Roberta Restivo - Racconti

Il profumo intenso del gelsomino, che trasportato qua e la dal vento, mi batteva sul viso e rendeva l’aria inebriante e confusa.

Avevo diciassette anni, e quello

era il mio viale preferito. Non era di certo la settima strada di una città inglese, bensì un viale in periferia, formato da tante villette colorate e con strutture differenti;

Da una di queste, per l’appunto, fuoriusciva un cespuglio di gelsomino, e mi piaceva passare da lì solo per poter riempire i polmoni di quell’odore.

Mi accorsi di quanto fosse assurdo il nostro umore, il nostro meccanismo in genere, perché passare da quel viale e soffermarmi davanti alla villetta, annusare il gelsomino mi portava alla riflessione, alla voglia d’amare, al piccolo sorriso e persino alla gentilezza.

Quella circostanza mi piacque al punto di doverla far diventare abitudine. Perciò passai spesso dal viale, possibilmente al tramonto o all’alba, periodi della giornata che evocano in me emozioni primitive e che per tale ragione non so spiegarvi.

Ciò che è primitivo diventa anche ignoto col passare degli anni; metti che non ricordi più cosa si provi ad abbracciare tuo padre che entra dalla porta di casa dopo una giornata di lavoro, o di festeggiare il compleanno assieme ai tuoi compagni di classe, anche se si tratta di emozioni che hai provato, cose che hai vissuto e di cui hai gioito,non ricorderai nel dettaglio le sensazioni, i pensieri avuti, o le reazioni; accade così.

Accadde così anche quando, a maggio, la portai a condividere il profumo intenso dei gelsomini in quel viale, all’alba di una notte passata a cercare di far pace.

Lei non voleva saperne.

Rimase contenta della passeggiata, del sole appena nato e del profumo di fiori nuovi, ma mi volle perdere comunque. Perché Elga era fatta così. Ed io ricordo che non subito accettai il suo andar via da me.

 

Quando torno, come di consueto, a fare la mia passeggiata sul viale del gelsomino, ricordo che qui imparai una bella lezione, una cosa che apprezzai e di cui feci tesoro per il resto degli anni, e cioè che bisogna lavorare sulla riservatezza, mantenere qualcosa di proprio, senza condividerlo. Anche quando si sta amando, per amare bene, bisogna scegliere un’abitudine e tenerla al sicuro.

Andare con Elga, all’alba sul viale, non mi portò a nulla, lei non apprezzò, perché non poté avvertire la profondità di quel gesto.

Ci sono cose che solo noi conosciamo, alla quale non possiamo né dobbiamo trovare una spiegazione né degli aggettivi per descrivere ragioni o stati d’animo.

Non dobbiamo spiegarlo neppure a noi stessi.

Occorre passeggiare sul viale preferito, annusando i fiori amati, nel periodo della giornata che più rende quieti.

Sfiorerete la libertà, e ne sarete cosparsi, come il vostro corpo fosse pieno di fori pronti ad ospitare una forte luce.

Luce che appartiene a voi, solo a voi.

Guai a condividere tutta la bellezza che conoscete e che col tempo fate vostra.

Mostrando solo gran parte di qualcosa, quella più piccola resterà solo a voi, e vi renderà pieni, colmerà voragini, varcherà paure, spazzerà tristezze, fortificherà pelli dapprima morbide e delicate. E non importa se avrete perso ciò che amavate; ad ogni modo avrete acquisito la cosa più importante.

In uno spazio della vostra anima, sarete sempre e comunque intoccabili.

Liberi.

Nel frattempo, mi dedicai al puro divertimento. Quella delusione adolescenziale mi fece reagire prendendo e lasciando, in breve tempo, qualsiasi ragazza conosciuta.

Ma fu così che dopo qualche anno conobbi quella che sarebbe stata la mamma di mia figlia.

Mi chiamo Loris, ho 37 anni.

Di questo momento della mia vita, vorrei raccontarvi un aneddoto, un surrogato di esperienza mista alla quotidianità.

Quando avevo vent’anni conducevo quella che per tutti i ragazzi di quella età viene definita “bella vita”.

Ho visto così tante cose che pensavo non le avrei mai ricordate così bene come le ricordo adesso.

