Paolo Signorini - Poesie

Una vita al galoppo.

 

M’illumino d’immenso. facile per lui, di certo non aveva i miei problemi. Io, è già tanto se mi illumino con

i raggi di una candela.

Miriam ripose la vecchia raccolta di poesie, mentre nelle mente passavano le immagini del felice periodo scolastico, ormai passato da più di venti anni. Una vita iniziata tra molte aspettative familiari e finita in una vecchia stamberga di periferia, vicino ad un deposito di treni. I fischi all’arrivo ed alla partenza, dei convogli merci, diretti in altre città, erano l’unico segno di movimento ancora vivo nella sua mente. Desiderava con tutta se stessa di potersi spostare da quel luogo che la attanagliava, senza speranza. Partire verso nuovi lidi ariosi, illuminati, rigogliosi di natura e pieni di bella gente. Partire per non tornare più, anche a piedi, con le sue poche cose, partire per sempre.

Già ma con quali piedi?

Pensava Miriam, l’unico problema era la sua condizione fisica. Ridotta su di una carrozzina con le gambe amputate. Ricordava ancora ogni momento dell’incidente durante la corsa a cavallo, il suo corpo sbalzato di sella dal giovane purosangue Metello, il piede bloccato dalla staffa, le sue mani protese ad afferrare il niente ed il cavallo che come una furia, nella sua inarrestabile corsa, continuava a calpestargli la gamba libera, mentre l’altra si contorceva avvinghiata dalle cinghie.

Un raggio di sole, disperso tra i rottami, rifrangeva la’, su di uno specchio rotto, e quasi per magia si posava sulla guancia di Miriam. Un omaggio della natura, un fievole bacio a consolare l’insensato destino di un’anima al vento.

Triplo suono – Cambio macchinista vettura 1145. Doppia sirena – Mensa aperta.

Il vento soffiava forte sui vetri. Ancora ricordi a fargli compagnia. Le scogliere, a Castel Sonnino, la

mamma con la ghiacciaia piena di cose buone, il papà con la maschera e le pinne, che fa finta di guardare il fondale ma invece guarda le donne. Lei ancora piccola, che gioca con la navetta spaziale attaccata al paracadute ed ai suoi sogni di viaggi planetari. L’elastico lancia in aria la navetta che sale e sale, poi si ferma un attimo prima di ridiscendere, il paracadute non si apre e la navetta cade in acqua e scompare, come la barca dei suoi genitori, scomparsa nella tempesta quando lei era diventata finalmente maggiorenne, si era diplomata e riusciva a conviver alla meno peggio con il suo handicap sulla carrozzina ultra lusso che suoi padre le aveva comprato. Fosse morta anche lei, fosse esplosa in mille luci disperse nell’universo.

Un suono lungo - Sgombrare il binario tre, treno in entrata per sosta lunga.

Il raggio di sole si era spostato su un angolo morto della cucina, il desiderio di raggiungere quell’angolo morto si faceva sempre più grande.

Sirena delle cinque – Cambio turno reparto montatori.

Gli operai che smontavano dal turno di lavoro si dirigevano, in file disordinate, verso casa. Miriam c’era già da tempo.

Era ora di uscire. Con la sua carrozzina, percorreva i marciapiedi del deposito fino alla serie dei respingenti, dove i vagoni sembravano una fila di cavalli alla pastoia che attendono la porzione di fieno giornaliero. Gli addetti sul percorso la salutavano e mentalmente calcolavano il tempo mancante al loro intervallo, tanto era abitudinaria e precisa Miriam, nelle sue comparse. Il suo giro

 

in carrozza a rotelle terminava, come tutte le sera, alla pensilina dodici, dov’era appostato il vecchio amico Tebaldo, controllore alle manovre dei vari convogli.

