La bellezza non è che il disvelamento di una tenebra caduta
e della luce che ne è venuta fuori. (Alda Merini)
I
Un attimo e – tump! – eccomi in fondo.
Vi fui gettata? O mi sono lanciata?
Stavolta non ricordo com’è andata.
Non ricordo gli eventi accidenti!
Ma non importa. Ero quasi morta.
C’è solo buio e silenzio tra queste mura
e un sentore famigliare nell’odore.
Sei sempre tu vero? Sei tu Paura il nome di questa sciagura.
Le mie unghie sanguinano e fanno male
- mi aggrappo a un modo per tornare -
Un piccolo appoggio basterebbe – faccio leva col piede.
ma il fango cede – scivolo sulla mia fede –
Stringo gli occhi – scure fessure – m’avviluppo nel buiore
abitato d’ombre e terrore
Incessante il giorno chiama – ne odo l’eco
per un attimo ci credo – mi posso salvare -
luce troppo debole per arrivare.
Che ore sono? – non lo so neppure – mi accorgo che è notte
quando il corpo inizia a tremare
e non c’è nulla con cui mi possa coprire.
Non ha via d’uscita questa mia ferita.
Mi aggrappo ai fantasmi di una memoria inesaudita.
Dove sono finita? Eppure qui sono già stata. Come ne sono uscita?
Non verrà nessuno in mio soccorso – ogni grido è inutile sforzo.
Nessuno sa dove sono – in fondo – nessuno l’ha mai saputo.
Non so come fare. Devo capire se me la posso cavare.
Non ne sono capace – che altro dire.
Sto immobile – accovacciata nella mia Galera
e penso ogni sera: forse questo è il mio posto.
Non ne sono fiera – io non sono un Guerriera –
Poi lascio che Notte sia, sperando
che il freddo – questa volta – mi porti via.
Finalmente.
II
Uno schiavo – con la paura dell’acqua.
Rema – è il compito che gli hanno affidato.
Rema – non può mutare il Destino che gli è stato dato.
Rema – con fatica – e trema
prigioniero di quest’anatema.
Qual è il suo ruolo in questa Trama?
E’ l’Enigma del suo Teorema.
Ogni gesto è antico e sapiente, è asciutto e paziente.
E’ un nocchiero scelto d’altronde,
ignaro del perché – come fosse importante.
Tutti gli consegnano una moneta.
E’ il prezzo per attraversare e raggiungere la meta.
Trasporta corpi contorti con anime sgraziate dentro.
Alcune straziate, altre solo stanche ma quasi mai spezzate.
Rema – sulla sua schiena tutti gli sguardi
Rema – occhi che lo trapassano come dardi
Rema – mentre sa di non essere visto.
Ci si abitua anche al non esisto.
Tutti immersi nel proprio dolore – ignorano
che il suo ha lo stesso sapore –
Non sanno neppure – che sarà lui l’ultimo
custode di ciò che hanno nel cuore.
E se ogni viaggio è uguale – Lui sa – che
diverse sono le grida che ode per ore
diversi i volti stretti tra quelle mani nude
incapaci di coprire le proprie anime mute,
Nuovi sono gli occhi che ogni volta incrocia,
nuove le parole che sente,
nuova è sempre la disperazione,
seppur da mille anni ne è Testimone.
Il suo cuore sanguina senza interruzione.
Sempre nuovo – ogni volta differente – il male che sente.
Rema – mentre di tutto quanto accade nessuno è cosciente.
Dedicato a tutti voi che non mi avete riconosciuto.
Perché
Io sono Caronte.
III
Salite dunque!
Su salite! Sono già le cinque, è ora di andare.
Non potete più aspettare. Non c’è scampo è finito il tempo,
l’avete lasciato scorrere senza mai tenerlo in grembo.
Ora è tardi per indugiare sull’amore
che avete lasciato andare. Incoscienti ostaggi
di una paura ancestrale. Su! Forza salite!
E’ il momento di fare i conti con i mostri che nutrite.
Innanzi c’è una madre, che la guerra ha svuotato di ogni giorno lieto
Non vuole partire, anche se teme questo luogo cupo.
Non vedi in cuor tuo? Non c’è nessuno qui che possa darti aiuto.
C’è sua sorella sì, che le tiene la mano, la tira indietro
per non lasciarla andare. La solitudine fa male.
