Pasquina Ledda - Poesie e Racconti

La proposta di Serena

Serena propose alle sue amichette un nuovo gioco:

- Ci divertiremo tanto, venite con me. Vedrete che belle scivolate faremo sui vetri delle finestre!

E così, approfittando della pioggerella di quella mattina, le piccole gocce d’acqua fecero una corsa fino al paesello più vicino.

- Restiamo unite! – disse la più piccola. – Ho paura di perdermi.

 

- Suvvia, brontolona, seguici; andiamo su quella finestra!

Come le goccerelle toccavano il vetro, scivolavano giù una dopo l’altra. 

Ora si rincorrevano facendo a gara, ora si acchiappavano, ora si univano a gruppi di tre o quattro per rendere la caduta più veloce in un gioco più spericolato e divertente.

 

- Ci si diverte di più così che saltando da una foglia all’altra degli alberi! – urlavano.
Oh sì, era proprio vero: cadevano velocemente in basso in una corsa mozzafiato; risalivano lentamente aiutate dal vento che le spingeva su, e via di nuovo.

Le più piccine, troppo leggere per cadere in basso, venivano spinte a turno dalle altre.

 

La pioggerella, però, si tramutò ben presto in un acquazzone e il vento, che pure aveva preso a soffiare più forte, non riusciva a far salire le gocce che si erano fatte sempre più numerose e voluminose.

Serena e le sue compagne si erano riunite in una piccola pozzanghera sul davanzale, aspettando che i raggi del sole, finita la tempesta, si decidessero a dar loro un passaggio fino a casa.


Neve di mare

Un pesciolino molto felice

che non aveva mai fatto baccano

si mette in testa un desiderio

che per lui è un fatto serio.

 

Si contorce, si dimena, 

giorno e notte sta a pensare.

Prova tu a indovinare?

Vuole la neve sotto il mare.

 

Negli abissi, al litorale

non si fa che chiacchierare.

Tutti quanti son convinti

che non può esser reale;

 

che i fiocchi tanto lievi, 

a contatto con il sale,

diventan trasparenti 

e la neve a niente vale.

 

Ma il piccolo è testardo.

Il suo nonno gli ha insegnato

che se in una cosa crede 

deve battersi con fede.

 

Chiamati con un fischio, 

ai suoi amici preferiti dell’idea dà la notizia 

che, nell’oceano tanto grande,

di bocca in bocca, in breve si sparge.

 

Fan lo sciopero della fame

i piccini del reame

finché non avranno per Natale,

la neve bianca anche nel mare.

 

Non c’è rimedio alcuno:

anche il pesce sapientone non trova soluzione.

Ma alla fine, dopo aver molto pensato,

dà un consiglio assai sensato.

 

-Se ai bambini della terra volete somigliare,

 a Babbo Natale dovete domandare.

 

“E chi è quest’omone?”

-È un panciuto signorone

che i bambini d’oltremare

riesce sempre a contentare.

   “Se è buono come dici tu,

farà felici anche noi di quaggiù.”

Per avere il grande dono

devon scrivere a quell’uomo.

Pensate voi a Babbo Natale

(con la paura che ha del mare!)

ora deve soddisfare con leggeri  fiocchettini

quei cocciuti pesciolini.

 

Or si trova in un mare di guai

quel che in acqua non era stato mai.

-Come faccio a portare

tanta neve sotto il mare?

 

Ma lui non può deludere

le richieste che gli fanno

e per trovare il giusto modo

gli rimane men di un anno.

 

Nelle acque c’è fermento,

c’è tripudio, movimento;

c’è chi scende, c’è chi sale:

domani finalmente sarà Natale!

 

I testardi pesciolini

fan la veglia questa notte,

aspettando, bene o male,

la sorpresa di Natale.

 

Ecco scende all’improvviso

una lieve farfallina

che col canto di Natale

or si poggia sul fondale.

 

Un’allegra famigliola

le fa seguito cantando:

-Siamo i fiocchi delicati!

Il Babbone ci ha mandati!

 

Son felici tutti quanti! Ma bambini…

promettete di non dire ai pesciolini

la natura divertente 

di quei lenti fiocchettini.