  • Miriam, stasera hai un’aria più triste del solito, che ti succede?
  • Sai che c’è? Sogno ad occhi aperti di andar via da qui, ma tutto il mio possibile viaggio è fare questo breve tragitto per salutare
  • Ma dai, non ti disperare così, vedrai che una soluzione la troviamo per farti sorridere. Fai così, vieni alla corsia otto domani alle undici, ci saremo io e Valerio, dobbiamo consegnare un locomotore nuovo alla stazione di Grosseto e ritirarne un altro da revisionare, se ti va ti portiamo con
  • Certo che mi va, ma come fai a giustificare la mia presenza?
  • Non ti preoccupare, ti scendiamo al passaggio a livello prima della stazione di Grosseto. Ci aspetti la per poco tempo e ti facciamo salire al ritorno sull’altro locomotore. Se per te va bene chiedo l’autorizzazione alle due soste, per motivi
  • Per me sarebbe fantastico, ma sicuro che non creo problemi a voi con la direzione?
  • Nessun problema, stai tranquilla Miriam, ricorda domani alle 11,
  • Ciao,

Finalmente una notte dove i sogni erano preda delle speranze e delle aspettative, finalmente gli incubi chiusi fuori dalla porta non riuscirono ad entrare, finalmente le labbra dischiuse a mostrare un lieve sorriso.

Tre fischi lunghi, uno corto tre lunghi. – Inizio turno ore nove.

Miriam stava preparando la colazione con un impegno che non ricordava da tempo e mentalmente faceva l’inventario di ciò che doveva portare con se per il lungo viaggio che l’aspettava.

Percorse i soliti marciapiedi spingendo la carrozzina con nuova foga nel corpo e una voglia insaziabile di immagini sconosciute, nella mente. Molti operai che incontrava si affrettavano a guardare l’orologio. Il locomotore fischiò tre volte per annunciare la partenza  verso Grosseto, con il suo carico di Miriam e di felicità. Il film della vita iniziò a scorrere davanti agli occhi della donna, ogni particolare, insignificante per gli altri, rappresentava per lei un gradino scalato verso la realizzazione del suo sogno di conoscenza. I campi lavorati per la semina, le distese di olivi in fila, che sembravano un esercito di soldati.

  • Ehi Miriam, sei senza parole oggi?
  • Non ho tempo per parlare e vedere il paesaggio. Devo fermare le immagini nella memoria, per poter ricordare bene ciò che
  • Bene allora guarda sulla destra e vedrai dei grandi allevamenti di

Miriam si voltò d’istinto e quando vide le sagome dei cavalli che le correvano a poca distanza, si perse, nelle evoluzioni dei crini al vento. Un momento d’amore mai assopito si risvegliò, un attimo di piacere corse nelle vene, una sensazione fisica di unione e complementarietà con il cavallo, la dimenticata percezione di integralità corporale.

Non era più Miriam, l’invalida, era la giovane amazzone pronta a salire in groppa al suo purosangue Metello.

Strinse forte i braccioli della carrozzina e provo’ a sollevarsi sulle fantomatiche gambe.

La sua mente aveva cancellato ogni ricordo degli ultimi dieci anni, era di nuovo pronta ad allenarsi per una nuova corsa equestre.

Sentiva il frustino allacciato al polso mentre stringeva tra le dita le briglie, il lacciolo del copricapo lo percepiva ben stretto e le gambe erano salde ai fianchi dell’animale. Era pronta, al cancellato di partenza, agli ordini dello starter.

Ma la realtà non si cancella. Cadde rovinosamente tra leve e comandi della motrice in corsa, sbattendo violentemente la testa. Tebaldo capì immediatamente la gravità della situazione, fece fermare il locomotore su di un binario morto alla prima stazione merci e cercò nel frattempo di prestare i primi soccorsi a Miriam.

Il volto di lei, nonostante tutto, continuava a sorridere e la sua mente approfittava degli ultimi attimi di vita per rendere reale la sensazione e l’emozione di un ultima inebriante galoppata su di un cavallo di ferro.

 


 

 Bruciare dentro

 

Era un ‘interpretazione della vita alquanto complessa, nella sua semplicità.