Eppure le mattine successive alle notti in cui ero stato a letto con qualcuna, non ricordavo più nulla.

Né mi importava farlo.

Il volto di quelle ragazze,il colore dei loro occhi, l’intensità dei loro gemiti mentre ci facevo l’amore, o le carezze di circostanza, le parole dette per farle sentire belle, per il mio solito fine, non avevano forma né importanza alcuna.

Non fino a questo momento.

Oggi nasce Penelope, e dopo una notte accanto mia moglie a cercare di darle forza, ho capito che la forza più grande risiede nel loro ventre, non nel nostro che abbiamo allenato negli anni eseguendo addominali o spingendo dentro esse.

Io ero davvero il nulla, credetemi.

Ma non è questo il reale punto, non è questa la novità.

Penelope ha le mani morbide e piccolissime, e quando mi strinse il dito, sentii che addirittura era lei la più forte, anche lei, nonostante le poche ore di vita, ebbe la meglio sulla potenza del mondo.

Come ogni donna, del resto.

Ma questo so dirvelo solo adesso.

Quando scesi per pranzare, dopo aver lasciato riposare mia moglie e la piccola, pensai a tutte quelle ragazze.

Perché in loro vedevo mia figlia, perché mia figlia un giorno avrebbe potuto assumere lo stesso effimero ruolo nella classifica maschile.

Mi tremò la mente, provai rabbia ed un grandissimo senso di colpa.

Mi sono sentito vile, dopo anni, nei confronti di tutte le donne a cui non ho mai detto la verità.

Ma la novità non è neppure questa.

Quando diventi padre, quando assieme ad un’altra persona crei un’altra piccola persona, che è l’insieme delle due parti, ti senti utile, ti senti vivo ed impari il coraggio cos’è.

Pensai che quelle donne erano mia figlia, e mi sentii anche loro padre.

Per rendervi l’idea, se potessi realmente farlo, tornerei indietro e le porterei a cena fuori. Le accarezzerei senza lo sporco intento di arrivare alle loro gambe. E semmai con una di loro dovessi cedere, o dovessi farci l’amore, la mattina successiva mi farei trovare lì, magari con un fiore e con una tazza di caffè in mano.

Pronto a non sparire.

Pronto a riportarle a casa.

Pronto a dir loro che è stato bello, e che anche se per una sola notte, sono state una più unica dell’altra.

Insomma, perlomeno mi comporterei meglio.

Perlomeno mi comporterei come l’uomo che vorrei desse attenzioni alla mia bambina. Uno di quelli che vedi all’interno delle commedie inglesi, quelle commedie che illudono le menti femminili, facendo credere che esiste davvero quel genere di uomo. Bastardo all’inizio, ma poi una volta innamorato, premuroso.

Quanto vorrei poter dire a mia figlia che esiste quell’uomo. Quanto vorrei poterlo dire anche di me. Quanto vorrei lei non passasse mai i pomeriggi con le amiche a guardare quei film, e credetemi ancora una volta, quanto non vorrei doverla disilludere dicendole di non crederci mai.

Come si fa?

Come si fa ad essere un buon padre non avendo vestito il ruolo del bravo ragazzo?

Ma tornando ad oggi, mi resi conto che anche quello non bastò a colmare l’odio provato per me stesso.

Non bastò a farmi passare la paura che Penelope, un giorno, potesse incontrare qualcuno che facendo l’amore con lei, non si comportasse bene.

Non bastava. Non mi bastava immaginare che qualcuno potesse trattarla bene prima, durante e dopo.

Nessuno, ad ogni modo, avrebbe dovuto sfiorarla per poi non tenerla con sé sempre.

Perché mia figlia lo merita, lo vedo già dai suoi occhi.

E quello che ho capito è che per ogni padre che diventa ad un certo punto tale, è così.

Quindi se proprio potessi tornare indietro, imparerei ad amare ogni donna. Anche solo dopo il primo secondo, anche solo per una o due ore.

Perché le donne lo meritano sempre. È qualcosa di imprescindibile.

La novità è che adesso so questo.

E che la vita non ti permette di tornare indietro per rimediare a qualcosa.