 

A comporli son detriti

animali e vegetali.

Son le feci di organismi

delle acque superficiali.

 

Sono ricchi di fosfati,

di ammonio e di nitrati,

che si uniscono a formare

la bella e utile neve di mare.


 

Addio, concertino

Quando ero piccolino

mio padre mi diceva:

– Vieni qui, ti faccio sentire il concertino.
Il ticchettacche o il tic tic

mi facevan restare lì

con l’orecchio attaccato

a quel quadrante misterioso 

e tanto piccolino,

a sentir l’orologino.
E la sveglia la mattina,

che non riusciva a stare ferma,

svegliava tutta la caserma.
Tremava allegramente 

il comodino

a quel grazioso rumorino

DRANN DRANN

DRINN DRINN

e non finiva qui.
Alla stessa ora, però di sera,

riprendeva la solita cantilena

DRINN DRANN

Ma oggi non è più così.

Di orologi ce ne son per tutti:

quadrati, tondi, ovali e brutti.

Fan le quattro operazioni,

trovan la radice quadrata

e tutti quanti san la data.
Ricevon mail, fotografie,

fanno le telefonate,

ricordan gli appuntamenti,

ma non hanno gli strumenti

per far udire ai bambini

quei fatati concertini.
E la sveglia, poverina,

la signora del comodino,

non ha più il cappellino.
Non si sente più importante

e non ride più nessuno. 

È triste la mattina

quando dà, 

in edizione speciale,

le notizie del radiogiornale.
E dove son finite le lancette,

le belle gambe,

le code e le freccette?
Il DRIN, il DRAN,

il TIC e il TAC

sono scappati insoddisfatti

di prendere dimora

in macchinette strane e fredde

che danno tutto, fuorché l’ora.


 

ASTOLFO  (lo scienziato)

Sarà una decina di anni fa

che uno scienziato di mezza età,

mentre pensava a una nuova invenzione,

sentì nel cervello un forte rumore.

 

Stette lì, fermo e zitto, per meglio sentire.

- Ma via, sarò stanco, me ne vado a dormire!

Sembrava che nulla gli fosse successo,

invece al mattino, aveva in testa un ascesso.

 

Consultò con premura un collega attempato,

un uomo sapiente e assai rinomato:

- Auguri, mio Astolfo, – gli disse il dottore, -

in testa ti cresce un grosso pancione.

 

La stampa, la radio, il telegiornale

rivelarono al mondo il caso speciale:

- Signori e signore, è rimasto incinto

il capo di un nostro studioso distinto.

 

- Che nascerà da quel teschio umano?

- Un farmaco nuovo, un libro, un piano?

- Da dove uscirà il figlio del cervello?

- Dal naso, dagli occhi oppure dal pisello?

 

L’encefalogramma, l’ecografia,

la risonanza, la radiografia… 

Cosa non fecero per scoprire

quale stranezza era da partorire.

 

Aveva pensato ad un cannone speciale,

di un chewing-gum nuovo, da non masticare.

L’idea “prese forma” e l’arma cresceva,

ma solo a parlarne la scienza rideva.

 

Ad ogni colpo di quel cannone

usciva un dolce e leggero pallone

che, preso il nemico senza far male,

dentro di sé lo faceva viaggiare.

 

E mentre volava, il rivale scopriva

che il suo bel pianeta intanto moriva.

Che c’era gente di tanti colori,

che avevan tutti gli stessi dolori.

 

Non c’era bisogno di fare la guerra, 

ma a molti, è sicuro, piaceva più quella.

Così che si mise tutto a tacere

e dopo  null’altro si venne a sapere.

 

E il nostro Astolfo che fine avrà fatto?

In manicomio è ancor rintanato.

Ha in testa, più grossa, la bella invenzione

che aspetta di uscire in un tempo migliore.


ASTRO

(pupazzo di neve)

 

Quell’anno il Natale regalò a noi bambini il più bel manto di neve che mai più rividi nella mia vita.

È di quell’anno questo fatto strano…

Nel cortile di un quartiere povero, i ragazzini, con le mani livide per il freddo, stavano ultimando i lavori della loro prima opera d’arte: l’amico pupazzo di neve.