C’è un padre spento, che la gioia d’amare
sotto la cenere ha lasciato morire. Un tempo sorrideva
ma credo non ne abbia più memoria – è un’altra storia.
C’è un nonno, arido e materiale, capostipite bestiale,
di una famiglia particolare – senza parole – solo cose da fare.
Non c’era tempo per sentire – ti dovresti vergognare!
a perdere tempo in sguardi d’amore – c’è gente che muore nelle ciminiere!
C’è l’altro nonno pure, che s’inginocchia a terra e non si cura di sé.
Prega Dio per ciò che sarà poi – per tutti, ma non per lui.
Non credo lo prenderò con noi. Non è il suo Luogo questo
(tra i miei compiti c’è capire di ognuno qual’è il posto).
Su salite. Devo portarvi di là. Dove voi non andreste mai.
E’ tardi. Mi hanno incaricato d’ agire
per quello che nella vita non aveste il coraggio di fare.
Lo farò io. Attraversare.
Salgono in fila, senza speranza. In quel silenzio
che li avvolge da un’intera esistenza.
Il silenzio sulle cose.
Il silenzio sui segreti.
Il silenzio sull’amore.
Un silenzio di fatti e parole.
Voci sopite di anime stordite. Per questo non sanno.
– ciò che accade dove sono dove vanno –
Il silenzio di quel vuoto s’acquatta sulla chiatta.
Senza me non sareste mai partiti. Siete fermi da una vita.
Sì lo farò io. Vi porterò di là.
Farò quella fatica che a voi non è riuscita
Spostarvi dall’immobilità
dai rifugi in cui ancora vi nascondete
perché una bomba non vi colpisca,
dalle stalle in cui foste sfollati
e da cui non siete mai scappati
dal cibo – che non è riuscito a nutrirvi -
e dal freddo che avete patito – fino a congelavi.
Ora è tutto finito.
Salite, su. E’ ora di partire. Si va.
Stacco gli ormeggi – restate muti.
Adesso non si può tornare indietro.
Siete fottuti.
IV
E’ stretto questo spazio. Bisogna essere cauti.
Ma la barca non si rovescerà.
E’ ancora saldo il fasciame
di questo mio piccolo Reame.
Oggi il fiume è gonfio da straripare,
sarà un difficile navigare.
Stringetevi – dovete starci tutti
non ho intenzione di dimenticare
qualcuno per cui dovrei tornare.
E statemi alla larga! Lasciatemi lo spazio per agire!
Devo mollare gli ormeggi e lasciare queste sponde.
Inutile frignare. Già solchiamo le onde.
La moneta è data e non sarà rimborsata!
Non dovevate generare prole
per non lasciar traccia di quelle parole
che si rannicchiano nelle vostre gole.
Di tutto quel non detto che ora vi duole.
Avreste potuto attaccarvi a un ramo,
darvi la mano e tutti insieme fare un cordone
per scendere in acqua piano piano.
Solo pensandolo sareste andati lontano.
Ma avete deciso di restare a guardare
chi per primo aveva il coraggio d’attraversare.
E s’è fatta notte nell’aspettare.
Per questo sono qui. Siete il mio carico
di merda da spalare . E’ per voi che
sono schiavo di queste acque profonde
in cui non faccio che andare e venire.
Anche se- lo devo dire-
a ogni ritorno remo più lentamente
ascolto il legno sui calli nella mano,
la chiglia che fende l’acqua silente
lo scalmo d’ottone che fa un rumore strano
e i miei ricordi che riemergono piano piano.
Ascolto Me – che mi sposto pur stando fermo- e vado sempre più lontano.
Così – nella solitudine del mio buiore
rallento perché si allarghino le ore – unico spazio
che sa lenire le increspature del mio cuore.
Questa barca è la mia casa. Qui ho ogni cosa.
Non mi serve altro.
E’ nell’Amore con cui mi ostino a remigare
l’approdo sicuro del dolore che mi lacera le ore.
Così lascio a riva silenzi e parole.
Ho bisogno di fermarmi. Ma sento
che non è ancora l’ora. Prima o poi però
questo resistere avrà fine – lo so-
Sì, sono schiavo, ma della mia barca
sono l’unico padrone.
Questo è il mio Regno,
la mia casa la mia terra
sopravvissuta a ogni vostra guerra.
Mi avete gettato qui e detto di vogare.
Ma solo io so come lo devo fare.
E chi sale sul mio banco non può far altro che pagare
per qualcosa che solo io gli posso dare.
