiaffi, sputi e parole indecenti!

Quando aguzzini e vittime fummo saliti sull’auto, questa partì col suo carico d’umanità disperata; per noi la destinazione era ignota. Cosa ci aspettava adesso? Cosa ci avrebbero fatto? L’unico nostro sostegno fu il pianto che si spense in momenti diversi l’una dall’altra per esaurimento delle forze. L’uomo, che era seduto vicino a me, mi porse una bottiglia d’acqua. Fu l’unico gesto di pietà che fecero. Ne sorseggiai un po’; poi, la passai alle compagne di sventura. Sorso dopo sorso, l’acqua finì in un baleno. Eravamo come terra deserta, arida, desiderosa d’acqua. Fu l’unica che ricevemmo per  il resto del viaggio.

Viaggiammo per alcune ore nel cuore della notte, direzione nord. Poi, l’auto si fermò a ridosso di alcune ombrellifere. Gli uomini scesero dall’auto e parlottarono con altri uomini usciti dalla cabina di guida di un camion parcheggiato non molto distante dalla strada. Non capimmo cosa si stessero dicendo, a noi sembrava una contrattazione. Ma di cosa? Terminata la conversazione, ci fecero scendere dall’auto, ci invitarono a fare la pipì sul bordo della strada e ci spinsero dentro quel camioncino coperto da un telo verde, spesso e scolorito.

Era cambiato il mezzo di trasporto ma questo secondo viaggio non fu meno faticoso e drammatico del primo anche se attenuato da un piatto di riso con i fagioli che ci porsero durante l’unica sosta effettuata prima di giungere a destinazione.

Spenta parzialmente la fame, cercai di riempire il vuoto umano e mentale che mi assillava tentando di carpire le parole dei nostri aguzzini. L’uomo che stava nel cassone con noi rimase in silenzio per tutto il tempo al contrario dei due, seduti nella cabina di guida, che scherzavano, ridevano e parlavano ad alta voce senza curarsi della nostra presenza. Il rumore del mezzo di trasporto ci impediva di sentire chiaramente tutte le parole; tuttavia, qualcosa ci giunse.

«È stato un affare…».

«Guadagneremo…».

«…mercato in espansione…».

«Merce ce n’è!».

«Prima era ogni mese, ora è ogni…».

«…merce che non scade!».

Parlavano di soldi, di quanto poco fossimo state pagate e dell’affare che avrebbero fatto nel rivenderci: la “merce”, oggetto di contrattazione con i nostri primi sequestratori, eravamo state noi! Non esseri umani, non ragazze che si affacciavano alla vita ma oggetti da compra-vendita, “merce”! Capite? Merce!

Il tunnel, che da quel momento mi trovai a percorrere, fu lungo. Fummo vendute come schiave del sesso nel nord del Sudan, tutte in posti diversi. Delle compagne di sventura non ebbi più notizie. Usarono e abusarono di me uomini d’ogni tipo. Rimpiansi molte volte il giorno in cui avevo deciso di lasciare il mio villaggio per evitare una pratica che ritenevo ingiusta. La situazione che mi trovavo a vivere era peggiore! Quella vita, non più degna d’essere definita tale, durò tre anni; tre lunghi anni di sofferenza. Riflettei molto sulla mia cattiva sorte, sulla fatalità del mio destino. Alla fine mi convinsi che forse era giusto così, che quella sorte me l’ero cercata; mi convinsi che tutto era stato preordinato dai miei antenati come ritorsione alla decisione che avevo preso di interrompere una tradizione che durava da chissà quanto tempo.

Un giorno, un cliente, uno dei tanti, terminato il tempo a sua disposizione, mi sorprese con la sua proposta.

«Io posso portarti via da qui». Lo disse quasi bisbigliando per timore d’essere sentito da altri.

«Ho aiutato molte persone a lasciare il Sudan, destinazione Europa».

Lo lasciai parlare credendo poco alle sue parole; lo avevano fatto altri clienti prima di lui per ottenere una prestazione in più ma, in seguito, nessuno si era fatto vivo. L’uomo che mi stava dinanzi, notando la mia diffidenza, mi fissò negli occhi, ripeté la proposta e, senza aspettare la mia risposta, continuò: «Devi convincere ogni cliente a darti qualcosa di più per servizi extra. Quei soldi nascondili e non li consegnare ai tuoi aguzzini. Ogni tanto io passerò da te, quando avrai accumulato un milione e quattrocento libbre sudanesi sarai pronta a partire».

«Sono tanti soldi, non ce l’ha farò mai!». Quella fiammella di speranza che si stava accendendo nella mia tormentata vita era già in via di spegnimento, i soldi da accumulare erano troppi!

«Puoi farcela, – riprese lui – non sei la prima e non sarai l’ultima. Ho aiutato altre donne e ragazze prima di te. Fidati!».

