Patrizia Piumacci - Poesie

Parlare ai fiori

E’ possibile parlare ai fiori,
non c’è ragione di silenzio con loro,
quando notti di stelle
sono ancora fresche,
a inizio primavera.

Alla campanula intrecciata al biancospino
chiedi il perché del suo colore
così simile al cielo,
il perché ogni bellezza terrestre
muova in te una sottile trafittura,
per chi non lontano dal margine del giardino
un giorno ne uscirà,
non essendo permesso
di ripetere il sentiero.

O al giacinto generoso,
mentre ti abbandoni al suo profumo inebriante,
nello stupore di avere sorvegliato
il suo lento dischiudersi petalo per petalo,
in un fruscio silenzioso,
nascostamente.
E’ questo l’aroma struggente
che forse vorresti ti distogliesse
dalla sofferenza di un giorno,
stordendoti col suo sentore.

O al papavero, che in un campo remoto,
si apre a un sole precoce
di un’alba primaverile,
colla sua esplosione di rosso
impudicamente nutrita di passione.
E’ sempre stato così, intenso e un po’ sfacciato,
il colore dei tuoi sogni,
aspirazioni in parte colmate,
ma anche illusioni e chimere evanescenti.

Ma più di tutti ti rivolgi alla ginestra,
ai suoi cespugli robusti,
abbarbicati ai più erti pendii.
Affacciata alla finestra,
quando giunge l’estate,
non ti basta la delicatezza delle margherite,
o il candore delle rose vulnerabili,
o il timido spuntare delle viole
tra l’erba selvatica,
ma le sue infiorescenze gialle e spinose
ti occorrono
per continuare ad affondare
qualche tua radice
in questo giardino a te così caro.

 

 

 

Bulbi di tulipani

Ho imparato a prestare attenzione
a piccole cose quotidiane.
Con assorta concentrazione
bevo il mio caffè nella tazzina bianca,
una pausa leggera dal mondo,
dai suoi grattacapi e incombenze fastidiose,
e con voluttà protratta ne assaporo
il gusto pieno e intenso.

A prendere il mondo, ma soprattutto me stessa,
non troppo sul serio e alla lettera,
vorrei davvero imparare,
di metafore ardite sono pieni i miei libri.

Osservare con attenzione i momenti
che unica e irripetibile
rendono la mia vita,
cogliere dettagli sfuggenti,
cambiamenti nell’ambito di un battere d’occhi.
Stupirmi di piccoli segni
che solo a chi frettoloso e noncurante cammina
appaiono privi di senso.

Come quella scritta sull’insegna
del chiosco nella piazzetta:
“Qui si vendono fiori freschi
e bulbi di tulipani”.

 

 

 

Il profumo del filadelfo

Dalla finestra entrava il profumo del filadelfo,
ondeggiava nel vuoto una bambola rotta
legata con una corda a una ringhiera.

Intorno, tra il ligustro e l’oleandro,
nell’inganno odoroso dell’erba cedrina,
lucertole, bruchi, ramarri
strisciavano in terra in cerca di consolazione.

Non a mezza estate,
ma nell’ora di una tarda primavera,
quando papaveri precoci già si erano schiusi al sole,
una bambina indugiava assorta,
lo sguardo perso sul confine
tra la terra e il cielo.
Da ingenuità infantile mossa
sognava il tempo,
confidando in doni
prima di tenerli tra le mani.

 

 

 

I mirtilli selvatici

A Montegaio, sulle rive verdi
di primule e viole a primavera,
camminava con passo leggero
e si aggirava fiduciosa in cerca.

Ricca la riva di erbe profumate
e di fiori innumerevoli di stagione,
ma sotto le lucide foglie cerate,
con gesti pazienti,
voleva trovare i mirtilli selvatici
celati alla vista dei più,
le piccole bacche scure già assaporandone.

Ma ardua era la ricerca,
troppo precoce il tempo.

Anche se fiduciosa di doni
prima di scartarne l’involucro,
inseguiva i suoi sogni,
trame di consistenza leggera
nel loro disperdersi evanescenti,
con ingenuità impaziente
traendo profitto
da candide illusioni.