Poverino, si vedeva proprio che non era nato in un luogo ricco: una busta di carta gli faceva da cappello, come quelli che usavano i padri di quei monelli quando lavoravano in estate sotto il sole, due pezzi di vetro stavano per gli occhi, un pezzetto di legno per il naso e uno striscione di carta avvolgeva il collo di quel cosone che avevano battezzato “ASTRO”.

Quei bambini, forse per caso, avevano dato al volto del pupazzo un’espressione di dolcezza, quale pochi artisti sanno improntare nelle proprie opere.

Per tutta la mattina non si allontanarono da Astro, che non rimase solo a lungo neanche all’ora di andare a mangiare.

Per quei bambini il pranzo era stato sempre breve, figuriamoci quel giorno!

Uno di loro mise in tasca una mela e, preso di nascosto un coltello, fu il primo in quel pomeriggio a ritrovarsi di fronte all’ormone bianco. Con delle fette di mela, gli preparò delle bellissime guance rosse e una bocca sorridente.

Gli amici, quando lo videro, iniziarono a gridare per la gioia:

- Evviva Astro, evviva il più bel pupazzo di neve!  

E fecero un girotondo intorno a lui, cantando e ridendo.

Nessuna delle madri di quel quartiere avrebbe avuto, in quel momento, il coraggio di richiamare a casa il proprio figlio. Sarebbe stato come dare loro un gran dispiacere e, per alcuni, come togliere l’unico dono che quel Natale aveva portato nei loro cuori.

Ma come spesso succede, dopo la neve arriva la pioggia, e anche lì aveva iniziato a cadere sempre più fitta, tanto da costringere alla fine anche il più coraggioso di quei bambini a cercar riparo. A gruppi, o sotto un vicino balcone, o sotto un portone, guardavano con tristezza la loro opera, lì, sola.

Uno di loro disse: – Ma se continua a piovere, Astro verrà distrutto!

Già, non ci avevano pensato subito; ma sì, sarebbe stato proprio così.

Questa certezza prese il cuore di tutti che, disperati, non sapevano cosa fare.

Pioveva sempre di più e qualche mamma iniziava a richiamare con insistenza il proprio figlio, finché tutti si trovarono costretti, dietro i vetri delle proprie finestre, con le dita tra i denti, a cercare di salvare Astro solo col desiderio.

Prima la nebbia e poi il buio nascosero il pupazzo di neve agli occhi di quei bimbi che preoccupati quella notte, entrarono sotto le lenzuola fredde dei loro lettini.

Quando nel paese tutti dormivano, Nino, uno dei creatori di Astro, non riposava.

Aveva di fronte a sé l’immagine dolce e sorridente di Astro che pian piano dimagriva sempre di più facendo cadere ruscelli di lacrime.

D’un tratto, si alzò dal letto; in silenzio si vestì e uscì di casa.

Pioveva tanto, ma non se ne preoccupò.

Arrivò nel buio di fronte ad Astro. Il pupazzo era lì: più piccolo, con il capo un po’ storto. Aveva perso la sciarpa e il cappello di carta.

A Nino sembrava che Astro avesse tanto freddo e che chiedesse aiuto. 

Non ci pensò tanto: si levò di dosso il suo vecchio cappotto e lo usò per coprire Astro; poi stette un po’ lì, sotto la pioggia, per accertarsi che il suo amico così al riparo dall’acqua si sentisse felice.

A lui parve di sì, così tornò a casa fradicio e infreddolito.

Quella notte Nino delirò per il gran febbrone che gli era venuto.

Nei suoi sogni Astro camminava accanto a lui, per le vie del paese, dolce, sorridente, mentre tutti si affacciavano, invidiosi, alle finestre e alle porte per ammirare la bellissima coppia.

Nei giorni successivi, quando già fuori c’era solo qualche pozzanghera qui e là che ricordava ai bimbi la bella nevicata natalizia, la famiglia di Nino trascorreva momenti terribili.

Il medico aveva parlato chiaro: si trattava di polmonite e solo un miracolo avrebbe potuto salvare il bambino.

Povero Nino! I suoi piccoli amici andavano a trovarlo con delle cosette che le loro madri  preparavano. Nino però non mangiava niente. 