Mi spiegò che una parte dei soldi sarebbe servita per le spese di viaggio dal Sudan fino a Marsà Matrouh, in Egitto, e il resto per pagare il viaggio in nave dall’Egitto alla Sicilia. A scuola non avevo mai sentito nominare né la città egiziana né la Sicilia ma la possibilità di abbandonare il Sudan e la mia condizione di schiava non potevo lasciarmela scappare. Abbassai il viso e dal sì che pronunciai quel giorno ne passarono molti altri detti a uomini avidi di sesso. Alla fine racimolai più di quanto mi era stato chiesto.

Saif, questo il nome di colui che avevo ritenuto essere il mio salvatore, quando fu il momento di partire, pretese da me più di quanto avesse chiesto all’inizio. Disse che i costi del viaggio erano cresciuti. Scoprii dopo che il viaggio non lo avrei fatto con i mezzi pubblici, come io avevo immaginato, ma chiusa in un camion, ammassata ad altre persone, una trentina in tutto. Furono giorni di grande fatica, un viaggio interminabile che registrò la morte di tre persone.

«Marsà Matrouh», disse l’autista una volta giunti a destinazione.

L’euforia di tutti fu grande, ce l’avevamo fatta! Poi, ci condussero nello scantinato di un’abitazione non molto distante da un villaggio turistico. Ci dissero che dovevamo stare in silenzio per non essere scoperti finché non fossimo stati provvisti di documenti. Passarono due giorni aspettando l’arrivo della nave che non venne mai, così come i documenti che ci avevano promesso e per i quali avevamo pagato in anticipo.

Alle tre di notte del terzo giorno, uno dei due uomini, che chiamavano Hakim e che aveva provveduto a sfamarci, entrò nello scantinato.

«Sveglia, sveglia! Si parte! Non fate rumore!», disse a voce bassa.

L’altro, fermo sull’uscio del locale, ci invitò a consegnare i soldi per le spese del viaggio in mare; anche questa volta ci fu chiesto fu più del pattuito. A me non rimase nulla di quel tesoretto che con tante umiliazioni ero riuscita ad accumulare. Poi ci invitarono a raggiungere la riva. Il mare era agitato. Io non l’avevo mai visto il mare. Ebbi paura della sua immensità e delle sue onde.

Sulla spiaggia erano arrivate altre persone condotte lì per salpare con noi, una ventina in tutto.

«Quando ci consegnate i documenti per l’espatrio?», accennò timidamente una ragazza.

«Dopo!», le risposero seccamente.

«Dov’è la nave?», chiese un altro.

«Non c’è nessuna nave», rispose secco Hakim.

A dargli man forte c’erano altre otto o nove persone, alcune delle quali armate. Io ebbi più paura. Pochi minuti dopo il nostro arrivo, giunse un gommone che si fermò appena dentro l’acqua. Cominciarono a spingerci dentro quel natante sballottato dalle onde.

«Io non salgo», gridò un uomo.

«Ridatemi i soldi, questo gommone non è sicuro», riprese un altro.

«Con il mare così agitato rischiamo di morire annegati», aggiunse un altro.

«Noi siamo in tanti, troppi per un gommone così piccolo!», esclamò una donna che teneva stretto al petto un bambino.

«Siamo persone, esseri umani e non bestie!».

Il ragazzo che pronunciò quest’ultima frase fu spinto a terra e preso a calci. Anche gli altri furono messi a tacere con violenza inaudita e costretti a salire sul gommone. Io salii sull’imbarcazione in silenzio pervasa dalla paura. Il natante si riempì fino all’inverosimile tant’è che a causa dell’eccessivo peso le due punte dello scafo si alzarono lasciando la parte centrale più in profondità. Gli scafisti tentarono di distribuire il peso del carico umano uniformemente e, quando il gommone ottenne una linea di galleggiamento alquanto omogenea, partimmo. Io tremavo per la paura e per il freddo. L’umidità marina penetrava facilmente la leggerezza dei miei abiti causando scossoni di brividi al mio giovane corpo.

In poco tempo fummo in alto mare. Un uomo protestò per gli spruzzi d’acqua che le onde introducevano nel natante; allora, uno scafista lo spinse in mare. Il poveretto fu lasciato annaspare nel moto ondoso senza alcuna pietà. Le sue grida d’aiuto ci giunsero sempre più fioche, poi fu silenzio. Dopo questo fatto, nessuno ebbe il coraggio di protestare men che meno io. Ero terrorizzata dalla precarietà del viaggio, sola, senza soldi, senza una meta precisa da raggiungere e sempre indotta nella convinzione che tutto ciò che mi stava accadendo me lo meritavo.

«Acqua! Entra acqua!», gridò uno, spezzando il gelido silenzio della notte.

«C’è un buco nel gommone!», aggiunse un altro allarmato.

A causa del buio della notte, appena attenuato dallo spicchio di luna calante, non riuscii a distinguere coloro che avevano gridato.