L’unica cosa da fare è cambiare successivamente.

E non importa come o quando si diventa belli dentro, come lo sono per metà, adesso io.

So solo che gli occhi di una bambina, che è la tua, ti mostrano l’oceano di bellezza che avresti potuto dare e che dovrai dare, andando avanti, sapendo comunque, che questo non ti renderà mai l’uomo bello dentro che avresti dovuto essere.

Perché noi non siamo come le donne.

Loro nascono già con qualcosa di bello, che un giorno, all’improvviso, andrà a finire nelle mani di un qualsiasi uomo, e quel qualsiasi uomo, dal paleolitico ad oggi, non è, non sarà mai degno della donna che conoscerà. Neppure quando penserà di starla amando.

Noi non siamo loro, non sappiamo amare bene come loro.

L’unica cosa che ci salva è che ameremo le nostre figlie più di quanto abbiamo creduto di amare le loro madri.

Questo è quello che ho compreso oggi.

Questa è la novità alla quale sono giunto.

Grazie Penelope.

Tuo padre è uno stronzo, che nella sua vita, ha imparato ad amare oggi, partendo da te.

 

In ogni caso ho un’amica, Stephanie.

Anche lei ha contribuito a cambiare il mio modo di osservare le donne e di apprezzarle.

Abbiamo un rapporto quasi fraterno, le sono vicino e conosco tutto ciò che le riguarda.

Esiste una grazia semplice abbinata alle donne che, quando presiede in loro,

Le agita,

Le veste,

Le sveste,

Quando le ricopre, impazzisco.

È raro al giorno d’oggi che un uomo vada pazzo di un’idea o un concetto, una forma, un velo, un dettaglio, una cosa prettamente spirituale.

Sebbene la grazia non possa essere toccata ma percepita, io la preferisco di gran lunga al resto.

Preferisco il modo al gesto.

Per esempio, una donna dirimpetto a me può anche muovere le mani e fumare una sigaretta, accavallare le gambe o sgranare gli occhi, ma se lo fa senza un modo ben preciso, se lo fa senza quella “grazia semplice” che intendo, non riesco a stare dietro un suo discorso; potesse trattarsi di qualcosa estremamente interessante, beh non mi intriga, non mi interroga, non suscita e non scuote.

Stephanie, ecco lei, possiede la grazia semplice.

Secondo me è proprio questo che suscita invidia alle donne che le stanno vicino.

Perché loro non si spiegano come mai lei sia tanto attraente. Allora provano ad imitarla mettendo un rossetto o vestendo in modo simile. Se potessi, se volessi, andrei da tutte loro o magari creerei proprio un evento e le inviterei, lo chiamerei: “non insistete, non inveite contro Stephanie perché semplicemente non siete lei”

Un titolo troppo lungo, sì me ne sono accorto.

Però davvero, vorrei capissero, vorrei arrivassero al nocciolo della situazione.

Stephanie non ha fatto nessun patto col diavolo né ha studiato a memoria una qualche parte né ha fatto suo l’intero cast di un film targato ‘Woody Allen’.

Lei è così. E come lei, qualche altra donna vive la sua insolita, fortunata ed a volte sfortunata realtà.

È una realtà sfortunata perché crudele; lo vedo. Lei è costretta a spiegarsi il più delle volte, mentre altre donne non devono perché  è come se le fosse concesso il libero arbitrio, perché sono povere dentro e di conseguenza  il mondo non chiede loro nulla.

Un po’ come quando il tuo reddito è sufficientemente elevato e devi comunque pagarne le conseguenza, anche se in realtà non sei ricco.

Lei, Stephanie, deve fare attenzione a come truccare gli occhi, al vestito da indossare, a come parlare alla gente.

Non solo perché è bella ed è evidente che lo sia, ma per la semplice grazia: tutta colpa della semplice grazia che l’avvolge.

A causa di quella, vi stavo accennando,

Lei non può indossare un vestito aderente che le esalta il fisico, perché criticheranno il suo modo di indossarlo, magari diranno che la sua statura minuta non le concede di indossarlo, ed affogheranno in quella scusa. Lei non può mettere colori forti agli occhi o alle labbra, o meglio, può ma deve sapere che qualcuno la troverà troppo bella, dunque rivale.