Se apriva gli occhi forse avrebbe visto
il vuoto del cielo riflesso in terra,
ma un privilegio la confortava,
di essere in una verde stagione
quando non alta era ancora l’erba
al bordo del campo
e precoci tulipani al sole
cominciavano a schiudersi,
nel loro fiammeggiare senza posa alimentato
dalla passione.

 

 

 

Giacinti

E’ commovente osservare i bulbi dei giacinti
quando la notte, nascostamente,
si sono inturgiditi
e hanno fatto trapelare
tra i verdi di gemma
la promessa di un tenero blu.
Cautamente ti sei avvicinata,
in silenzio, aspettandoti quasi
un impercettibile fruscio,
come se lo stelo per la fatica del fiore
emettesse un lieve respiro.

Ti ha lasciato il nervosismo della notte
quando spine di un turbamento insidioso
hanno agitato il tuo sonno,
facendoti desiderare un’alba precoce.
Con tenerezza hai avvicinato a te

il piccolo vaso, delicatamente,
certa che nessuno ti potesse osservare,
irridere.
Ne hai percepito, sottile ma persistente, la fragranza:
respiravano ancora le gemme
dell’aria leggera del campo,
della nostalgia del bosco,
del profumo dell’erba selvatica.

Insieme ad esse hai rinunciato al rimpianto,
alla nostalgia che a volte ti prende,
forzando il tuo io ad aprirti,
come i fiori del giacinto,
con timida fiducia al nuovo giorno.

 

 

Lucciole

La notte riempie la stanza
di una insperata dolcezza.
Lucciole accendono bagliori qua e là nel campo.
E’ tempo di riposare nel silenzio quieto,
assaporare le emozioni di questa giornata.

Sfiorare come in una carezza
parole udite sotto l’ombra gialla dell’acero,
indugiare in esse perché fonte della mia gioia.
Eri nel giardino intento a liberare
dalle erbe infestanti le rose selvatiche.
Stavamo vicini sul vialetto ghiaioso,
io raccoglievo foglie sparse qua e là.

Ero stupita, quasi incredula del tuo amore,
passione, attrazione dei sensi,
o intesa profonda degli animi
che si erano a lungo cercati.

Con amorevoli cure hai fatto germogliare
tutto quello che avevamo messo a dimora
nel terreno primaverile.
Sul tuo viso scrivi
sembianze di tenerezza,
consentendomi di assaporare
la pienezza appagante di questo momento.

 

Il rosmarino

Sono affacciata alla finestra della mia stanza,
il rosmarino vi dipinge i suoi piccoli fiori,
come minuscole stelle blu.
Il mondo è ancora silenzioso,
una nera gazza svolazza solitaria
tra i rami scuri dell’acero.

Nel mattino precoce penso al mio tempo,
mai come ora mi sembra prezioso,
mai come ora permetto alla mia anima di scoprirsi,
di lasciar trapelare ciò che la colma.
Sentimenti, pensieri, ricordi,
interrogativi non ancora risolti.

Il passato riassunto nello stupore di una nascita,
la piccola bocca,
un minuscolo cerchio di beatitudine.
Il presente: giorni che passano più pacati,
maggiore consapevolezza,
rinuncia alla approssimazione,
per assaporare la poesia del minuscolo,
dell’essenziale.

Mi sono imposta la franchezza.
Un legame saldo mi trattiene nel mio giardino,
al suo giaciglio di terra, alla sua trama di aria,
voglio continuare a parlare ai miei fiori,
alla furbizia gentile, alle azalee rosate,
ai viticci della clematide,
voglio continuare a staccare dal tronco biancastro
della betulla le foglie dell’edera
ad esso strettamente abbracciate.
Ignorare quel filo sottile di tristezza
che a volte mi prende,
tutto intorno a me è essenza viva.

 

 

 

Una stanza

C’è una stanza in alto,
stretta tra il mare e il monte,
all’alba un’arancia di sole
spunta ammiccando dalla costa verde
e la inonda di luce.

Lo accoglie grato il mare
trascolorando dall’ombra della notte
a un azzurro così simile al cielo.

Dalla finestra aperta
entra l’aria odorosa di sale,
rassetti il cuscino sul lenzuolo bianco,
sulla tavola un cestino di albicocche
contende al sole il suo splendore giallo.