Attraversare.
V
Che luogo è questo vi chiedete?
Perché invece non mi domandate dove andate?
Questo è il mio regno, io abito qui.
Benvenuti nel Buiore – mio unico calore
quello che si può vedere solo dalle asole del cuore.
Quello che non vi siete mai degnati di osservare
perché per farlo serve un coraggio
che non sia solo dichiarato, ma vero e saggio.
Già, voi pensavate di averlo, ma io
– invisibile straccione –
sono l’unico qui a possederlo.
Non sto qui in piedi infatti ? Una gamba sul fondo
e una poggiata alla frisata – sono più forte ad ogni vogata –
Sono il solo eretto vedete? Mentre voi accasciati sui sedili
vi fate trascinare lacrimosi e ostili.
Che paura avete anche solo a immaginare
cosa sia l’attraversare. Tristi creature.
Zavorra siete – di questo schiavo – Caronte
che impietosito non si volta – guarda solo l’orizzonte
incredulo della vostra ignoranza – è indecente –
aver confuso la vita con morte apparente.
I miei occhi sono grandi buchi neri
sul fondo han prati e fiori dai mille colori.
Non vi guardo se posso – il mio sorriso non ha denti
ma la mia bocca può ingoiarvi – state attenti!
Scorgo più io in quest’oscuro iato interiore
di quanto abbiate fatto voi alla luce del sole.
Nei miei anfratti vi perdereste
come è certo tra le pieghe del mio cuore,
che solo per pietà ho premura di non mostrare.
A voi basta il chiarore della lanterna che sta a prua – lo vedo.
Quella che illumina più in là di qualche metro – mi chiedo:
non si vede neppure il nostro approdo
come fate a non chiedervi
qual è la fine di questo gioco?
Vi tranquillizza anzi non sapere dove faremo sosta.
Non lo fate apposta – è una generazione così la vostra
che oltre qualche metro non sa andare
perché da tempo ha smesso di sognare
o – se lo fa – ha imparato subito a dimenticare.
Io non ho nulla.
Non una casa, non ho denaro.
Non ho qualcuno a cui tornare.
Ho solo pensieri da pensare.
Ho sogni ospitati nel fondo delle mie orbite nere.
Ho il mio remo – cui mi aggrappo tutte le sere,
e per qualche misero miglio
ho la vostra compagnia
– eppure – vi amo anche se so che andrete via.
Vi amo il tempo di un guado
che è più di quanto abbiate fatto voi
per il lungo periodo che vi è stato dato.
Già, questo è il mio regno, e io sono qui
– davanti a voi –
mentre guardate il lume a prua
ingannando il tempo con qualche bugia.
Crono non si fa fregare- ve lo posso assicurare
Siete qui per capire che la vita era nei sogni da sognare
– era quello l’attraversare –
Devo trovare il modo per entrare
io stesso nelle mie orbite buie
e andarmene da qui senza farmi notare –
(non è difficile per chi è solo un’ombra lunare).
E lasciarvi – soli – in queste acque scure.
Se vuoi attraversare rema – fallo che ci riesci!
Gli altri siano solo cibo per i pesci.
VI
Il viaggio è lungo più di quanto pensavate.
Tre giorni avete per di giungere nell’Ade
Non vi appisolate – forse così scoprirete
che non importa da dove partite né dove arriviate
solo quel che è in mezzo – il punto in cui vi ritrovate.
‘Tu ci traghetti solamente’– so che pensate –
invece sono qui per di liberarvi – ottusi codardi.
Questo è il viaggio in cui vi obbligo a guardarvi
ovunque vi giriate vi rammento la domanda:
i miei occhi son specchio che a voi stessi vi rimanda.
C’è solo una porta e manca l’uscita.
E’ fatta stavolta! Voi non l’avete costruita.
Ciò che vi ha sempre spaventato ora è l’ unico alleato.
La sola scelta è rivivere la vostra vita.
Ancora credete che questa sia la barca della Morte?
La rinascita è alle porte – ma solo per chi
si butterà prima di giungere di là.
Io sto qui – in piedi – impugno con la pertica
e colpisco alla nuca chiunque tenti la fuga.
Questo è il luogo della verità,
due metri per uno
come la buca che avete lasciato di là.
Più i giorni passano.
Più cominciate a capire.
Dovreste gioire e non tentare di scappare.
Ancora e ancora. Allora?
E’ ancora lunga questa tiritera?