Forse la gioventù era pura polvere da sparo per incendiare idee che si tramutavano in modi di vivere, ma l’intelligenza, quella era il cannone, pronto a contenere ed indirizzare il fuoco verso scelte esistenziali dosate e rispettose del genere umano.

Tebaldo lasciò cadere la penna sul tavolaccio di legno corrotto dalle rughe del tempo, alzò le braccia sulle spalle stirandosi le nodosità dei bracci e le giunture, in attesa di qualche cigolio,  quasi aprisse una vecchia porta. Lo sguardo velato traversò i vetri della finestra adagiandosi sui campi arati di fresco. Cercò di assaporarne l’odore, aprì le finestre nonostante la pioggia che imperversava, seguì il ticchettio delle gocce sulle lamiere come fosse un armonia, ma la mente continuava a mostrare immagini andate dell’amico scomparso, la mano anelava scriverne ancora, per svelare di lui ciò che molti non sapevano.

Cosa poteva raccontare di Claudio e della sua breve vita in modo tale che il ricordo venisse impresso nella mente dei pochi conoscenti in maniera indelebile.

Iniziò ad elencare le sue azioni altruiste che fin da piccolo lo avevano messo in evidenza, lo descrisse negli anni 70 con i capelli lunghi e le passioni beat lo analizzo ormai adulto, lavoratore ed ancora studioso e ricercatore, ma non riusciva a descriverlo appagato in nessun periodo della sua vita.

Una immagine continuava a irrompergli nella mente, Claudio e la compagna che sorridevano a crepapelle sdraiati sulle balle di fieno, vicino alla piccola abitazione comprata nelle campagne di Cecina. Si quello fu un periodo che fece fiorire l’anima dell’amico fino a far emergere dalla crosta della carne umana lo spirito e l’essenza vera che lo caratterizzavano.

La penna ora correva.

“ Non era specializzato in una cosa, era l’amante del tutto, matematica, fisica, elettronica, letteratura…. ed altro ancora, ma in quel periodo solo una aveva preso possesso della sua mente. La ricerca sfrenata del se stesso, dell’essere superiore dentro ognuno di noi, attraverso la meditazione, la vita naturale, il disimpegno dagli obblighi sociali, il distacco dalle questioni morali   e materiali, il ritorno alla visione esistenziale delle cose.

Questo suo modo di vivere risulta difficile da spiegare e da comprendere allo stesso tempo, ma condividere con lui la sua apertura mentale, in quel periodo, ha dato anche a me la forza inaspettata di cercare nelle crepe lo spunto per lottare e vivere alla ricerca di un mondo spirituale più consono alle mie aspettative.”

Tebaldo si alzò dalla sedia traballante, con il palmo della mano carezzo le rughe antiche del tavolo di rovere, si avvicinò al camino scosse le ceneri con l’attizzatoio e mise un altro ciocco sul fuoco. Per rinascere si deve bruciare.

 


 

 Dentro ai sogni

 

La pioggia irrefrenabile, colpisce l’ombrello verde, gigantesco, che ripara il vecchio Martino, raggomitolato nel suo cappotto logorato dal tempo, cinto da una sciarpa di  uno  sbiadito  amaranto, con i piedi fasciati da vecchi consunti stivali e le mani protette in guanti strappati.

Fermo dinanzi alle sbarre di ferro che proteggono dal passaggio del treno.  Saldo dinanzi al movimento degli sterpi che si allungano sui margini della strada.

Immobile a guardare i vortici di vento, che creano coni di pioggia e scrosci intermittenti.

Solo con i suoi ricordi che succedono veloci nella mente, come il freccia rossa, senza più saluti dai finestrini ne visi pieni di gioia, senza umanità in viaggio.

Finalmente si aprono le sbarre, i piedi iniziano il ciak ciak dei passi nelle pozzanghere, protetti dagli stivali, che un tempo lontano respingevano l’acqua.