Una bianca stanza a tu per tu con il cielo,
inondata di azzurra aria leggera,
non grande,
ma sufficiente a contenere una vita.

Con essa hai concluso un patto:
dal mare l’eco ritmico delle onde
sospinte dal vento,
traiettorie scure di rondini
sulla finestra a tetto,
sulle tue guance luccichii di sole,
sulle tue labbra attimi di sorrisi
e silenzi prolungati che parlano di gioia.

 

 

 

Una domenica “arancione”

Acqua chiara nella caraffa
di cristallo scintillante,
sulla tavola con cura apparecchiata
fiori di campo raccolti in mazzo,
iris, ranuncoli, ellebori d’inverno,
anemoni gialli e viola,
errori di primavera.

Parliamo, parole leggere, quotidiane,
discorsi incidentali,
c’è silenzio fuori,
pochi echi di passi quasi innaturali.

Dove vanno?

Stanze a riempire ore,
scampoli di cielo grigio da una finestra,
solitudini in cerca di motivazioni.

Si sveste la tavola della sua tovaglia gialla,
ritorniamo al nostro solito fare….
gesti di abitudini, incombenze quotidiane
ci colgono distratti, quasi noncuranti,
ma poi ci prende la memoria di un “prima”,
un ricordo, un progetto interrotto,
squilla il telefono, impone una risposta,
una musica vuole essere ascoltata.

Il volume acquistato ieri
delle poesie di una poetessa giardiniera
ora mi cattura
con persuasa decisione.

 

 

La poetessa giardiniera

E’ una donna del Vermont acqua e sapone,
grandi le tasche del grembiule,
col cappello di paglia in mano
si affaccia alla veranda
e offre al sole pallide lentiggini,
una folta treccia a sfiorare le spalle.

Esce fuori;
nello spazio all’orizzonte
monti, colori intensi, una vallata
dove risuonano ancora gli echi
dei versi della Dickinson.

In un’estate ordinaria, col nome dei fiori,
popola il suo giardino di versi misteriosi,
conversa con Dio, con gli umani,
di nascita, morte, terrore, gioia,
prega il Padre irraggiungibile,
gli chiede conto del suo vivere quotidiano.

Il suo giardino, una replica
dell’Eden primigenio.
Chi parla? L’uomo, un fiore, Dio?
La sua voce: una storia nel mondo.

L’iris, il trifoglio, la scilla, il giglio,
il papavero rosso,
preghiere del Mattino e del Vespro,
la giardiniera intreccia un dialogo,
sospira, piange,
è la sua vita che fiorisce e si consuma
insieme ai fiori del giardino.

 

 

Parole

 Fu quel giorno

che me ne stavo

nel silenzio di un mattino,

vennero delle parole

ad addolcire un’ombra scura

che si addensava dentro.

 

Non sapevo bene

cosa fosse,

ma un’urgenza, un istinto

mi pulsava nell’animo,

dare voce a un’idea,

sognar di nuovo un sogno,

di lucciole un mare palpitante,

volti amati

di un passato

dal sapore buono.

 

Scrissi le prime parole,

forse dei versi erano,

una sciocchezza, un nulla,

e pudica li custodii

celandoli,

ma mi accarezzavano dentro

e il cuore si distendeva

nel mattino ora chiaro.

 

Sciolte le parole

fiorivano le bianche righe:

erbe arrossate

da papaveri di maggio,

respiri di onde

all’unisono di stelle,

una preghiera per lenire l’ombra,

una festa di primavera

a illuminare

l’amore di due sposi.

 

Non c’era più troppo silenzio,

di quella porta forse

una minuscola chiave

custodivo in tasca:

dolcezza e libertà del dire.

 

 

 

Sull’altana

Ricordo che quand’ero una bambina

salivo di nascosto sull’altana,

passi di corsa lungo la ringhiera,

una chiocciola di scale che ardita

s’inerpicava fin lassù,

a sfiorare lembi di nubi con le dita.

Portavo con me uno dei libri di mio padre,

il gusto e l’eccitazione di una cosa proibita,

e leggevo assorta nel silenzio

sognando la vita che ancor non conoscevo.