Urla grida e lacrime interrompono il silenzio
ma non serve –qui non esiste alcun Assenzio.
VII
Perché lo fai? Tu hai il potere di perdonare
se vuoi puoi lasciarci andare.
Non ci devi per forza traghettare.
Per te siamo solo bestie che vanno al macello
Sai fare solo quello? Schiavo! Potevi rifiutare
Potevi dire no- non voglio proseguire!
Potevi anche tu decidere di scappare.
C’è sempre una scelta non lo dimenticare.
Tra noi e te hai eretto una Diga,
ma sei il nostro carnefice – checché tu ne dica.
Non riesci neppure a guardarci.
Per la vergogna ci dai le spalle
è orribile il tuo lavoro – per questo sei rimasto solo.
Le ossa paiono bucarti la pelle
grottesche cercano la luce come fossero pupille.
Sei così magro che non ti reggi in piedi.
Bianco ed emaciato eppure non ti siedi.
Sei vivo o sei morto?
Non sappiamo perché sei qui,
ma di sicuro hai fatto un torto,
qualcosa di riprovevole – non saresti
in questo antro se fossi incolpevole.
Te lo sarai meritato!
Grottesco inganno sei – alle Ombre abituato –
in fondo anche tu te lo ripeti
da quando sei nato. Per questo ti senti giudicato.
Sei un deviato, un menomato
per questo sei stato abbandonato.
Manchi di qualcosa
che non si trova qui ma nel tuo Vuoto.
Cosa mai volevi fare nella vita?
Ci sei riuscito? Guarda che bel risultato.
Sei uno schiavo e l’hai accettato.
Ci snobbi e non ci guardi
perché temi i nostri sguardi.
Noi almeno abbiamo vissuto –
basta non cercare una ragione
e non aggrapparsi alla propria ispirazione
Siamo più forti di te. L’hai sempre saputo.
Sguardo basso – cammino segnato.
È così che ogni buca abbiamo evitato
– anche ogni cosa bella invero –
ma la felicità è solo un buco nero
non è fatta per esistere davvero.
Beh? Ognuno di noi è sopravvissuto
alla vita in cui l’ avevano gettato.
Sei proprio uno sciocco a insistere a remare.
Tutta questa fatica per mai arrivare.
Avanti e indietro tutto il giorno
senza che nulla ti resti
se non quelle monete – che detesti si vede.
Ne tieni sempre una sul palmo della mano
e la guardi – a lungo – come se potesse darti consiglio.
Puoi continuare a fissarla all’infinito
un Talento non parla.
Non l’hai ancora capito?
VIII
Ne ho le tasche così piene sapeste,
di queste monete che mi date.
Sono solo una zavorra in più
da trasportare, non c’è nulla che voglio
che mi possano comprare. Alcuni momenti mi chiedo
qual è il senso di questo errare. Da una riva
all’altra senza mai vedere il mare.
L’unico oceano che ho visto è in qualche gentile
gesto – inaspettato per un malcapitato
in rari sguardi rubati di nascosto
che raccontano di sacrificati sogni
e radure smarrite nel fitto del bosco.
Siete ancora vivi eppure – che stupore –
Lo siete nonostante il terrore di essere
ciò che ripete l’eco ossessivo nelle vostre teste .
Lampi bagliori tramonti e tempeste
ognuno di voi mi ha regalato
senza che ve ne accorgeste.
Ho visto più vita io su questa barca
che tutti voi nelle strade di città affollate.
Perché io sono diverso. E’ vero.
Lo sono sempre stato – da quando son nato.
Ho sempre saputo che per me c’era
qualcosa che sarebbe accaduto.
Remo da mille anni mi pare.
Non è ancora successo – ma sta per arrivare.
Non son riuscito a smarrire la speranza
neppure quaggiù – solo – a questa Distanza.
Voi guardate la luce fioca della lanterna
io ascolto questo Talento
che mi parla con la sua voce eterna.
Voi aspettate qualcosa che non sapete
solo quando avvisteremo terra forse comprenderete.
Io invece credo in qualcosa che so
anche se ancora lo non conosco
- che sento nascosto nel mio sottobosco -
e mi porterà via da questo posto.
In fondo siamo uguali
voi che scappate – io che remo.
Insieme attraversiamo.
Non ci avevo mai pensato.
Pensavo foste il carico e io il trasportatore.
Ma io pure son trasportato.