“Ha le labbra evidenti, perché mettere il rossetto? Che poi noto le sbavature”

“Gli occhi orientali, con quel tono bronzato, chissà quanto tempo ci avrà impiegato”

Questi sono i commenti femminili.

Ve lo assicuro, non ci impiega molto. Io sono suo amico, lo so. Non ha mai fatto aspettare un uomo, come tutte le donne hanno sempre fatto.

La sua vita è così. Ecco le cause.

Però c’è il grandissimo pregio nel possedere la semplice grazia: rende una donna irresistibilmente affascinante e questo non ha età.

A quelle donne che guardano e guarderanno Stephanie, vorrei poterlo spiegare così.

Quante volte i miei occhi l’hanno osservata mentre sorrideva, e tutte le volte lo stesso ideale: vederla sorridere di cose che merita. Sorridere perché qualcuno davvero crea quel sorriso e lo anima.

Invece no. Solo sorrisi casuali.

Invece sorride se passa un bambino, se qualcuno le sembra buffo, se io le sposto i capelli dal viso, se le gocciola il gelato addosso, se uno sconosciuto la saluta per strada, o se inciampa e si rialza senza prendersi troppo sul serio.

Eppure vorrei davvero “vederla bene”.

Non ho ancora avuto il piacere di conoscere un motivo che desse vita ad un sorriso vero.

Aspetto con ansia il giorno in cui mi presenterà quel motivo, e semmai non dovesse presentarmelo, non esiterei un secondo riconoscendolo o sapendo che “è arrivato”.

Come quando ci avvertono: “sta arrivando il maestrale, che sbattendo sui capelli li rende più morbidi il giorno dopo.”

Perché lei non sa,

che quando sorride,

La scruto per trovarci qualcosa di migliore

Lo scruto per vederci di più.

 

Ed eccomi a quarant’anni.

I miei capelli erano castano rame ed i miei occhi avevano un taglio orientale.

Adesso ho i capelli castano argento e gli occhi sbarrati e lucidi.

Oggi Penelope ha compiuto tre anni, anni trascorsi a portarla al mare, in montagna, a casa dei nonni, in piscina, alle feste, al bar, sotto il sole.

Ieri ho osservato a lungo mia moglie: era in bagno, la porta era semiaperta, stava togliendo la maglia beige e indossando una canotta di raso blu per la notte. La fissai e lei si accorse dopo poco, mi guardò come fossi psicopatico e mi chiese, bisbigliando, cosa volessi dirle.

In realtà volevo dirle tante cose…

Dirle che tra la lista della spesa che stila ogni giorno, il bucato, le cene affrettate, le volte in cui decidiamo chi dei due dovrà leggere la favola a Penelope, per farla addormentare;

Tra le sfuriate, i giorni in cui ci malediciamo silenziosamente, le notti in cui vorremmo sfiorarci ma non ci guardiamo nemmeno e, fianco a fianco, ci limitiamo a leggere un libro;

Ecco, in mezzo a tutte quelle cose, vorrei dirle che l’amo forte come quando partimmo in Messico, quando sostammo e ci addormentammo in macchina o in tenda.

Come quando pranzammo sfiniti in autogrill, quando avere dei soldi in tasca non importava.

Come quando si faceva l’amore sulla sabbia, di notte. Quando le aprivo la portiera della macchina al nostro primo appuntamento, le versavo il vino e le baciavo le dita per poi passarle sulla mia faccia.

Vorrei dirle che ha messo al mondo una bambina meravigliosa che ha tutta l’aria di sua madre quando decide cosa mangiare o quando mi fa mille domande al secondo.

Vorrei dirle che nonostante la stanchezza, non ho mai smesso di svegliarmi e guardarla, di annusarla e di ascoltare il suo lieve respiro, nel cuore della notte.

Dirle che il suo corpo è più bello da quando ha accolto e poi tirato fuori nostra figlia.

Ogni mattina vorrei dirle di svegliarsi più tardi, di baciarmi gli occhi e guardarmi ancora.