Chiudevo gli occhi e indossavo mille vite,

come costumi di una recita a sorpresa,

fantasticando con l’incanto ignaro

che solo i sogni giovani posson avere.

Mai come allora mi è sembrato pieno

il sapor dolceamaro dei giorni futuri,

solo un po’ tremuli i contorni e i colori,

come la cortina azzurra dei monti

che da lontano presagiva il mare.

 

 

 

Nozze di primavera

 21 marzo è un giorno speciale,

due sposi oggi si scambian le vere!

La casa in festa si è vestita di fiori,

le pareti bianche di grandi quadri a colori.

 

Lei sorride felice, è lieta l’attesa.

Lui la guarda con occhi d’amore:

è la sua sposa, le porge dei fiori

e, gentile, la prende per mano.

 

Bologna festosa offre loro i suoi doni:

una piazza nel sole, palazzi merlati,

portici d’ombra in cui passeggiare,

un vento di marzo che scompiglia i colombi.

 

Sorridono gli altri e li guardano andare,

ai loro sì applaudon felici,

è così dolce lasciarsi cullare

da sogni, speranze: è tempo d’amare.

In bici

Un fagiano dalla testa rossa

incede regale in un campo di sterpi,

un fuoco di papaveri di maggio

accende di un prato la distesa verde.

 

Questa e mille altre son le cose

che mi capita di vedere la mattina

quando in sella alla mia bici lascio casa

e mi inoltro su strade di collina.

 

Le vie conosciute ai più abbandono

e con percorsi un po’ inusuali

costeggio filari di viti, rogge di canali,

boschetti di acacie, silenziosi casolari,

campi di fieno con balle stese ad asciugare.

 

Mentre spingo con forza sui pedali

posso dare libertà ai miei pensieri,

in uno schema capriccioso e mai uguale

vado da oggi, a ieri e a domani,

progetto la giornata, o penso a una persona,

nelle orecchie l’aria di una canzone,

sulle labbra le parole

di una musica che amo.

 

Poi la discesa mi spinge veloce,

sul viso e sulle spalle una brezza tesa,

un “che” di appagamento e di pace mi regala,

come se mi sentissi più libera e leggera.

 

Davanti a casa scendo dai pedali

e come un astronauta dall’orbita rientrato

il peso della gravità risento:

i piedi sono di nuovo in terra,

le azioni quelle di sempre.

Tramonto padano.

Tra lunghi filari di pioppi

in verde uniforme schierati

si dilata improvvisa una palla di sole,

enorme, infuocata, arancione.

 

Poi nel cielo insolitamente terso

si liquefa rotondo il colore

e rapido scompare all’orizzonte

lasciando in me rivoli di rosso stupore.

Coincidenze

Alchimia di possibilità, gioco di coincidenze,

lui era lì, aveva scelto di essere lì,

quanto a lei

della casualità la roulette capricciosa

ve l’aveva portata.

 

Lui era lì, esattamente dove era lei,

a portata di occhi,

si potevano involontariamente sfiorare

in un gesto tra i milioni possibili.

 

Gli sguardi si incrociarono,

ognuno dell’altro seppe,

delle voci il suono fu conosciuto,

poche parole, rade, insignificanti.

 

Poi ci fu un’intersezione,

due linee cominciarono ad incrociarsi,

sempre più spesso,

e come pianeti lungo un’orbita

loro presero a vorticare vicini.

Un percorso si delineò,

uno, quello, non un altro,

tra i milioni possibili.

 

Tante volte dopo si chiese

come sarebbe stata la sua vita

senza quella intersezione.

 

Acquiescente come una capra addomesticata

non prese in mano la sua vita,

alla pressione insistente non seppe opporsi.

Dei due fu lui il più forte,

come, dopo, sempre.

Suoni

Onnipresenti della bruttezza i suoni:

stridono di motociclette i rombi,

martelli pneumatici e sirene ti assordano,

della pubblicità odiose ti blandiscono

suadenti sirene.

 

Della bellezza allora vai alla ricerca,

ma se impalpabile, immateriale ti appare

non ti ingannare, non la puoi fermare,

muri del suono in apparenza insormontabili

è capace di vincere.

