Roberta Sgrò - Poesie

Appeso al mio cuore 

 

Provo calore, 

solo al ricordo, 

ripensando

al tuo sorriso, 

che come allora

annienta le mie paure, 

che si concede 

e non domanda riscontro, 

e dona, 

solo amore. 

 

Voglio sperare, 

ricredermi, 

capire, 

che tutto ciò esista e

con il calar del sole

non svanisca. 

 

Saluterò il giorno, 

ma non te, 

che terrò, 

accarezzandoti

come un respiro, 

appeso al mio cuore 

e ti chiederò,

sussurrando, 

di vivere. 


 

Accompagnata da un raggio di luce

 

Le guardava luccicare, quegli esserini estivi che parevano danzare, ignari dei pericoli del mondo, invadendo la sua veranda, come se non appartenesse a nessun altro che a loro. 

Le lucciole, come le luci natalizie, come i riflettori di un teatro. Quei raggi solari che trafiggono le immagini, donandogli qualcosa che nessun’altro prezioso dono della natura saprebbe riproporre. 

Linda se ne stava così, affacciata alla finestra, a pensare a quanto fosse meraviglioso poter assistere a tutto ciò e sperando che, l’indomani, quando lei avrebbe fatto il suo ingresso sul palcoscenico, la tensione l’avrebbe abbandonata e gli altri avrebbero sorriso, proprio come stava facendo lei in quel momento. Perché, come le ripeteva spesso la sua cara nonnina, “l’importante era lasciare all’altro un buon ricordo di sé”. Soprattutto nel teatro, o in qualunque forma d’arte che si vuole trasmettere. Le opere più maestose, i romanzi più belli che siano mai stati scritti e letti… Le poesie intrecciate a petali di fiori ormai scoloriti, l’armonia famigliare che si può creare con un semplice profumo di brioches appena sfornate la mattina… Tutto questo, racchiudeva in sé luce. E Linda, dopo tre mesi passati con una benda davanti agli occhi, giorni infiniti in cui non le era concesso di poter vedere, definire ciò che le si proponeva davanti, lo sapeva bene. Perdere qualcosa di importante rende tutto diverso una volta che la si ritrova: era una lezione che tutti sapevano, ma che in pochi comprendevano davvero. La nostra ragazza di 17 anni aveva avuto quella fortuna: quella di poter nuovamente vedere. I suoi occhi avevano ripreso a funzionare. 

Era stato per via di un’infezione che l’aveva colpita anche da bambina, quando lei ancora non ricordava cosa la circondasse, né con cosa giocasse né tanto meno immaginava che un giorno, nonostante il suo carattere timido, si sarebbe buttata in un’opera teatrale. Ne sarebbero stati entusiasti i suoi genitori, così come i suoi professori… Chissà il pubblico, come l’avrebbe presa, quell’interpretazione da co-protagonista che lei si era studiata per bene. Quel copione, in particolare le pagine che riguardavano i suoi dialoghi, erano stati rimaneggiati talmente tante volte da apparire vecchi, spiegazzati.

Piccole cose della vita che, ogni giorno, coinvolgevano migliaia di persone, eppure ognuno di noi, quando arriva il proprio turno, tende a vedere tutto come se fosse estremamente nuovo, importante, prioritario. Ma, dopotutto, era questo lo spirito giusto per dare il meglio di sé, per mostrare la “propria luce” agli altri. Perché tutti gli esseri viventi, dal suo gattino Kitty al suo nonno burbero, erano dotati di quell’essenza luccicante che riversavano poi sugli altri, volenterosi o meno, ma ciò che contava era il dono.  

Così la mattina seguente arrivò, Linda si preparò con calma, fece un’abbondante colazione e si sistemò i lunghi capelli castani in una coda ordinata. Avrebbe avuto un pubblico, quel giorno. Lei, e il suo gruppo scolastico di teatro. 

In realtà ogni giorno si veniva sottoposti agli sguardi degli altri, ai loro giudizi sul look, sul peso, i mormorii erano numerosi, come le parole che si perdevano perché non pronunciate; ma quel dì sarebbe stato diverso per la ragazza: gli altri l’avrebbero guardata aspettandosi qualcosa di concreto da lei. 

Quell’esperienza l’avrebbe sicuramente motivata nella vita, la ragazza ne era cosciente e si aspettava che potesse essere davvero così: da grande avrebbe tanto voluto fare la guida nei più grandi Musei Italiani, dove centinaia di persone ogni giorno ammiravano i capolavori che ci sono stati lasciati dai nostri artisti. Avrebbe parlato con il giusto tono, con le espressioni adatte, davanti a loro, vestita come una signorina, tra quelle mura che illustravano qualcosa di veramente lucente: l’Arte. 

