Riccardo Cistullo - Poesie

In ogni notte senza immagini e confini

 

Sostare come le stelle immobili, dritto,

in ogni notte senza immagini e confini.

Lanciare la mia aspra voce

al di là delle onde buie,

ascoltare la schiuma che si modella ai miei piedi

e scalciare qualcosa che non riconosco.

Danzare leggero come le foglie cadute,

fluttuare in ogni vento

senza peso né direzione,

impallidire dinnanzi al sole

e in esso confondere il fuoco del mio petto.

Il dolore gravita intorno al mio cuore,

lo deride, lo ferisce, poi riesce

e ricomincia a girare come il vento repentino,

come il mare burrascoso che aspetta ridendo

di abbattere sull’inerme riva le sue lame.

Non è sangue ciò che scorre

nei fiumi del mio corpo,

ma semi di fil di ferro

che trasmigrano veloci, pungenti, dolenti,

con forza crescente di piena invernale.

Nelle mie sere di abbandono, madre,

i tuoi sorrisi sempre dolci

descrivono un anello limpido

tra le mie parole e le mie lacrime,

e questa morte…questa morte mi avvolge,

come sullo scoglio,

il muschio sotto l’onde.


I miei baci

 

L’Universo s’apre

tra gli spumosi flutti dell’oceano,

spargendo furioso il sale

sulla mia testa declinata.

Grida il cuore ferito

e bocca geme frammenti d’amore,

mentre silenzioso mi avvicino,

carponi nell’aroma della riva,

ed è frustata lieve,

profumo fatato

tra le labbra e le mie mani.

Appoggio la bocca

nel mare che mi attende,

come se tu attendessi,

tra i tuoi capelli,

chinandoti,

i miei baci.


Il viaggio

 

Notte di Capri.

Lucente isola,

come chiarore di stelle,

bianco di luna.

Vita senza tempo

nella pietra profumata di limone,

diamante giallo come il grano,

rotondo come la pupilla.

I gerani dai balconi a cascata scendono,

in acqua colorata

dove è dolce per l’animo annegare.

Ovunque azzurro,

acqua e cielo a fondersi

in un mondo capovolto.

Piccolo sasso verde,

aiuola nel mare, orgoglio d’Italia.

Madre,

il destino, tra le tue dita,

ha fatto scivolare i giorni della vita;

come sabbia, in granelli, cade.

Il sogno è con te sepolto.

Capri, isola delle isole,

rosa delle rose,

nascondi tra le tue rocce

il mio rimpianto,

giacché trattengo nel mio petto

il profumo della tua terra,

che mai madre mia baciò.


Quel neo era lì (quante volte l’ho guardato)

 

Ed io raccoglievo fiori

in vivaci distese profumate,

le forme dilette degli alberi ammiravo,

l’effimero volo della farfalla m’incantava,

e l’acqua e la quiete traboccante

dello scorrere del fiume m’inebriava,

ed il canto continuo degli uccelli mi estasiava,

e le colline, le pecore ed il pastore,

quante volte l’ho invidiato,

lì seduto, nell’oceano di silenzio,

io avrei cercato in me l’esistenza,

sospeso tra cielo e terra, attendendo,

come chi la morte attende,

la danza del morir del giorno,

tra una lanterna ed una stella,

tra la luna e l’indecifrabile cosmo.

Che fascino, che potenza divina

è la vita!

Ho studiato per anni l’Universo,

ho versato lacrime per la grandezza del tutto,

per l’infinito del mondo,

per la chimica, la fisica, la geografia,

per i sogni, per le ombre e per i numeri.

Ho salvato da morte certa

moscerini, zanzare, api e formiche,

perché il mio mondo è un mondo vegetale.

Ho amato la pioggia, il vento ed il fuoco,

la poesia, la pittura e la musica,

la religione, il canto ed il santo,

i deserti, i mari e il caldo.

Anima mia,

spiega le vele per i lunghi viaggi

e per tutte le primavere

dell’uomo e della Terra.

Tutto il cosmo è dentro di me,

ogni atomo mi appartiene,

ogni singola foglia, goccia o erba,

la pietra e la povertà,

le spiagge, i vulcani, i vapori

che protendono verso le stelle.

La mia mente è il Mondo,

può contenere tutto o nulla,

può espandersi o restringersi,

può respirare o soffocare,

può vivere o morire.