Finalmente gli sterpi placano i suoi volteggi, saziati dal vento ormai andato. Ora il cielo non si  agita più in toni grigi e neri, ma mostra un triste rossore che saluta la sera ormai prossima.

Solo, col sapore   degli ultimi ricordi trascorsi, appesi alla carrozza in coda di un treno che va e  non torna. Martino ode ormai in lontananza il fischio di un altro treno che passa e sfreccia via, portando con se i ricordi di un’altro. La tristezza del cielo si attenua, le luci nelle finestre si accendono, i sapori del cibo profumano la via, c’e’ ancora tempo per continuare la melodia di ciak ciak tra sterpi grigi, compagni fedeli di Martino e del suo io.

La sera si spande, le ombre si fanno spazio tra oggetti del benessere, rifiuti, strade affollate e viuzze, senza distinzione, copre tutto nel suo abbraccio.

 

Martino ha raggiunto la sua destinazione giornaliera, immancabile al suo appuntamento, afferra le sbarre del cancello del cimitero che protegge le anime dei morti dai male intenzionati, o forse serve solo ad evitare che la notte vaghino nel mondo dei vivi, ed entra.

Al terzo viale si incammina sulla ghiaia bagnata, bacia l’immagine su di una lapide, si siede ai  piedi di una tomba e carezzando il freddo granito parla con le spoglie della moglie in essa racchiuse:

 

“ Ciao Ginetta! Sono qui, vicino a te anche stasera. Ti sarai annoiata, tutto il giorno da sola. Mi dispiace, sono stato in giro per cercarti un regalo. Oggi é l’anniversario del nostro matrimonio. Poi finalmente ho capito che il regalo più grande  è dentro il mio cuore e così ti ho scritto un pensiero  e adesso te lo leggo, ma non piangere, sii felice:

 

Tanti auguri, amore, immersa nei raggi di luce, riflessi in piane e limpide acque.

Scintille di albe accecanti di giallo limone.

Tanti auguri, amore che sciami di fluida armonia,

come ghirlande di stelle a cornice di una plumbea luna. Granello riflesso dell’immenso calore.

 

Tanti auguri, amore che di rabbia sei preda, come lampi e tuoni,

pieghe di un manto di nubi e minacce astrali.

 

Tanti auguri, amore che dolce respiri e canti, come cime al vento, riflesse sul lago,

che cullano di mesti suoni le creste fluenti di schiuma.

 

Tanti auguri, amore che intiepidisci la mia anima, di suoni della sera,

di dolci bivacchi e fuochi scoppiettanti.

 

Tanti auguri, amore per tutti i giorni che la vita mi donerà, colmi della tua compagnia.

Tanti auguri, amore che non voli via, la notte.

Adesso dormiamo e cerchiamoci nei sogni fino ad incontrarci.

 

Martino chiude gli occhi, avvolto in una logora coperta, raggomitolato in un angolo riparato di una nicchia volitiva, dell’inagibile chiesetta in fondo al cimitero. Dopo poche ore il cielo esplode di fulmini e lampi, rovesciando al suolo la sua rabbia sotto forma di pioggia.

Un rigagnolo d’acqua raggiunge i piedi di Martino, inzuppandoli.

Il freddo, che l’uomo prova nel dormiveglia, gli fa ricordare quando sulla vetta di un monte, nudo, scalzo, con un fucile puntato alla nuca, i Tedeschi lo minacciavano di morte se non rivelava la posizione della truppa. Anche allora resistette, cancellando ogni sensazione e concentrando la mente sulla sola immagine di Ginetta, la ragazza che amava e che aspettava il suo ritorno.

Il rumore di un forte, ripetuto, tuono lo sveglia del tutto, apre gli occhi e tra le pieghe del bavero  del cappotto intravede una figura evanescente, ai margini di un vortice viola che gli fa cenno di avvicinarsi.

Mette a fuoco l’immagine con notevole sforzo e riconosce Ginetta. Percepisce il suo essere che emana estasi e calore.