Aver avuto modo di passare del tempo in più con i suoi amichetti, con quei compagni di classe, nonostante l’anno scolastico fosse giunto al termine, era stato motivante per Linda, aveva rimesso in equilibri quella sua assenza, quelle ore passate in ospedale, quella graduale perdita di un senso che ci rende ciò che siamo. Lei li aveva, ogni giorno, immaginati tutti, soffermandosi sulla loro voce: così aveva fatto con la mamma, con il fratellino che ancora non articolava bene tutte le parole nonostante avesse compiuto gli otto anni di età. Lei lo trovava buffo e, durante il suo periodo cieco, era rassicurante sentirlo balbettare, inciampare nei propri pensieri. Sapeva che, anche se tutto era diventato nero, lei esisteva ancora. 

Era così naturale, prima di quell’infezione, vedere per lei che, nel momento in cui le era stato negato, il processo di accettazione non fu facile da intraprendere. Ma la gioia che provò nel guarire le fece cessare ogni dubbio, ed era lì che si racchiudeva la risposta.

Linda arrivò nella grande palestra a testa bassa, facendo grandi respiri come le aveva suggerito il ragazzo di cui credeva di essere perdutamente innamorata: Jason. 

Era buffo: era in classe con lui da tre anni e non era mai riuscita a dichiararsi; erano amici, passavano anche dei pomeriggi insieme e, quando aveva avuto quel piccolo inconveniente nella sua vita, lui era andato a trovarla diverse volte, le aveva anche stretto la mano. Tra tutti i volti che avrebbe voluto rivedere d’urgenza, quello del ragazzo dagli occhi color nocciola era in cima alla lista. Sentiva che si completavano in qualche modo, che avrebbero potuto costruire una famiglia, dividere una villetta al mare, così come sogni e progetti futuri. Si domandava se, davvero, fra qualche anno, l’avrebbe avuto ancora al suo fianco, se quei sentimenti sarebbero durati nel tempo: sperava con il cuore che potesse essere così, proprio mentre sistemava il costume di scena e, specchiandosi, si perdeva in queste riflessioni.

<<Allora, pronta?>> le domandò Jason, raggiungendola e facendola, per un’istante, sobbalzare.

Gli sorrise sincera, credendolo così, come un angelo custode. <<Sì.>> annuì, decisa, con gli occhi ancora sullo specchio che aveva di fronte e gli dava l’immagine speculare di lui. 

Effettivamente il tutto si svolse positivamente, gli applausi furono tanti come l’emozione di avercela fatta: Linda si concesse un inchino, chiudendo gli occhi e lasciando che quella lunga coda la coprisse, almeno in parte: cercò di concentrarsi sul suono e si disse che, per quanto assurdo, era come se stesse ancora guardando tutto. Jason si spostò accanto a lei e le prese la mano, come a richiamarla, ricordarle che poteva lasciarsi osservare senza paura e che doveva farlo: quella palestra si era riempita di sorrisi. Tutto brillava, lì.

Quelle vacanze lasciarono nel cuore di Linda tanta gioia, la stessa che provò quando, anni dopo, si laureò, simile a quella che, immersa in una stanza di un elegante Hotel di Firenze, l’accompagnava in quegli istanti: davanti a uno specchio, con i capelli che aveva sulle punte sfumature più chiare, con le lenti a contatto a sostituire gli occhiali e con la camicetta nera a coprirla, Linda si preparava, pensierosa, per quella nuova giornata di lavoro.

<<Allora, pronta?>> le domandò quello che ormai era un uomo, avvicinandosi a lei e dandole un bacio sulla guancia. Linda assaporò quel momento come morbido e caldo, anche grazie al raggio di sole che trafiggeva quell’immagine, lo stesso che attraversava quell’enorme finestra e donava a quei due innamorati, una consapevolezza in più.

<<Sì.>> sorrise lei, lasciandosi abbracciare. Tutto ritrovava il proprio senso quando era dominato dalla luce.


Sabbia

 

Sfumava, 

come le onde

in riva al mare, 

che timide, 

pare che

accarezzino, 

sforino

quel lembo di terra, 

lasciando il loro ricordo, 

portandosi con sé qualcosa: 

sabbia. 

Così il mio cuore, 

riportandomi a te, 

al tuo ricordo, 

cercava di comprendere

il processo, 

il modo in cui una persona dona

ma poi

rapisce,

si appropria

di una parte, 

lasciandone traccia. 

Ma qui fa male, 

come in una tempesta, 

come se, 

quelle onde 

fossero funeste, 

decise, 

incessanti. 

Mi domando quando

quella sabbia,

tornerà a far parte di me, 

mi chiedo se, 

quelle onde, 

ti avrebbero più raggiunto. 