 

Come se la prima volta fosse

dallo spazio lasciati avvolgere,

guardalo, in ascolto mettiti…

 

…scorre l’acqua fresca di un rio nella campagna,

allegra e liberatoria la risata di una amica,

un anfiteatro di campane tibetane

in concerto sulla passeggiata,

fruscii della vela tesa e gonfia al vento.

 

Incomparabile bellezza dei suoni,

come in un confessionale

degli oggetti più svariati

la polifonia puoi ascoltare,

in un direttore d’orchestra trasformarti

per animare proprio grazie al suono

del silenzio le infinite possibilità.

Parole nella sera

Lievi ti giungan le mie parole nella sera,

parole a mezza voce, parole anche inconsistenti,

di un chiaccherio sommesso e quotidiano,

fatto del tutto e del niente,

ma tu ne possa udire il suono, il ritmo,

il timbro, il colore, il movimento.

 

E’ la musica del nostro stare insieme,

del ritrovarsi dopo una lunga assenza,

quando l’ippocastano era freddo e spoglio nel giardino

e i rami segnavano sui vetri nude trame.

 

Ora il giorno e la notte han ritrovato

il senso di un tempo ancora buono,

il nocciolo, l’ulivo, il melograno

tutto più fresco e luminoso mi appare,

come se avessi ancora per un sortilegio

i miei vent’anni migliori e più vivi.

 

Ascolto le tue parole nella sera,

parole a mezza voce, anche inconsistenti,

che si intrecciano alla mia voce allegra

come sguardi che si cercan lungamente,

che rompono il silenzio

e fanno sì che finalmente assaporiamo

il profumo caldo dello star di nuovo insieme.

La mia eredità

Quando in silenzio se ne sono andati

prima uno, una notte,

poi l’altra in un meriggio,

orfana del tutto non sono rimasta,

ma da mio padre e da mia madre

ho ricevuto una loro eredità.

 

Non cifre sull’estratto conto

o rendite su visure catastali,

ma uno scrigno colmo

di ricordi vividi e di valori buoni,

che ancora adesso custodisco dentro,

che mi si pongono a lato

durante il cammino.

 

E rivedo gli occhi di mio padre

di gioia e di orgoglio brillare

il giorno della mia laurea,

e i suoi capelli bianchi

di monito al medico,

che al mio capezzale, io malata,

tardava a venire,

le sue mani che fiduciose

ai figli si affidavano

quando l’ospite maligno

il suo corpo anziano minava.

 

E la dolcezza di mia madre

che mai mi prevaricava,

ma dava ali al mio anelito giovane

di libertà e di vita,

la sua intatta capacità

gli altri di amare

anche quando naturale sarebbe stato

dell’io anziano il richiamo imperioso

ascoltare.

 

Ora so sempre di più

di averli amati tanto,

felice di essere da loro venuta,

e, come Telemaco di suo padre Ulisse,

nella mia Itaca custodisco

il tesoro della loro eredità.

Pegaso

In punta di piedi sono entrata

nella pineta incantata del Tombolo,

in un meriggio silenzioso d’autunno.

Era l’ora dell’ultimo sole.

 

La luce filtrava rada

tra le selva dei tronchi multipli di se stessi,

un ombrello esteso e compatto sopra le nostre teste,

nella penombra sempre più fitta

i nostri passi attutiti

dal tappeto ramato degli aghi di pino.

 

La pineta m’ha accolto con naturalezza,

microcosmo avvolgente e ovattato

capace di placarmi per il tempo di una clessidra,

purchè mi facessi anch’io tronco, ago, terra, pigna.

 

L’odore umido del muschio a riempirmi le narici,

una sagoma lontana in controluce,

novello Pegaso alla fonte a dissetarsi,

due ali di folgore spuntate chissà come.

 

Giochi d’ombre e chiaroscuri che s’infiltrano,

rari e rauchi stridi di gabbiani;

avanzavo lenta, stupefatta di beatitudine

in una mistica e inconsapevole attesa.

 

Poi i tronchi a diradarsi,

là sul fondo ora

d’esili tamerici un boschetto gentile,

uno slargo del sentiero,

un baluginare di luce sempre più vicino.

 

Mi scopro ad affrettare i passi

ed ecco siamo arrivati al mare,

in un’ansa selvaggia e remota

quasi figlia di Maremma.