Gli dà la mano e con lei si immerge nel vortice viola, dove l’anima è solo amore.

Il guardiano, la mattina, apre il cancello, che dopo la pioggia notturna sembra aver smesso di cigolare.

Nell’angolo della nicchia volitiva alcuni abiti ammassati, un paio di vecchi stivali, un cappotto ed una logora sciarpa amaranto, testimoniano che  qualcuno ha dormito nell’anfratto, abbandonando il suo involucro, come le cicale d’agosto.

Indossa i guanti da lavoro, raccoglie con attenzione gli oggetti e apre la pattumiera per gettarli. D’un tratto il suo sguardo viene colpito da un immagine inaspettate, a pochi metri scorge il corpo nudo di un uomo, sdraiato supino sul marmo di una tomba. Si avvicina circospetto, gli guarda il viso che gli appare sorridente e colmo di una pace indescrivibile. Gli tasta il polso ormai freddo e privo di segni di vita.

L’istinto gli suggerisce di fare una telefonata ai carabinieri, ma la mente lo obbliga a guardare il sole e poi l’orologio.

 

Distoglie lo sguardo con fatica e si dirige sulla panchina sotto gli alberi. Si siede e dalla tasca estrae un involto di carta gialla ed una fiaschetta.

E’ ora di colazione, per il resto c’è tempo.

 


 

Anime di ferro

 

Sono ormai giorni, ho perso il conto, che navighiamo come sardine in questo container. Ci hanno stivato in alto tra altre latte di ferro, non come dolcetti o biscotti, ma come merce avariata, al freddo e alla mercé del mare in tempesta.

Ma ciò che accade all’esterno é solo udibile per fortuna, ciò che invece accade dentro questa puzzolente scatola di lamiera é sulla mia pelle oltre che nei miei occhi raggrinziti.

Tutti  hanno sonno, vuoi per il dondolio vuoi per la fame che assorbe le ultime energie. Tutti si fanno i bisogni addosso, con vergogna i primi, con disperazione, i secondi, con indifferenza gli altri.

Tutti cercano di accaparrarsi un posto comodo tra la ressa, ma inutilmente, siamo accatastati. Gli stivatori hanno ben pensato di caricare il numero maggiore di merce possibile per risparmiare sui costi. Già i costi della merce, persone che valgono quanto un vecchio mobile.. La mia famiglia ha venduto quel poco che aveva per pagarmi questo viaggio, per vedere appagate le preghiere, per darmi la possibiltà di una vita migliore, speriamo. La mia famiglia ha donato il suo futuro al mio ed io avrò sempre su di me il  peso di questa scelta.

Alcuni bambini urlano alla mia destra, pressati dagli adulti intenti a rubare un briciolo di sopravvivenza. Estraggo dalla borsa di cuoio, che mi donò il mio maestro Isaret prima di spingermi fuori dalla scuola bombardata, il suo quaderno delle poesie. Ricordo ancora quel giorno di 20 anni fa, le bombe il maestro che mi spinge fuori dalla finestra ed il suo ultimo respiro “ fuggi:: Isaret,(Marco) salvati:::”

Scriveva belle poesie con una calligrafia impeccabile, ancora oggi riesco a sognare quei luoghi che descriveva e quei sogni mi fanno viaggiare sopra l’immondizia in cui disperdo  la mia esistenza.

Che Allah perdoni i miei pensieri e mi guidi verso la resurrezione.

Mi inchino alla sua grandezza come il maestro si inchinava alle foglie. Non abbiamo abbastanza ossigeno qua dentro e la puzza è insopportabile, spalanco la bocca inutilmente, aspetto un vento lontano, aspetto un respiro che non viene anche se prego e ringrazio Allah.

Anche da quassù sento le onde che sentivi tu, maestro, non sono delicate, schiaffeggiano  i nostri corpi malconci anziché le fronde degli alberi. Tutti pregano e bisbigliano qua dentro, ma solo i container, ci ascoltano. Nessuna risposta giunge a noi, solo il cigolio delle lamiere ed il fischio del vento ci fa compagnia.