Vorrei dire a mia moglie che quella vita piena di responsabilità, di chiasso, pianti isterici di bambina che non ha sonno, pasti saltati e poche ore di riposo,

Sì proprio questa vita,

la nostra,

Mi rende felice e vivo, pieno.

Stanco e soddisfatto.

Vorrei dirle grazie e suonare per lei davanti al mondo che ci ha incastrati così come siamo.

Incastrati come dei brillanti mosaici verdi e blu.

E lei è di sicuro il blu immenso, per me.

Cielo che si apre,

mare che s’alza, notte che calma.

Avrei voluto dirle, perciò, tutte queste cose.

Ma quando mi chiese cosa volessi in quel preciso istante, mi limitai a spostare lo sguardo verso la finestra alla mia destra, e sospirando, le dissi a bassa voce:

“È solo che.. ho bisogno di te.”

 

Penelope venne scalza in camera nostra, stroppicciò gli occhi mentre trascinava un orsacchiotto di peluche.

Voleva dormire con noi perché aveva fatto un brutto sogno.

Incontrai mia moglie durante la notte, dentro lo stesso sogno che rincorre entrambi e trovai il tempo di dirle tutte quelle cose, proprio tutte.

Per sicurezza decisi di svegliarmi e dirle piano che l’amavo, così per ribadire la cosa, dato che durante il sogno mi era parso non mi avesse sentito.

Tornai a dormire tra i capelli di Penelope e la canotta blu raso di mia moglie.

Fu una notte bellissima.

 

Due anni dopo decidemmo di partire, la bambina era più grande e noi sempre più curiosi di scoprirla.

 

Ricordo quel giorno in cui ho portato Penelope a Roma.

Ho tenuto la sua mano stretta stretta nella mia, e lei mi ha guardato alzando la testa verso l’alto come fossi il suo pilastro vivente.

Le ho spiegato che le persone vengono da tutto il mondo per visitarla.

“Hai visto com’è bella Roma?” -Le chiesi- “ti piace?”

Lei mi guardava ma non rispondeva.

Ad un certo punto mi chiese, con tono deciso, “Papà, perché le persone fanno dei viaggi lunghi e spendono tanti soldi per venire qui? Che importanza ha per loro?”

Non aveva ancora studiato storia dell’arte né altre materie. Non potevo pretendere di sbalordire mia figlia a quell’età. Le dissi che quelle persone vengono qui perché Roma è la capitale, la città eterna, quella considerata più magica e bella tra tutte.

“Beh, mi spiace sai Papà? tutta questa strada mi sembra eccessiva” insistette con quegli occhietti azzurro cielo in fase di perturbazione improvvisa.

Dopo qualche minuto riprese: “Papà, tu parli di Roma come quando parli di mamma. Però a casa nostra non vengono le persone da tutto il mondo, perché?”

-Scoppiai a ridere soffocando il suono. A tratti fui commosso-

“Amore, Papà non ha fatto come gli storici, i romani, come tutti gli altri.

Papà ha guardato la mamma e fatto le sue considerazioni, pavoneggiandosi giusto un po’. Ma poi senza dirlo a nessuno l’ha presa e tenuta per sé.

Roma è diventata capitale del mondo, la mamma ce la teniamo per noi.”

Allora preoccupata mi chiese: “ma non è che poi verranno a rubarcela e le persone verranno tutte in casa nostra per vederla?!”

“No, Penelope.” Le dissi “Sta tranquilla, ho già fatto un patto col mondo, cosa credi?”

“Quale patto?” -mi chiese-

“Il mondo si tiene Roma e la sfoggia, io tengo la mamma e la preservo dal resto. Così da lasciarla intatta,

forse con qualche crepa ma senza buche,

a te.”

 

Continuammo per il Colosseo, per le piazze, le viuzze e le vie note.

Mia moglie ci raggiunse in taxi, Penelope la vide e le pianse addosso. Non le spiegai il motivo, “sarà stanca, ha camminato tanto e le mancavi” le dissi.

Mi guardò come si guarda chi commette il solito disastro e andammo a prendere un gelato.

 

Sarò stato anche il solito disastro per mia moglie, ma resto di sicuro il suo primo ammiratore segreto.

Prima di me però c’è Penelope, che invece le ha già svelato quanto valesse per lei.