Camminiamo nella spiaggia orfana d’estate,

le onde a rotolare ritmiche sulla battigia,

l’ultimo sole che ci scalda tiepido la pelle,

nonostante l’estate sia da un pezzo già finita.

 

Cerco Pegaso lì intorno nella luce vespertina,

ma se n’è dissolta l’onirica visione

come nebbia che al sole rapida svapora.

 

 

 

Se la poesia è femmina…

Se la poesia è femmina

rotondità di pancia

che culla la notte,

ladra che ruba alla felicità

gemiti d’amore,

pietas che sorregge

di padri e madri i vacillanti passi.

 

Se la poesia è femmina

labbra che assaporano

dolcezza e libertà del dire,

quando l’urgenza di parole

zampilla

desideri, ricordi, sogni.

 

Fioriscono così le bianche righe

dall’io più profondo,

sapor dolceamaro dei giorni,

di quelli lieti

come baci di miele,

di quelli aspri

come grevi macigni.

 

Poesia …respiro dell’anima.

 

 

 

Mucciatella

La mia infanzia,

un paese accarezzato da ridenti colline,

giochi  “a coperchini” sul muretto,

scivolate a precipizio dalla riva erbosa.

 

Passò così il mio tempo di bambina,

tra gite al mare con la Giardinetta verde

e gare spensierate insieme a mio fratello

a chi avvistava delle Madonnine

nei tabernacoli il numero più alto.

 

Un’infilata di stanze affacciate

sulla piazza sotto Mucciatella,

il chiosco dei gelati,

dentro in casa

lo sguardo assorto di mia madre

intenta a ricamare.

 

 

 

Sui trampoli

Dal fondo della via

odi avvicinarsi il suono

di una mesta fisarmonica,

poche note dai tasti spremute

amare come singhiozzi di lacrime.

 

Compaiono all’improvviso loro,

allampanate figure in bilico

su alti trampoli,

le vesti bianche e rosse

in un’enigmatica danza fluttuanti.

 

Le guardi sfilare,

mentre aeree e misteriose

incedono

e folgorata arresti il passo.

 

Com’è il mondo

se da un’altra prospettiva

le cose della vita riesci a guardare,

se da terra ti stacchi

ed agognato premio

la tua distanza prendi?

 

Non lasciarsi sfinire

dal groviglio doloroso dell’io,

poter essere indifferente

come un obelisco

alto e immobile nella piazza,

o come la Sfinge che nel deserto

antiche pietre inerte fissa.

 

 

 

Ore

In questa mia giornata inquieta

non raccolgo fiori di zafferano

e non mi accarezza

un’onda fresca di mare.

 

In questa mia giornata vuota

non si levano in cielo

petali di candide calle

e fenicotteri rosa.

 

In questa mia giornata disillusa

se ne invola

dalla mia mano

di giallo oro un sogno.

 

In questa mia giornata

solo ore, ore, ore

e nulla più.

 

 

 

Insieme

Mi sono chiesta tante volte

per quale strana coincidenza,

quando in silenzio vicini

ma ognuno ai suoi pensieri volto,

improvvisamente

uno dei due se n’esce con parole,

da nessuna associazione o necessità dettate,

e l’altro, un po’ sorpreso,

proprio la stessa cosa ha in mente.

 

E’ un filo invisibile che ci unisce,

è un’energia che nasce dalla mente,

o forse i nostri animi hanno imparato,

nella lunga consuetudine dei giorni,

a trovare sincronismi insospettati,

anche se noi siam diversi così profondamente.

 

Parole non voglio cercare per dire di noi,

a pochi gesti preferisco accennare:

un braccio che ti sorregge se sei stanca,

un piatto che gli piace là in cucina,

gli occhiali ritrovati nella casa al mare

facendo avanti indietro per due volte

l’autostrada nella sarabanda

di auto di una domenica di estate.

 

Negli anni varie sfumature e implicazioni

ha assunto quel legame,

all’età, alle situazioni, alla vita si è adattato

come un rampicante al ramo attorcigliato.

 

Spesso da soli abbiamo camminato

nei percorsi che ognuno per sè si è scelto,

ma sapendo che tornando a casa

c’era l’altro, complice e solidale,

ad aspettarlo.