Solo quando chiudeva gli occhi e sognava, solo allora, sorrideva.

Astro tornava con lui: bello, alto, con la sciarpa, il cappello e le guance rosse… 

“Ehi, guarda quanto è bello l’amico di Nino…”

L’inverno prima di lasciare il passo alla bella stagione volle, quell’anno, ridare felicità ai bambini con una nuova e abbondante nevicata.

Per la madre di Nino fu una nuova sofferenza rivedere quella neve che aveva portato dolore nella sua famiglia.

Non era così per i ragazzini della zona, che presto prepararono un altro pupazzo in tutto simile ad Astro.

In quel giorno successe un fatto davvero eccezionale: sotto gli occhi velati di pianto della madre, Nino si alzò in piedi felice e nuovamente in forze. Un angelo tutto bianco era entrato in quella camera, aveva baciato Nino e l’aveva fatto camminare; un angelo tutto bianco con un cappello di cartone, uno striscione di carta per sciarpa e un vecchio cappotto da bambino sulle spalle.


 

Bisogna salvare Gelatina

Gelatina, la piccola medusa di famiglia Siluro,

è davvero assai malata, v’assicuro.

Non sorride più a nessuno

e con alcun vuol giocare.

Neanche con la mamma più passeggia sotto il mare

e già da qualche giorno con nessun vuole parlare.

 

- Gelatina, – le chiede l’amica sua Rosina -

facciamo questa sera un altro esperimento,

con un fanciullo di noi ancor inesperto?

Lasciandoci cullar dal bagnasciuga,

vedrai che lo potremo morsicar senza paura.

 

La piccina non risponde e

a capo basso pensa e tace il male suo:

“Non riesco, come le altre, 

a toccare di un bimbo il buon polpaccio;

né mordere, per gioco,

le braccia rosee e appetitose dei bambini birichini

che da me scappan, scortesi, 

per paura d’esser presi”.

 

La mamma preoccupata e colma di dolore,

si confida col dottore.

- Sono i soliti vizi dei piccoli capricciosi e prepotenti, -

afferma il medico già vecchio

e ormai senza denti.

- Per mille e un granchio bollito,

non è vizio né stravizio! – 

urla il babbo spazientito.

- Se i dottori dell’Atlantico non han la medicina,

saran quelli del Pacifico a guarir la mia piccina.

 

Richiamati dalle onde,

da lontano son venuti,

pronti a prendersi l’onore,

sette medici panciuti.

La grassa trota dice:

- A lei, una dieta più energica s’addice.

L’astuto pesce spada ribadisce:

- Più seppie e meno spigole condite.

 

Ma il pesce mummia allora sostiene:

- Non è una malattia

star fermi e zitti in compagnia.

 

Interviene l’esperto pesce chirurgo:

- Dobbiamo operare, tagliare ed asportare.

 

- Niente di tutto ciò, qui bisogna massaggiare. -

si oppone il polpo.

 

E continua la balena:

- Ha l’ombrello poco usato,

bisogna intervenire in modo assai oculato.

Con un’idropulsione martellante

si riprenderà in un solo istante.

 

A concludere il congresso

è un pesce piccolo e dimesso

che, senza voler fare troppo scalpore,

a voce bassa dice:

- La piccola ha mal di cuore.

Se nessun fanciullo il corpicino a lei farà sfiorare,

Gelatina non passerà più di tre giorni in questo mare.

E allora, tu bimbo e tu bambina,

non strillare tanto forte

quando un giorno in riva al mare 

bacerà la tua manina.

Con coraggio metti su la medicina,

poi sorridi: hai salvato Gelatina!


 

Caos

Un bel dì, prese a lagnarsi,

fin di lacrime a bagnarsi,

il nasino a patatina di una bimba birichina.

Lui ha voglia di assaggiare

le cosette deliziose

che la bocca, sua vicina,

prender può dalla cucina.

I dolcetti delle feste, le focacce, le frittelle,

le lasagne, la polenta, lo stufato, il polpettone:

son leccornie saporite…

ah, scordavo le patatine fritte!