Ho guardato nelle notti le galassie

e le mie notti ho donato

per intendere buchi neri,

nane rosse e macchie solari.

Ma una macchia scura,

silenziosa e più nitida tra tutte

mi ha girato attorno per anni,

chissà quante volte.

Era quest’orbita breve,

questo cielo senza stelle né soli

il mio vero Universo,

…ed io non l’ho esplorato.


Questa notte

 

Questa notte mi par eterna.

Basterebbe che il sole

all’improvviso uscisse,

perché ogni suo desiderato raggio

intime lacrime dissecchi.

Questa notte è silenziosa.

Basterebbe che la tua voce io sentissi,

nascosta, lontana,

come nell’aria violino che ondeggia,

come tra le foglie vento che fugge.

Sì!

Questa notte, come allora,

sarebbe la mia notte.

Nel sonno un fanciullo

tra l’alloro e le viole.


Solitudine del poeta

 

Ammiro e taccio.

La lucciola

è un alto capolavoro

del Creatore.

Medito e piango.

Cosa cerco

guardando l’infinito?

Con la lucciola

e l’infinito

si può fare poesia.

Non volevo diventare

un poeta.


E queste mie mani

 

Lascia che le mie mani

tocchino il cielo,

e tra le nubi,

galoppando solitario,

io notte e giorno

sia uno sperduto cavaliere.

Lascia che attraversi nel mio cuore

tutti i sentieri più tortuosi

e tutti i fiumi tempestosi,

così che il sangue

sia di me percorso o sepoltura.

Lascia che io pianga

in un’ora di tutti i giorni,

lascia che nell’Universo

il mio grido si diffonda,

di mille spari di tuono più forte,

di mille flutti oceanici più furioso.

Lascia che tra le stelle

io vorticosamente giri,

cosicché,

toccandole una ad una

io riconosca la tua luce,

ciò che m’apparteneva,

e queste mie mani

si empiranno di te!


Quanta strada il mio cuore

 

Cerco tra i miei sorrisi le tue labbra

e nelle mie lacrime i tuoi occhi.

Or bene me stesso apprendo,

giacché tra le mie desolate mura

diffondo affranto il mio grido.

Sapersi inquieto e alla pazzia simile,

se nel mio senno a cercar dimora

ferocemente pungono

i tuoi commossi lamenti,

come il rossastro picchio

che deciso a trovar riparo

percuote un intristito fusto.

Attorno alla tua crudele pena,

anelante il tuo sguardo conquistavo,

ed in mezzo a cento occhi,

arresi per la sorte,

io e te vedemmo la sorella morte.

Da nostalgici fulmini

fui accecato e fuggii

e pianti seminai

nelle aride valli dell’anima mia.

Quanta strada il mio cuore

quel giorno fece

per tornare al tuo.


Quel giorno lì

 

La bocca ha nascosto le parole

e le hai cercate nei miei occhi,

ma ho abbassato lo sguardo

per nasconderti le lacrime.

Se avessi poggiato

il tuo stanco viso

sul mio caldo petto

avrei cancellato

l’echeggiare del mio cuore.


I fiori nel mio zaino

 

Tiro fuori dal mio zaino

ciò che vado ad elencarvi:

un libro sulla scienza spirituale,

le poesie d’amore

di Gustavo Adolfo Bécquer,

“Foglie d’erba” di Walter Witman

(quello di “Capitano, o mio capitano”),

Siddharta, di Hermann Hesse,

appunti sulle grandi religioni,

le poesie di Pablo Neruda,

il “Cammino semplice” di Madre Teresa,

il “Cammino verso Dio” di Gandhi,

le massime di Confucio,

quadernoni di appunti

sulla fisiologia umana, musica,

filosofia, alimentazione vegana,

tre miei diari del 2015, 2016, 2017,

un quaderno a quadretti

con un centinaio di mie poesie,

un non precisato numero di fogli

sui quali annoto un po’ di tutto,

ma soprattutto un libro

che custodisco gelosamente,

di tre poeti meravigliosi,

che cantavano dalle Ande

la giustizia, le speranze e la verità

della vita.

Per questo sono stati

selvaggiamente strappati

alla loro giovinezza e giustiziati.

Roque Dalton, Javier Heraud

e Francisco Urondo,

questi i loro nomi.

Vi prego di non dimenticarli.