In ogni notte senza immagini e confini
Sostare come le stelle immobili, dritto,
in ogni notte senza immagini e confini.
Lanciare la mia aspra voce
al di là delle onde buie,
ascoltare la schiuma che si modella ai miei piedi
e scalciare qualcosa che non riconosco.
Danzare leggero come le foglie cadute,
fluttuare in ogni vento
senza peso né direzione,
impallidire dinnanzi al sole
e in esso confondere il fuoco del mio petto.
Il dolore gravita intorno al mio cuore,
lo deride, lo ferisce, poi riesce
e ricomincia a girare come il vento repentino,
come il mare burrascoso che aspetta ridendo
di abbattere sull’inerme riva le sue lame.
Non è sangue ciò che scorre
nei fiumi del mio corpo,
ma semi di fil di ferro
che trasmigrano veloci, pungenti, dolenti,
con forza crescente di piena invernale.
Nelle mie sere di abbandono, madre,
i tuoi sorrisi sempre dolci
descrivono un anello limpido
tra le mie parole e le mie lacrime,
e questa morte…questa morte mi avvolge,
come sullo scoglio,
il muschio sotto l’onde.
I miei baci
L’Universo s’apre
tra gli spumosi flutti dell’oceano,
spargendo furioso il sale
sulla mia testa declinata.
Grida il cuore ferito
e bocca geme frammenti d’amore,
mentre silenzioso mi avvicino,
carponi nell’aroma della riva,
ed è frustata lieve,
profumo fatato
tra le labbra e le mie mani.
Appoggio la bocca
nel mare che mi attende,
come se tu attendessi,
tra i tuoi capelli,
chinandoti,
i miei baci.
Il viaggio
Notte di Capri.
Lucente isola,
come chiarore di stelle,
bianco di luna.
Vita senza tempo
nella pietra profumata di limone,
diamante giallo come il grano,
rotondo come la pupilla.
I gerani dai balconi a cascata scendono,
in acqua colorata
dove è dolce per l’animo annegare.
Ovunque azzurro,
acqua e cielo a fondersi
in un mondo capovolto.
Piccolo sasso verde,
aiuola nel mare, orgoglio d’Italia.
Madre,
il destino, tra le tue dita,
ha fatto scivolare i giorni della vita;
come sabbia, in granelli, cade.
Il sogno è con te sepolto.
Capri, isola delle isole,
rosa delle rose,
nascondi tra le tue rocce
il mio rimpianto,
giacché trattengo nel mio petto
il profumo della tua terra,
che mai madre mia baciò.
Quel neo era lì (quante volte l’ho guardato)
Ed io raccoglievo fiori
in vivaci distese profumate,
le forme dilette degli alberi ammiravo,
l’effimero volo della farfalla m’incantava,
e l’acqua e la quiete traboccante
dello scorrere del fiume m’inebriava,
ed il canto continuo degli uccelli mi estasiava,
e le colline, le pecore ed il pastore,
quante volte l’ho invidiato,
lì seduto, nell’oceano di silenzio,
io avrei cercato in me l’esistenza,
sospeso tra cielo e terra, attendendo,
come chi la morte attende,
la danza del morir del giorno,
tra una lanterna ed una stella,
tra la luna e l’indecifrabile cosmo.
Che fascino, che potenza divina
è la vita!
Ho studiato per anni l’Universo,
ho versato lacrime per la grandezza del tutto,
per l’infinito del mondo,
per la chimica, la fisica, la geografia,
per i sogni, per le ombre e per i numeri.
Ho salvato da morte certa
moscerini, zanzare, api e formiche,
perché il mio mondo è un mondo vegetale.
Ho amato la pioggia, il vento ed il fuoco,
la poesia, la pittura e la musica,
la religione, il canto ed il santo,
i deserti, i mari e il caldo.
Anima mia,
spiega le vele per i lunghi viaggi
e per tutte le primavere
dell’uomo e della Terra.
Tutto il cosmo è dentro di me,
ogni atomo mi appartiene,
ogni singola foglia, goccia o erba,
la pietra e la povertà,
le spiagge, i vulcani, i vapori
che protendono verso le stelle.
La mia mente è il Mondo,
può contenere tutto o nulla,
può espandersi o restringersi,
può respirare o soffocare,
può vivere o morire.