In fondo
come voi – un condannato.
IX
Chi sono io?
Da quanto tempo ve lo chiedo?
Uno schiavo con la Memoria dell’Acqua.
Solo io posso rispondere al quesito
in cui finora avete sempre fallito.
Non sono un Angelo.
E neppure un peccatore.
Ho sempre creduto di essere un Errore.
Qualcuno da aggiustare
venuto a guastare le vostre vite intere
con il zig zag delle cose vere che non ha mai
la forma perfetta delle sfere.
Mi avevate convinto che ciò che si sogna
è vana speranza – non ha importanza.
Eppure in me – tutto ciò che era mancanza
ha trovato una via d’uscita.
Da sé. Tutto in una caduta.
Grazie per non avermi riconosciuto
di tutto quel dolore che mi ha cresciuto
origine della forza che mi ha risvegliato.
Mi son sentito abbandonato – è vero –
Vi ho sempre giudicato.
Considerato la causa del mio stato.
Se solo ci aveste provato.
Se aveste colto quel momento
in cui il fiume vi dava meno sgomento
avreste attraversato senza alcun patimento,
liberi da ciò che ora vi sta sbigottendo.
Nessuno vi avrebbe traghettato.
Non io almeno. E io non sarei qui.
Io qui non avrei abitato.
Se solo mi aveste davvero visto.
Anche solo una volta.
E riconosciuto.
Se solo mi aveste abbracciato
avrei sentito nel petto il battito del cuore
quel rombo così forte che si chiama Amore.
Non sarei mai caduto in questo pozzo
nel fondo dei miei occhi da cui non so tornare.
Ma neppure ai miei Regni fantastici
avrei dato vita – allora sì sarebbe finita.
Allora davvero sarei come voi.
Questo Talento che stringo mi brucia la mano,
ma non riesco a lasciarlo andare
perché quello sì sarebbe scappare.
Anche se per udire quanto ha da dire
ci volessero ancora ere,
resterò qui remando ad ascoltarlo.
Perché è l’unico che ha per me
le parole giuste per farlo.
X
Quando arrivai
non riuscivo a capire dove fossi.
Non capivo cosa mi si chiedeva
non capivo cosa dovevo fare
figuriamoci poi come fare ad uscire.
Ho perso giorni e giorni per abituarmi a quanto chiesto.
Rema così – non fare quello, non fare questo-
Devi imparare questo mestiere perché
la vita è terra solo pioggia e sofferenza
e non ce la potrai fare se non impari a faticare.
Continuavo a non capire:
poi ho studiato un modo per avanzare
che non fosse solo faticare e faticare
quanto invece un nuovo modo di pensare.
Inventai un modo per far viaggiare la barca senza dondolare
perché le assi smettessero di cigolare
fino a diventare il nocchiero più abile di questo cimitero.
Ora galleggio senza timore,
riesco a remare giorni interi senza mai rallentare
ho imparato a resistere più che a faticare.
Dovrei essere più felice, ho raggiunto lo scopo.
Porto a termine il compito che mi hanno dato.
Perfettamente eseguito.
Ma non per questo sono nato.
Questo non l’ho mai dimenticato.
Per mille anni le mie abilità ho affinato
e ora che ogni gesto è perfetto
io ancora non mi sento intatto.
Si allunga il fiato.
Si diventa forti.
Si prende più sicurezza.
Finchè te la fai da solo quella carezza.
Quella che hai sempre aspettato e non è mai arrivata.
Qualcosa è cambiato.
Chi sono io?
Sono uno schiavo – con la Memoria dell’Acqua.
Non temo più quel buiore che fu l’inizio del terrore.
Ora sono cieco ma vedo anche nel nero più profondo
come se il mio vitreo si fosse adattato ad altre lunghezze d’onda.
Mi muovo lesto sulla barca
con movimenti certi ed esperti
Sono pelle ossa ma sotto questi sporchi stracci
ho gambe forti e braccia pronte per gli abbracci.
Sembro più morto che vivo
ma sotto la palandrana c’è qualcosa che batte più forte
della paura che ha fermato il tempo in quest’inquadratura.
Scandisce da anni il ritmo dei miei gesti.
È il suono della mietitura
delle rondini in arrivo delle api in fermento
delle more stese al sole dell’uva da raccogliere che è matura.
È il battito del mio cuore
che pulsa senza la vostra approvazione.
Canta da solo – forte – senza interruzione.