 


 

Scatto mortale

 

Nessuno

 

pensa mai che potrebbe ritrovarsi con una morta tra le braccia e non rivedere mai più il viso di cui ricorda il nome. Nessuno pensa mai che qualcuno possa morire nel momento più inopportuno anche se questo capita di continuo, e crediamo che nessuno se non chi sia previsto dovrà morire accanto a noi.

Invece è proprio ciò che mi stava accadendo in quel posto sperduto dalla civiltà, in mezzo ai silenzi del buio, tra i latrati di animali notturni a caccia di una debole preda da assalire.

Jane, la mia bionda e bellissima compagna, era distesa lì, tra le mie braccia, il suo Lodge distava poche decine di metri dal mio, dove tenevo la borsa con l’occorrente per il pronto soccorso.

Ma mi accorsi subito dell’inutilità di tale illuminazione, il battito non c’era ormai più da molto tempo ed i suoi occhi mi guardavano velati, quasi a scusarsi del triste epilogo di una giornata stupenda.

Solo raccontare il nostro incontro ha talmente dell’incredibile che la mia mente lo metabolizza con fatica, comunque trovare una fotografa naturalista in un Lodge a te vicino, nella riserva Masai Mara, in Kenya, in compagnia della sola Jeep e di tanta voglia d’avventura mi è apparso il coronamento dei miei più reconditi sogni, fino alla sera.

C’è un grado di irrealtà in quello che è capitato a me e forse adesso, a raccontarlo, potrebbe farmi ridere. Ma non credo, perché ancora non è lontano. Già il primo incontro ci ha accomunati, entrambi Italiani ed entrambi impegnati con la fauna selvaggia, lei cacciatrice di scatti impareggiabili per le riviste, ed io, predatore di idee per dipingere scene arcaiche.

Abbiamo subito deciso di unirci ed allo scopo ci siamo diretti alle cascate Thompson, con la sua Jeep ed i nostri inseparabili attrezzi del mestiere.

Ci siamo appostati su di una sporgenza, all’ombra di un sicomoro, in compagnia dello squittire delle scimmie, che dai rami assistevano alle nostre imprese.

Il primo colpo di pennello ed il primo scatto fotografico si sono scontrati di colpo, come i nostri sguardi ed i nostri corpi.

Abbiamo dedicato molto tempo a imitare gli accoppiamenti degli animali intorno a noi, Jane imitava anche i versi delle scimmie, quando era nel momento di massimo godimento.

L’ambiente selvaggio ha giocato un ruolo fondamentale, ci ha restituito lo spirito primordiale, ci ha resi per un giorno Tarzan e Jane.

Anche gli ippopotami, facevano spazio al nostro incedere, verso la pozza d’acqua, ai piedi della cascata dove eravamo diretti per rinfrescarci.

Ma una volta nell’acqua, sotto le cascate, l’ambiente dintorno a noi, ha rivelato la sua importanza e con essa ci ha ricordato il perché eravamo lì.

Lei scomparve con in braccio cavalletti, obbiettivi e quant’altro. La tela di fronte a me lasciò ben presto il bianco per inondarsi di colori che rifrangevano tra loro come le acque della cascata nel suo incedere.

Il meriggio tingeva il paesaggio, di rosso cadmio e giallo indiano ed i ruggiti lontani dei leoni, in amore, facevano assaporare alla mia mente i momenti trascorsi con Jane.

Fu tra il vagare, senza meta, di questi pensieri che il mio sguardo la vide tornare, ma anziché carica di attrezzi, come era partita, adesso, aveva al suo seguito una schiera di portatori, armati di lance, vestiti di un perizoma.

Mosse le braccia a mo’ di saluto e tutti i suoi soldati, che si sarebbero rivelati componenti di una tribù Masai, intonarono un canto.