Ho guardato nelle notti le galassie
e le mie notti ho donato
per intendere buchi neri,
nane rosse e macchie solari.
Ma una macchia scura,
silenziosa e più nitida tra tutte
mi ha girato attorno per anni,
chissà quante volte.
Era quest’orbita breve,
questo cielo senza stelle né soli
il mio vero Universo,
…ed io non l’ho esplorato.
Questa notte
Questa notte mi par eterna.
Basterebbe che il sole
all’improvviso uscisse,
perché ogni suo desiderato raggio
intime lacrime dissecchi.
Questa notte è silenziosa.
Basterebbe che la tua voce io sentissi,
nascosta, lontana,
come nell’aria violino che ondeggia,
come tra le foglie vento che fugge.
Sì!
Questa notte, come allora,
sarebbe la mia notte.
Nel sonno un fanciullo
tra l’alloro e le viole.
Solitudine del poeta
Ammiro e taccio.
La lucciola
è un alto capolavoro
del Creatore.
Medito e piango.
Cosa cerco
guardando l’infinito?
Con la lucciola
e l’infinito
si può fare poesia.
Non volevo diventare
un poeta.
E queste mie mani
Lascia che le mie mani
tocchino il cielo,
e tra le nubi,
galoppando solitario,
io notte e giorno
sia uno sperduto cavaliere.
Lascia che attraversi nel mio cuore
tutti i sentieri più tortuosi
e tutti i fiumi tempestosi,
così che il sangue
sia di me percorso o sepoltura.
Lascia che io pianga
in un’ora di tutti i giorni,
lascia che nell’Universo
il mio grido si diffonda,
di mille spari di tuono più forte,
di mille flutti oceanici più furioso.
Lascia che tra le stelle
io vorticosamente giri,
cosicché,
toccandole una ad una
io riconosca la tua luce,
ciò che m’apparteneva,
e queste mie mani
si empiranno di te!
Quanta strada il mio cuore
Cerco tra i miei sorrisi le tue labbra
e nelle mie lacrime i tuoi occhi.
Or bene me stesso apprendo,
giacché tra le mie desolate mura
diffondo affranto il mio grido.
Sapersi inquieto e alla pazzia simile,
se nel mio senno a cercar dimora
ferocemente pungono
i tuoi commossi lamenti,
come il rossastro picchio
che deciso a trovar riparo
percuote un intristito fusto.
Attorno alla tua crudele pena,
anelante il tuo sguardo conquistavo,
ed in mezzo a cento occhi,
arresi per la sorte,
io e te vedemmo la sorella morte.
Da nostalgici fulmini
fui accecato e fuggii
e pianti seminai
nelle aride valli dell’anima mia.
Quanta strada il mio cuore
quel giorno fece
per tornare al tuo.
Quel giorno lì
La bocca ha nascosto le parole
e le hai cercate nei miei occhi,
ma ho abbassato lo sguardo
per nasconderti le lacrime.
Se avessi poggiato
il tuo stanco viso
sul mio caldo petto
avrei cancellato
l’echeggiare del mio cuore.
I fiori nel mio zaino
Tiro fuori dal mio zaino
ciò che vado ad elencarvi:
un libro sulla scienza spirituale,
le poesie d’amore
di Gustavo Adolfo Bécquer,
“Foglie d’erba” di Walter Witman
(quello di “Capitano, o mio capitano”),
Siddharta, di Hermann Hesse,
appunti sulle grandi religioni,
le poesie di Pablo Neruda,
il “Cammino semplice” di Madre Teresa,
il “Cammino verso Dio” di Gandhi,
le massime di Confucio,
quadernoni di appunti
sulla fisiologia umana, musica,
filosofia, alimentazione vegana,
tre miei diari del 2015, 2016, 2017,
un quaderno a quadretti
con un centinaio di mie poesie,
un non precisato numero di fogli
sui quali annoto un po’ di tutto,
ma soprattutto un libro
che custodisco gelosamente,
di tre poeti meravigliosi,
che cantavano dalle Ande
la giustizia, le speranze e la verità
della vita.
Per questo sono stati
selvaggiamente strappati
alla loro giovinezza e giustiziati.
Roque Dalton, Javier Heraud
e Francisco Urondo,
questi i loro nomi.
Vi prego di non dimenticarli.