Ma conservo in me 

la consapevolezza, 

so che altri Soli baceranno quell’orizzonte, 

so che tra la tempesta ti riconoscerò, 

amico, 

perché non ci abbandoneremo, 

come le onde fanno con la riva, 

come la sabbia fa con il mare. 


Accostato ad ascoltare una canzone nuova

 

Geremia era un nome che non gli si addiceva; no, il suo stile, il suo modo di parlare, le sue ambizioni… Non sapevano di quel nome che richiamava la Bibbia, composto da una particella latina e una greca. Quando lo chiamavano a scuola non gli veniva neppure voglia di girarsi, o alzare la testa, preferiva di gran lunga quando, per fare anche solo l’appello, usavano il suo cognome. 

Il suo migliore amico, ad esempio, aveva notato questo suo fastidio e, per rispetto, lo chiamava “J”. 

Ecco, “J” suonava meglio, più da lui, più vicino a quella sua passione per la musica ad alto volume, per le felpe larghe ed i pantaloni sempre di almeno una taglia in più.

Geremia aveva solo 15 anni ma aveva ben chiaro cosa avrebbe voluto fare nella vita: suonare. Per lui ascoltare, cogliere le variazioni musicali, porre attenzione al tono con il quale le parole venivano pronunciate era fondamentale. Come se gli servisse per comprendere, per potersi trovare, distinguersi in quel “casino” che era la vita. 

Dopotutto, ognuno di noi si ritrova in angoli di spazio di cui magari gli altri non conoscono neppure l’esistenza. E per il nostro futuro artista era solo una grande attesa verso un lavoro che, non solo l’avrebbe ripagato sul piano professionale, ma che l’avrebbe anche reso “se stesso”. Lui era tutto questo e poteva confermarlo anche in quel preciso istante, mentre, seduto su una panchina con Luca, il suo miglior amico, ascoltava la musica e simulava di essere lui il batterista di quel testo. 

<<Dai, abbassa un po’.>> gli suggerì l’altro, finendo la sua lattina di Coca-cola. 

“J” lo guardò storto, attraverso quegli occhiali da sole fuoristagione, ma obbedì. Il compagno di scuola e di avventure sapeva essere severo al punto giusto, cosa che il padre, negli anni, non era mai riuscito ad apprendere; nonostante le discussioni, gli scontri, le preghiere di “smetterla”, l’uomo che aveva sposato la sua defunta madre non gli lasciava tregua: dai voti a scuola, all’ordina in camera, alle uscite nel pomeriggio a quella che lui chiamava “disciplina” ma altro non erano che regole cercate su internet. Probabilmente si era accontentato della prima lista che aveva trovato, l’aveva stampata e si convinceva che la vita si potesse comprendere in un modo così scontato, ovvio… “Patetico”, concluse il ragazzo. 

<<Che ne dici se facciamo quattro passi?>> propose l’altro, dando uno sguardo veloce all’orologio che aveva al polso. Era uno dei pochi suoi coetanei che lo possedevano ancora, un regalo di compleanno dal quale non si era mai separato. 

<<Non ne ho molta voglia, vai pure tu. Io rincaso che devo ancora studiare fisica.>> rifiutò l’offerta, senza neppure guardarlo. Quella giornata era iniziata male e, per qualche assurdo motivo, discutere con l’unica persona che lo rispettasse davvero avrebbe potuto completarla. 

Luca sospirò, alzandosi con un solo balzo. <<Non dirmi che ti proporrai per l’interrogazione!>>

Una risposta del tutto diversa da quella che si aspettava, a quanto pare Luca conosceva Geremia meglio di quanto si conoscesse lui. Non aveva veramente bisogno di litigare, tutt’altro. 

<<Perché no? Devo recuperare un quattro dopotutto.>> scrollò le spalle e si mise in piedi, salutando l’amico con un pugnetto e recuperando la cassa della JBL. 

Se il ragazzo avesse saputo come la sua vita si sarebbe evoluta negli anni, probabilmente non si sarebbe limitato a fare spallucce a tutti: non fu facile continuare gli studi, dovette lavorare duramente per poi iscriversi all’accademia musicale più vicina al suo paesino, dividendo il tempo libero tra pullman, panini mangiati in fretta e fogli sparsi per la casa, dove cercava la sua ispirazione, nello stesso luogo in cui maturava quella nota che lo avrebbe reso diverso dagli altri, che non avrebbe stonato e che avrebbe accolto un pubblico vastissimo. 

La chitarra classica fu lo strumento che lo accompagnò in quelle giornate passate in piazza a suonare, tra coppie che gli sorridevano, anziani che si lamentavano della sua voce e neomamme che gli lasciavano qualche monetina. Gli capitava spesso di chiudere gli occhi e domandarsi quale fosse lo strumento adatto a lui, se stesse sbagliando tutto e se, crescendo, quel ragazzino un po’ rock non stesse in realtà divenendo un signorotto da piano forte. Anche il suo modo di portare i capelli mutò, da quasi rasati a lunghetti, così come il suo modo di vestire, pian piano sempre più da adulto e più aderente. Ma la sua playlist non riuscì a far lo stesso.