Questo Talento è inutile da tenere in mano
non ha più senso stare a fissarlo affascinato
so che vorreste non avermelo dato
che vi siete pentiti di avermelo consegnato.
Gnam!
Ora l’ho ingoiato. Non potrete più prenderlo indietro.
Ora non lo potrò più stringere né guardare.
Ma ormai non serve.
Oggi ho sentito cosa mi doveva dire.
XI
Da ore fisso l’orizzonte
quello che finora mi abitava solo nella mente.
E’ in fondo al fiume.
Dove non credevo ci fosse niente
invece vedo il Mare e le sue onde.
E’ lo stesso che lambiva miei pensieri oscuri
invito a viaggi straordinari
condottiero di un grande veliero.
Io ho una piccola Barca – potrei farcela –
o inabissarmi e incontrare il Monarca
– in un’orca la mia forca –
All’improvviso mi fermo. Mi guardo.
Ho lasciato il remo.
Ho smesso di pagaiare.
Ho lasciato il remo.
Sono libero di andare.
Adesso so.
La mia prigionia era solo mentale.
Mi guardate attoniti
perché avete capito cosa sto per fare!
Ho lasciato il remo.
Adesso so.
Sono io che dovevo attraversare
a voi spettava solo accompagnare.
Illuso! Ho vissuto finora certo di sapere
che del mio tempo foste l’unico banchiere.
Che remare fosse il mio destino, che cretino.
Adesso anch’io vi posso guardare.
Posso sedermi con voi e riposare.
Ehi tu! A poppa! Ruota il timone a Est!
Cambiamo rotta! Scegliamo la deriva.
La corrente è più forte della mano.
Remarle contro è un esercizio vano
e il mio via vai superstizione da profano.
Potete smettere di tremare perché ora ho compreso.
Ci dirigiamo al mare!
Queste che vedete non sono lacrime amare
oceani pieni di sale che ho rischiato di seccare.
Nei miei buchi neri nessuna goccia è andata persa
– la mia anima ne era sommersa –
Adesso so.
Attraversare è lasciarmi andare.
Smettere di resistere a quella voce interiore
seguire quello che ha da dire.
Ora posso riposare. Addormentarmi per ore e ore.
Al nostro risveglio saremo alla foce.
Il mattino c’inonderà di luce
trovandoci abbracciati a quell’aurora certa
che non va cercata – può solo esser scoperta.
Forza, assopiamoci sognanti,
che la corrente ci conduca – tutti quanti –
verso il mare o qualsiasi altra cosa innanzi.
Anche stavolta non saprò il perché.
Ma qualcosa ora so. Che c’è.
Il mio buiore ha sempre detto
che è nel Sole.
E’ ora. Andiamo.
Prendete Caronte per mano.
Ci siamo.
Finalmente.
BRANI TRATTI DAL LIBRO
“ Il corpo narrante” di Roberta Franchi Carocci ed. 2015
Filosofia e poesia ci fanno accedere a uno spazio in cui di nuovo “poter nascere” nella propria sfericità, come intero dato da un frantumato, permanendo identici ma al tempo stesso diversi. È cambiare di prospettiva e accogliere sé stessi non più come un esistente la cui caratteristica sta nell’apertura al mondo, ma giacché quell’apertura si scopre rivelativa del nostro essere. (p.218)
La poesia è l’incarnarsi del sentire nella parola, è ciò che crea intimità e profonda connessione tra parola e cosa fino a far divenire la cosa quello che la parola dice, e la parola espressione della cosa che nomina; nella poesia il «sentimento della cosa» (Zambrano, 1939) trova spazio nella parola che si fa “corpo d’amore” e non più solo nome, dando origine a quella che Zambrano chiama “erotica della cosa”. (p.219)
La poesia è parola del sentire che «diffida dei discorsi» (Bachelard, 1966), è incontro, mistero, dono, scoperta venuta dal cielo. (p.217)
Poesia e filosofia inseguono in modo diverso una visione realistica del mondo, anzi eleggono il reale a forma assoluta di conoscenza. Entrambe, col loro “sguardo ammirato”, non tentano di ridurre la realtà a qualcosa di diverso da sé; entrambe, innamorate del materialismo del mondo e dell’uomo, riescono a trascenderlo, o per meglio dire, ad ascenderlo, attraverso l’amore e la passione prodotti dalle cose stesse. Filosofia e poesia diventano così pensiero che sgorga dalla vita e, pur nel loro metafisico immergersi e andare oltre, non sono mai una vera e propria astrazione poiché il pensare accade sempre in un corpo materiale, grazie al quale si esiste e si è partecipi alla vita. (p.220)