 

Il nasino vuol mangiare

e ci prova, ci ritenta,

ma ahimè, qual risultato:

si è soltanto impiastricciato!

 

- Se non smetti di frignare e le lacrime versare,

ti giuriam che in un baleno

noi, sì, ti inonderemo. – 

minacciano i due occhietti indispettiti

- Che vuoi fare, la rivolta?

Come la bocca vuoi mangiare

e, poiché non ci riesci, a noi vuoi somigliare?

 

Ed urlano più forte:

- Noi del volto siamo gli occhi

che per gioia o per dolore

gocce tiepide, incolore,

ogni volta che vogliamo

tutti e due insiem stilliamo!

 

A quest’urlo furibondo

le due orecchie dormiglione

si destan dal profondo sonno

e pensan: “È la fine del mondo?”

 

Si ribella il dotto cervellone:

- Come? Voi stupide orecchie

osate pur pensare?

Tocca a me quest’alto onore!

 

- Cara mente, se mi permette,

io, non ci capisco niente. -

interrompe la boccuccia, che, 

la sola adatta a chiacchierare,

era stata fino ad ora in silenzio ad ascoltare. – 

Il nasino vuol mangiare,

gli occhietti san parlare,

le orecchie pensan persino

e lei, cervello sopraffino,

riesce ben anche ad urlare?

 

- Come osi dubitare delle mie capacità?

Questo no, non lo permetto! -

s’infuria il cervellone.

- Sono l’unico qui dentro

a cui tutto sia concesso.

Certo, sì che so parlare!

E chi pensi che ogni dì

ti permetta di mangiare?

Sono io il gran padrone

che ora sana la rivoluzione: 

 

Occhietti, al vostro posto,

a guardare vispi e attenti!

Orecchie, ben pulite,

sempre all’erta, tese e dritte!

 

A te, naso, riconosco la tua audacia,

ma se vuoi un consiglio giusto,

vatti a prendere un po’ d’aria!

 

Cosa dire a te, bambina 

con la bocca birichina?

Non tenerla spesso chiusa 

ma non star sempre a parlare.

 

- Ora, sì mi fa adirare!

Non  sa proprio coordinare –  

gli risponde la boccuccia, -

lei che fa tanto il potente,

senza noi farebbe niente!

Notte e dì sempre a pensare,

senza parlare e senza mangiare.

Potrebbe sentire che il pranzo è servito,

vederlo sul tavolo bene imbandito?

Annusare il profumo del lesso bollito,

gustare il sapore del buon pollo fritto?

 

Il cervello riflette:

“Un buon risultato

da tutti insieme è assicurato,

facendo ognuno quello che può, 

quello per cui è destinato,

nessuno di noi sarà più insoddisfatto.”


Il nonno non dice mai bugie

 

Eravamo scesi in paese da presto con zio Bobore nella sua Fiat “600”.

Mia madre mi aveva tenuto davanti sulle ginocchia, perché dietro, sui vecchi sedili, erano state sistemate tante cassette colme di frutta e di verdure che zio Bobore andava a vendere in piazza ogni lunedì.

Avevo in mano una grossa mela e sotto il braccio, ben stretti, un quaderno a righe, uno a quadretti, una matita e una nuovissima scatoletta di cartone con dentro degli strani colori a cera: tutto questo era il corredo per il mio primo giorno di scuola.
- Antò, quando esci da scuola, mamma ti porta da signora Marisa, quella che vende le cose per la scuola, e ti compra una bella borsa e un grembiule blu come quello che hanno i tuoi compagnetti.

Questo fu ciò che promise mia madre di fronte a quella casa con tante finestre, forse perché mi aveva sorpreso a toccare una cartella, poggiata per terra.

La volevo identica a quella, con la chiusura a scatto, grossa, pesante e di colore marrone. 

Mia madre, però, me l’aveva detto solo per consolarmi perché ricordo che passò molto tempo prima che me ne comprasse una.

Per tutto l’inverno andavo giù in paese con un sacchetto dietro le spalle che la mamma aveva contrassegnato con le mie iniziali ricamate a mano per distinguerlo dagli altri. Ma anche senza il marchio lo avrei riconosciuto, perché solo io avevo il sacchetto.