Fui letteralmente prelevato dalla mia postazione e scortato lungo un sentiero che conduceva ad una landa, dove era stato eretto un assembramento di capanne.

Vi era un senso euforico nell’aria, che coinvolgeva gli abitanti del villaggio, i quali vennero a chinarsi più volte davanti a noi, che nel frattempo avevamo preso posto al centro di una tettoia.

 

Jane parlava con uno di loro, che a sua volta traduceva al capo tribù, riconoscibile dal crine coperto da una pelle di leone, che scendeva sulle spalle.

Poi mi spiegò: “ Sanno che siamo due stranieri e la nostra presenza per loro è normale, visto che spesso arrivano comitive di vacanzieri a visitare i luoghi intorno.

Quello che li attrae in modo particolare è la tua pittura.

Forse sei il primo visitatore che vedono dipingere. Quindi ti sei conquistato il diritto, dovere, di fare il ritratto al capo tribù.”

Mi guardai intorno e mi accorsi che tutti mi stavano osservando come un branco di Leoni osserva uno Gnù, ma la voce di Jane mi scosse, riportandomi alla realtà.

“ Domani verremo a questo accampamento ed il capo tribù sarà pronto per farti da modello. Che ne pensi?”

“ L’idea non mi dispiace, penso di fargli un ritratto in due giorni. Digli pure che va bene.” Iniziò, così, la festa con canti e balli tribali.

Ci venne offerto cibo e bevande, ma a differenza della mia compagna non toccai niente, adducendo come scusa una lieve indisposizione.

Finalmente dopo aver salutato, in modo caloroso, la tribù riuscimmo a dirigerci nuovamente alle cascate, dove ci attendeva un bagno rinfrescante e per niente intimoriti dal branco di elefanti che si avvicinava, le nostre anime, le nostre menti, ma soprattutto i nostri corpi, si unirono per dar vita al momento più riuscito della creazione.

Le ultime luci del giorno stavano abbandonando la selva, come gli animali che si incamminavano  ai rifugi notturni, anche noi ci preparammo a tornare al Lodge per la notte.

Jane continuava a scattare foto dalla Jeep, a volte mi chiedeva di fermarmi per immortalare le ultime scene che la luce permetteva. Raggiungemmo il residence a tarda sera e dopo aver riposto la nostra attrezzatura, il personale, nonostante l’ora tarda, ci fece gustare una cena con i fiocchi, a base di caccia e questa volta non mi sognai di rifiutare. Il terrazzamento davanti al ristorante ci ospito’ su due comode poltrone, per riordinare le idee e fare programmi per il giorno seguente, cosa non  facile, in un ambiente dove l’istinto ti richiede di tendere l’orecchio, per carpire il verso di qualche animale. Noi ci scambiavamo molti sguardi e sorridevamo, sazi delle emozioni trascorse. Jane continuava a cospargersi sulla pelle un unguento alle erbe, che a suo dire, era un repellente per le zanzare, ma il pomeriggio dopo, averlo provato, ero stato punto e così’ ero tornato all’uso del mio vecchio Autan, non senza provocare innumerevoli rimproveri da parte della naturalista, che mi accompagnava. ” Vuoi un sambusi?Dai che sono buoni, sono i biscotti Keniani” Mi chiese. “Si prima che tu li finisca gradirei assaggiarli” dissi e mentre mi porgeva il dolce si piegò su se stessa abbracciandosi la pancia e lamentandosi per i forti dolori.

Dal ristoro accorsero per aiutarmi a spostarla nel suo Lodge, la distesi sul letto e inizia a cullarla, come un neonato.

Non ricordo più per quanto tempo restai in questa posizione,poi d’un tratto, vidi camminare sulla sua spalla un ragno.

Era un piccolo aracnide che non incuteva paura in un ambiente selvaggio come quello in cui ci trovavamo.