Solo restando in ascolto dei vuoti che contengono i nostri desideri potremo produrre sullo specchio quelle scalfitture che impediscano il rimando della nostra immagine, quel riflesso senza sguardo, in cui l’espressione che ritorna è una distorsione della mia vera espressione, «un cerchio mancato, dove l’intenzione percettiva si confonde con la convenzione della percezione» (Galimberti, 1984). Solo così potremo finalmente orientarci a una diversa e più vera consapevolezza di noi stessi. (p.16)
Un’unicità che richiede un sacrificio, a noi stessi, non senza patimento e sofferenza, poiché allontanandosi dal proprio mondo abituale, «si genera nell’Io l’angoscia di uno spazio non egologico» (Galimberti, 1984). Un sacrificio necessario, che ci riconsegna però alla nostra totalità, comprensiva di sogni e desideri, pieni e vuoti: un percorso in salita e una sua caduta senza freni nel circolare eterno. Salite in cima alle quali guardare tramonti e nuove albe, meditando, nel silenzio degli spazi interiori, sulla fragilità della nostra avventurosa esistenza, che nella rinascita incomincia a vivere. (p.233)
Rinascere è una seconda nascita, non data da altri come la prima, ma autodeterminata da quell’“essere che grida in silenzio per essere letto diversamente”. È una scelta. Rinascere è un nuovo «nascere che è ritorno alla vera identità cui tendiamo, benché senza averla mai posseduta» (Mancini, 2007). Nulla è davvero vivo se non conosce rinascita. Rinascere è dischiudersi al mondo, uscire all’aperto non per sfuggirlo o patirlo, ma per attraversarlo col passo del poeta i cui occhi6 vedono anche se chiusi, e con la lanterna del filosofo che lo scandaglia con la mente. Rinascere è stare sospesi a quel filo sorridendo. È fluttuare sull’aperto e comprendere che la meraviglia sta tutta nel rischio di cadere. ( p.234)
L’Altro è una spinta propulsiva verso l’espansione. La stessa propulsione che, nelle geometrie del passo di corsa analizzate dalla cinematica, segue la fase di sostegno. Un pilastro che tanto ricorda Skambha, l’ordine cosmico dei Veda, il sostegno, la colonna, la base invisibile e trascendente su cui poggia la vita e che ci consente di esperire quelle che Foucault chiama arti dell’esistenza, «quelle pratiche attraverso le quali gli uomini cercano essi stessi di trasformarsi, modificarsi nella loro essenza singola, di fare della loro vita un’opera che esprima certi valori estetici e risponda a determinati criteri di stile» (Foucault, 1976). L’arte in cui trovo e riconosco la mia soggettiva centricità. «L’altro, come capostipite dell’ordine degli esistenti, è indispensabile alla affermazione, alla realizzazione e alla mia libertà. Perché quando scelgo di farmi nella lotta e scendere in campo, in situazione, esercito quella libertà che si fa, non in quanto esiste, ma esercitandosi a negare». (Sartre, 1972). (p.38)
Solo con un profondo ascolto del cuore potremo avviarci al recupero della parola […] Solo attraverso il parlare-ascoltare autentico e reciproco si può avere accesso al vero dialogos. Il dialogo è lo spazio in cui leggere i segni e i significati soggettivi delle parole e com-prendere il parlante/ascoltatore. Dialogare non è mettersi in una comunicazione di tipo espositivo, caratterizzata dalle teorie che il parlante ha lungamente meditato ben assestandole nella sua mente, ma esporsi a un vero e rischioso evento comunicativo, ad alta interattività, in cui vige una regola di base profondamente diversa: quella secondo cui l’improvvisazione è ammessa, costituisce anzi la norma essenziale. L’improvvisazione, infatti, consente all’interlocutore di esprimersi senza sovraccaricare il proprio linguaggio di sovrastrutture estrinseche, adottando un linguaggio intrinseco che parla per ciò che dice e si espone così a un’evidenza per cui disvela, illumina quanto celato, fa apparire ciò che era invisibile porgendolo all’occhio del mondo. (p.210)
Ogni atto che tenda alla verità deve nascere da un desiderio che si fa consapevole intenzione. È sempre il risultato di una négativité, che risveglia una forza immaginativa in grado di mutare la propria originaria mancanza in possibilità e apertura. (p.10)