I miei compagni, alternandosi, mi davano in prestito la loro cartella, in cambio del mio saccuccio e così io, prima che la campana suonasse, andavo avanti e indietro, facendo mostra di una borsa ogni giorno diversa, mentre loro consumavano seduti, secondo il turno, la frutta fresca che riuscivo a fare entrare nel sacco.

Di frutta, sì, ne avevamo tanta a casa.

I compagni mi volevano bene, ma non era sempre stato così.

I primi giorni di scuola furono, infatti, per me, una vera sofferenza.

- Mettete sul banco il quaderno a righe. – diceva la maestra – Copiate ciò che scrivo io!

Loro mi guardavano e s’accorgevano che la matita mi scivolava dalla mano, cadeva in terra, si spuntava e per timore e vergogna stavo lì, senza fare niente sul foglio tutto a buchi.

Mi guardavano e s’accorgevano che mi mancava il grembiule blu a farmi essere uguale a loro. Non invidiavano niente di me!

Una mattina la maestra ci disse: – Fate un disegno. Mettete sul banco i pastelli!
Tolsi quella meravigliosa scatola di colori; di questi, sì, ne andavo proprio fiero.

Me li aveva regalati il nonno per il mio compleanno.
“Antonè, li ho comprati a Cagliari, sono colori a cera, conservali bene e quando andrai a scuola, vedrai quanti bellissimi disegni farai con questi!”

Mio nonno non diceva mai bugie, ma forse, pensavo quella mattina, ne aveva detta anche lui una per consolarmi.

Avevo aperto l’astuccio e sistemati in fila quei dodici colori.

Erano corti, morbidi, lisci e il sole che si posava sopra li faceva brillare.

No, non potevo colorare con quei pastelli, io non volevo consumarli, il nonno aveva raccomandato di trattarli bene.

Poveretto, era morto, ma quando l’avrei rivisto in paradiso, come diceva sempre la mamma, io gli avrei dovuto confessare di averli consumati.

In classe solo io possedevo quel tipo di colori.

Loro mi guardavano e sottovoce mi dicevano:

- Non disegni? Non sai disegnare?

E ridacchiavano, guardandosi e abbassando il viso per non farsi scoprire dalla maestra.

Presi in mano uno o due colori, solo per toccarli ma… 

La mia mano si muoveva e, senza il mio controllo, i colori tracciavano sulla pagina dei segni che diventavano cavalli, uccelli, fiori. 

In breve tempo avevo realizzato un disegno coloratissimo e brillante.

- Bravissimo! – esclamò la maestra. – Bambini, Antonio ha fatto il disegno più bello di tutta la classe.

Io ero stupito e i miei compagni finalmente invidiosi.

Da allora, tutte le altre volte che disegnavamo, loro mi guardavano, sorridevano e io rimanevo sbalordito per la facilità con la quale creavo quegli splendidi disegni. 

Avevo però sempre la stessa preoccupazione: – E se consumo i colori?

Ma quelli rimanevano intatti, morbidi, lisci e nuovi come il primo giorno.


Il principe lucente

Che brutta vita! – pensava il principino.
- Il mattino cavalcare, il pomeriggio solfeggiare,
la sera  danzare,
e, dopo cena, la scherma c’è da fare.
M’han detto che a fare il re devo imparare,
così il maestro mi insegna a scrivere e a cantare,

a camminare e a salutare,

ad impormi e comandare, a sorridere e parlare.

Per un’ora al giorno mi costringono a portare in testa una corona con tante perle colorate che luccicano al sole come il vetro verde di Enrico. Chi è Enrico? È il mio amico che tengo nascosto a tutti. Lo incontro al mattino quando faccio la solita passeggiata a cavallo.

Lui abita nel villaggio qui vicino.

- Sai Enrico, io ho una corona con delle pietre che luccicano come il tuo vetrino.

- Non ci credo.

Così un giorno presi la corona, me la misi sotto il gubbino e gliela mostrai.

- Che ti avevo detto?

- Già, ma tu riesci ad accendere un fuoco con quella cosa? – mi propose con aria provocatoria.

- Perché, tu col tuo vetro ce la fai? – chiesi incredulo.