Uno degli scafisti si fece largo tra i passeggeri, raggiunse il punto in cui entrava l’acqua, estrasse qualcosa da un sacchetto e tamponò la falla. La mia preoccupazione, anzi, il mio terrore si amplificò. Non sapevo nuotare e avevo paura di finire i miei giorni in modo così brutto; inoltre, speravo che dopo la traversata, una volta raggiunta l’Europa, avrei potuto assaporare le dolcezze della vita.

Tamponata la falla, viaggiammo ancora per altre tre o quattro ore durante le quali vidi morire un paio di persone stremate nelle forze e assiderate dal freddo. Una delle due sedeva vicino a me. Allorché si accasciò morta sulle mie gambe, io rimasi immobile, pietrificata dall’indegnità di quella morte. Lasciai riposare quel corpo sul mio grembo fino a quando la vostra nave militare incrociò il gommone salvandoci.

I militari ci aiutarono a salire sulla nave coprendoci con un telo argentato. Una volta a bordo guardai in basso verso il gommone sbattuto dalle onde contro la nave. Fu allora che vidi recuperare altri corpi di persone che non avevo visto morire. Non saprei dire esattamente quanti corpi fossero; giacevano semi immersi nell’acqua entrata nel gommone a causa della falla.  

Un soldato mi porse un bicchiere di tè caldo e mi accompagnò in coperta. Il resto della storia lo conoscete.

 

La ragazza fece un profondo respiro; poi, riprese: «Finalmente sono salva e nel vostro Paese potrò iniziare una nuova vita».

Tradussi anche quest’ultima frase ai funzionari e alla giovane tradussi le loro affermazioni.

«Può richiedere asilo o protezione colui che nel paese di provenienza è perseguitato per motivi di opinione politica, di razza o di religione», affermò il primo.

«Possono essere accolti quelli che sono già in possesso di un contratto di lavoro; questo requisito è importante poiché consente il mantenimento economico del richiedente», aggiunse un altro.

«Ovviamente, si può essere ospitati se si proviene da un paese che è in stato di conflitto», concluse il terzo.

Man mano che procedevo nella traduzione delle frasi sciorinate dai funzionari, sul volto della giovane si materializzavano espressioni di sconforto; intuiva che poteva essere rimpatriata poiché il suo caso non era contemplato dalla nostra legge! La vidi disorientata davanti a parole che le risultarono poco comprensibili, come “riconoscimento della protezione sussidiaria”, “azioni giudiziarie o sanzioni sproporzionate o discriminatorie”, “atti specifici diretti contro un genere sessuale”, “provvedimenti giudiziari, o di polizia, o provvedimenti legislativi, amministrativi attuati in modo discriminatorio”.

Capì poco o nulla delle ultime frasi che le tradussi ma il viso le si illuminò quando sentì le parole “atti compiuti contro l’infanzia” e “violenza sessuale”. Lei aveva vissuto quelle esperienze; dunque, poteva rimanere in Italia! La luce che le apparve sul viso cozzò contro l’ombra che si delineò sui volti dei funzionari.

La giovane mi guardò implorante. Cosa potevo fare io? La legge è legge! Rimasi imbarazzato e nervosamente zitto. Lei si sciolse in pianto. Nessuno osò parlare. Dopo aver asciugato le lacrime, fu lei a farlo rivolgendosi al funzionario più autorevole.

«Da bambina sognavo una vita felice, povera ma felice. Ho lottato per la difesa del mio corpo lasciando il villaggio, le amiche e i miei affetti familiari. A Dar Es Salaam mi ero iscritta a scuola e mi stavo impegnando nello studio per avere un futuro migliore, speravo di frequentare la scuola superiore. Quando fui rapita, ho resistito a uomini senza scrupolo che hanno umiliato la mia giovinezza profanando ogni parte del mio corpo. Sono stata venduta come “merce” e costretta a imbarcarmi su un gommone fatiscente rischiando la vita. Ora, che ho riassaporato la bellezza della libertà, la possibilità di una vita degna d’essere vissuta, ditemi che non mi rimanderete in patria! Ditemi che, dopo tanta sofferenza, la vostra terra è aperta all’accoglienza, che tra la vostra gente c’è qualcuno sensibile ai bisogni di chi nella vita è stato meno fortunato di voi! Ditemelo!».

La ragazza fece una breve pausa, si morse le labbra, forse pentita dalla crescente irruenza del suo intervento; poi, si asciugò ancora le lacrime e il naso che gocciolava copiosamente. Quando alzò lo sguardo verso di noi, il nostro si abbassò. Lei si ricompose nella sua dignità di giovane donna e concluse: «Non dovete pensare a ciò che il vostro Paese può fare per me, dovete pensare a ciò che voi potete fare per me».

Nel silenzio che seguì, sentii il peso dei suoi occhi gravare su di me. Poi disse: “Asante”, grazie. Quest’ultima parola non la tradussi per i presenti ma la tenni egoisticamente solo per me.