L’errare è un procedere esplorante che nell’avanzare non raccoglie solo la rassicurante risposta, l’evidenza, il dimostrabile, il risultato performante, ma anche e soprattutto tiene con sé l’irrisolto, il frammentato, l’interrotto, il multiforme, per restituircelo come a noi appartenente. Come ha scritto Thomas S. Eliot: «Noi non cesseremo di esplorare / e alla fine di tutto il nostro esplorare /giungeremo là da dove partimmo / e conosceremo quel luogo per la prima volta». È un orientamento che ci qualifica come veri e propri viaggiatori che, a differenza dei turisti che viaggiano sapendo di tornare, partono senza una meta prescritta e pre-ordinata, sentendo di non appartenere ad alcun luogo in particolare, spostandosi lentamente da un punto all’altro della terra, per anni, sul cammino diretto della ri-memorazione di sé. L’erranza è un procedere consapevole dell’inafferrabilità dell’origine, che “eppur ci muove”. La parola erranza deriva dal latino errare e indica il vagare, l’andare in giro, talora senza meta o verso mete lontane e ancora incerte. Ma errare oltre a “vagare” traduce anche “sbagliare, deviare”, il commettere quegli errori che derivano dal camminare da sé senza seguire una linea retta prestabilita, diventando proprio per questo parte integrante e formativa dell’esperienza vissuta; errori indispensabili per perseguire una vita autentica che segua l’anelito, il desiderio, la curiosità, l’effort di superarsi, con la mente e con il corpo, al di là dei i confini del proprio territorio noto. (p.230)
Per Bachelard (ibid.): «Quando la rêverie ha una tale tonalità non è più semplice idealizzazione della vita, ma un’opera di psicologia creativa» e l’uomo è «un essere per immaginare. Che cosa altro mai potremmo conoscere se non lo immaginassimo? ». Tutte le idealizzazioni che sdoppiano la vita, che la trascinano verso i suoi vertici, sono possibili solo se si resta disponibili a tale sdoppiamento. Lo slancio proprio del trascendere trova fondamento nella rêverie in grazia della disponibilità a essere altro da sé. Questa rêverie è ben lontana dal rêve, inteso solo come fantasticheria, come sogno ad occhi aperti; è invece un pensare poetico, che del sogno si nutre e che, attraverso l’immaginare, apre la visione comune alle possibilità del molteplice. «L’immaginazione è ciò che può meglio avvicinarsi al cuore energico dell’azione: è l’immaginazione che, mentre racconta, si accorge realmente di cosa presuppone l’agire e di quello in cui consistono progetti, trionfi e sconfitte» (Savater, 1983). (pag.48)
Il processo che porta dall’esperienza alla sua espressione performativa non è mai lineare né di senso univoco poiché ogni qualvolta l’esperienza viene esternata attraverso l’espressione, smette di essere una realtà personale per diventare subito e inevitabilmente una realtà condivisa da più soggetti in relazione. Si crea così un circolo ermeneutico che si autoalimenta: l’esperienza trova il suo completamento nella performance, e la performance a sua volta si realizza nelle condizioni offertele dall’esperienza, fornendoci i quadri astratti della percezione. (p.176)
L’ansia ontologica dell’essere di fronte al non-essere si genera qui, con la presa di coscienza della propria solitudine, della propria non-essenza. Ecco allora, secondo i Veda, che l’Uno indistinto cerca un sé stesso con cui relazionarsi e non può farlo solo col semplice divenire, ma deve prendere la decisione di essere, di uscire dal suo stato informe affermando sé stesso con tutto il proprio ardore. Esplodendo in un vero e proprio big bang. «Tad asad eva sanmano kuruta syam iti!»: possa io essere! E allora il non-essere si risolse4 ad essere. E Fu. E divenne. Divenne Manas, la Mente, o meglio, la Coscienza. Manas, negli scritti vedici, è «il primo essere emesso dal non esistente, ma al tempo stesso la sua adiacenza all’origine fa sempre dubitare alla mente di esistere» (Calasso, 2010); l’ansia ontologica, questa invincibile incertezza, questa angoscia, è peculiare della Mente. Poiché «l’esistenza precede l’essenza» (Sartre, 1943). Dunque «pensarsi precede il pensare» (Calasso, 2010). (p.33)