- Certo! – rispose sicuro di sé.

 Cercò il punto adatto, guardò il cielo e pose il vetro sopra alcune foglie secche. 

I raggi del sole picchiavano su quel vetrino che magicamente luccicava costringendomi a chiudere gli occhi.

Quando li riaprii, vidi un fuocherello che spensi subito battendoci sopra con le scarpe.

Pensai che Enrico sapeva fare tante cose più di me, eppure non stava tutto il giorno a studiare.

- Su, – mi disse – fallo tu, ora, un fuoco con la corona! 

Stetti fermo e zitto per un po’, poi…

 

- Ormai è tardi, Enrico, devo andare; 

senz’altro la regina mi starà a cercare,

e prima di pranzo la doccia devo fare.

- Che amico impertinente, – pensai, – 

di vita reale non capisce niente…

Però sarebbe meraviglioso e anche divertente

fare con la corona un grande fuoco,

magari anche solo per un poco.

 

- Enrico, sei pronto? Oggi assisterai ad uno spettacolo mai visto prima.

Lui mi aveva abbagliato usando il suo magico giocattolo e io mi ero infastidito, ma subito pensai che la mia sarebbe stata una sorpresa così straordinaria da lasciarlo senza fiato.

Tolsi dal mio nascondiglio la corona che avevo incollato su una base circolare di legno. Sotto, al centro, avevo messo a lungo chiodo appuntito che fissai al ceppo di un albero.

Un filo trasparente era legato ad un punto esterno della tavoletta, l’altro capo lo tenevo con la mano sinistra. Con la destra stringevo le briglie del cavallo sul quale stavo seduto.

- Chiudi gli occhi, Enrico, dovrai aprirli quando te lo dirò io.

Iniziai a girare lentamente intorno al ceppo a distanza di qualche metro e subito dopo anche la corona iniziò a ruotare.

- Aprili adesso! – gridai.

Enrico, rimase inebetito di fronte a quei bagliori brevi, intermittenti, fortemente intensi e straordinariamente colorati.

Una giostra di raggi di tutti i colori girava intorno alla mia corona e quando, preso dall’entusiasmo feci correre più svelto il cavallo, il luccichio fu così intenso, da portare lì tanta gente che guardava incantata come di fronte a un miracolo.

Enrico pensò: – Forse è proprio vero che il principe conosce più cose di me; mi metterò a studiare.

In giro non si parlava d’altro che della eccezionale intelligenza del principino ed erano tutti felici perché a governarli sarebbe stato, un dì, un uomo saggio.

 

Giunta l’ora quotidiana

di mettere in testa la corona,

il principino, senza star tanto a pensare,

con forza, in testa se la fece posare.

Non vedendo, quindi, la tavola attaccata,

si prese, poveretto, una madornale capocciata.

 

Ora ha il cranio fasciato

e tutti lo credono un po’ matto. 

Va in giro dalla mattina alla sera

con cristalli, vetri, metalli e brillanti

a cercare, con la complicità del sole,

il luccichio dell’ora migliore.

 

Ha smesso di suonare, cavalcare,

scrivere, danzare,

e ha cominciato a giocare.

Il Re non lo potrà più fare.

è demente, ma a lui non importa niente.

Di “Re Sole” ce n’è già stato uno,

lui vuole essere il principe lucente

del regno di nessuno.


Il regno dei mangioni

Mangiofinchécené

era il cuoco più grasso del Re.

 

Mangiochésonpiccina

era la damigella della Regina.

 

Mangiosempredipiù

era il giullare con la pancia all’ingiù.

 

Mangioperchémipiace

era il servo che a bocca asciutta non aveva pace.

 

Mangioacrepapelle

era il contadino più ribelle.

 

Mangiotuttopercarità

era il barbiere che viveva là.

 

Mangioquantomipare

era il sarto con nuovi abiti da fare.

 

Mangioancheaddormentata

era la principessa molto innamorata.

 

Mangiosempredisoppiatto

era il principe annoiato

 

Mangioperchéhoiltempo

era la Regina senza temperamento.

 

Mangioperchésonpazzo

era il Re di questo regno grasso

che ora non c’è più:

si è gonfiato ed è volato su.