Il suo colore, grigiastro, bloccò il mio istinto di scacciarlo, fu a quel punto che riconobbi la specie, un ragno della sabbia, tra i più velenosi sulla terra, nessun antidoto, alto grado di mortalità tra le sue vittime.

Tutte le nozioni apprese dai libri, mi risuonarono nella mente, come se stessi assistendo ad una lezione.

Compresi la gravità della situazione, schiacciai il ragno con uno stivale, dopo averlo spinto via dal braccio di Jane e cercai il morso sul corpo, anche se sapevo che era quasi impossibile trovarlo.

Poi mi arresi al fato, il suo corpo non dava, ormai, segni di vita.

 

Tutto è successo molto in fretta e non c’è stato modo di fare niente. Mi ripetevo nella mente.

Ma non riuscivo a dar pace alla mia anima, la distesi nel letto, riassestai la stanza e nel prendere la sua macchina fotografica feci scorrere le immagini da lei scattate, finché mi apparve quella del ragno, carpita nel mio Lodge, mentre ero intento a disfare le  borse degli attrezzi per dipingere.  Jane lo aveva immortalato, sulla mia giacca.

Raccolsi in fretta i pochi miei bagagli, con circospezione, tralasciando gran parte dell’attrezzatura. Caricai tutto nella mia Jeep, pagai il conto, informai gli addetti che la signora stava male, ma si era assopita, fuggii, tra i pericoli notturni della savana africana: tigri, pantere, leoni, coccodrilli, ippopotami, rinoceronti, serpenti, e quant’altro di feroce ed immaginabile può venire in mente.

Fuggii, forse anche adesso lo rifarei, da quel pericolo talmente fuori luogo, talmente inaspettato, come il mal d’aria per un pilota di caccia.

 


 

 Fai pure la tua strada

 

Fai pure la tua strada, disperso, tra luoghi nuovi, cerchi la fiamma del tuo tempo.

Il sole, al tramonto, bacia le tue scarpe,

vecchie di esperienze.

 

Fai pure la tua strada,

i suoni dei tuoi passi sono onde, il loro mare si deterge, ora,

nel vento.

La Luna ti carezza i capelli, lunghi di saggezza.

Le stelle illuminano il tuo destino.

 

Fai pure la tua strada, viaggi su strade già lande.

Il buio amico, eleva i tuoi pensieri. Cammini senza meta, batti i denti. Le persone che incontri sono altri.

 

Fai pure la tua strada,

via con il freddo vai, come i serpenti. Fai pure la tua strada,

seguila fino in fondo, se avrà fine.

 


 

Metronauti

 

Corre, sobbalza, scarta, s’arresta. Sirena che sprona, vagoni al galoppo. Scosse e scintille, di ferri in affanno.

 

Stridii e rumori, che corrono ai fianchi, ora trascorsi, ora davanti.

Si getta tra soli e lune pungenti, di fumi alacri ed esauste nebbie.

 

Nelle sue viscere germoglia il futuro, seduto accanto al deluso passato. Sbocciano risa di nuovi ideali,

davanti a bocche che denti non hanno.

 

Vesti eleganti vibranti profumi, stracci dismessi unti di storie, corrono insieme,

tra sogni di fama e fame che morde.

 

Racconti di sere tra colori e champagne, s’intrecciano in altri, di tenebre e vino.

Storie d’amori e sesso sfrenato,

tra chi non ha storia del suo passato.

 

Poi lascia la folla, in fila mesta, entrare nel mondo, da una finestra. Ed ecco là il frutto, di tanta premura, ferro e cemento.

Lo chiaman natura.

 


 

 Pensiero

 

Giocando e rigiocando la vita spendo, intanto scorron i miei fuggevoli anni, e solo nel muto vento l’oblio attendo.

 

Percorro le vie della mia mente, cercando l’estasi senza inganni,

tra la folla, tra la gente, indifferente.

 

Quella mia sola immagine di uomo, sembra rifranger di luce evanescente,

il tratto labile di essa è ormai dipinto, senza suono. finito è il gioco, sol per chi sente.