Trovare contatti non fu semplicissimo, ma Luca negli anni non lo abbandonò, nonostante il suo carattere difficile e le mille incomprensioni; fu lui in realtà a fargli conoscere Ginevra, una ragazza che non solo gli rubò il cuore, ma che finanziò il suo primo disco e che, senza esserne a conoscenza, aveva finalmente trovato il suono giusto con il quale il suo nome doveva essere pronunciato, soprattutto durante quel pomeriggio d’estate che il ragazzo non avrebbe mai dimenticato. 

<<Geremia, devo parlarti.>> esordì lei, raggiungendolo sulla veranda, la stessa in cui lui si limitava a respirare aria fresca e riposava, lasciando che il sole lo purificasse. Il modo in cui lo disse tradì preoccupazione, dopotutto il nostro ragazzo aveva dedicato il suo modo di ragionare sul “suono delle cose”, quindi non poté ignorare quel particolare. Per lui era come se si accendesse un campanellino di allarme, la sua opinione sulle persone si rifaceva al 99% al modo in cui si relazionavano nella comunicazione.

<<È successo qualcosa? Stai bene?>> si mise seduto, facendo per alzarsi nel tentativo di raggiungerla, rendendosi conto che l’ansia stava cominciando a persuaderlo. 

Lei gli fece cenno di non muoversi e, non appena fu a poco più di un passo da lui, si accarezzò la pancia, coperta solo da una canottiera nera. <<È che tra poco non saremo più in due.>> annunciò, con lo sguardo basso su di sé. 

Geremia, da lì a poco, sarebbe diventato padre. Quella figura a lui sfocata che lo aveva sempre messo in discussione… Quella parola che, in realtà aveva pronunciato poco: “papà”. Ma adesso sarebbe stato il suo turno e sarebbe stato tutto diverso, lui non aveva il vizio di bere, né di comandare e, soprattutto, sapeva ascoltare, o così credeva. Si concedeva una sigaretta ogni tanto, ma ciò che contava era l’amore che avrebbe dato a quella creatura, ne era sicuro. 

Balzò in piedi e la fissò, incredulo e speranzoso, e subito dopo scese fino alle anche della compagna per dare un bacio a quell’esserino che, ancora ignaro di tutto, già emetteva un bellissimo suono. Si concentrò su quell’istante, immaginando versi che non sapeva scrivere, parole inglesi che stonavano con quella melodia. 

<<Sposiamoci.>> disse, precipitoso. Poi alzò il viso, reggendosi sulle proprie ginocchia e vide la sua compagna sull’orlo delle lacrime. <<Vi prego, sposatemi.>> ripeté, cercando di udire, come meglio poteva, la sua stessa voce: quelle parole erano sincere, quel desiderio ardeva in lui. 

“Allora è questo che cercavo… Il mio motivo, il modo in cui solo io, posso provare queste sensazioni” si disse, chiudendo gli occhi “la musica è vita… E la mia musica racconterà della mia”.

<<Si!>> rispose Ginevra, accarezzandogli i capelli castani e sempre scompigliati, lasciando scendere qualche lacrima di gioia. Lui si alzò e l’abbracciò a sé, tentennante, ma l’altra non lo lasciò esitare. 

Un pensiero superficiale interruppe quella connessione perfetta che si era creata, intrecciata con il caldo e l’amore: un ricordo, quello di un certo “J”, di se stesso anni prima.    

<<Promettimi solo una cosa.>> disse, distaccandosi quando bastava per guardarla negli occhi. <<Se sarà un maschietto, lo chiameremo Jason, che ne dici?>> 


In un modo tutto suo

 

Gentile 

era il sorriso di quel bambino. 

Innocente

quel gesto d’affetto 

al genitore.

Si esprimevano così, 

in un modo che noi, 

ormai, 

non comprendiamo. 

I bambini, 

i cuccioli, 

l’amore. 

Era un sentimento

bizzarro, 

strano, quasi 

contraddittorio. 

Aiutava, a chi lo percepiva, 

come a chi lo donava, 

a crescere, ma

senza coscienza, 

ti lasciava tornare, 

almeno per qualche istante,

gentile, innocente,

in un modo, 

che poi non comprendiamo. 

Invade le stagioni, 

sussurra nei vicoli, 

lo osserviamo tra noi,

si manifesta, 

in un modo, 

che poi non comprendiamo. 


Pane sovrastato dallo zucchero a velo

 

Riccardo aveva ereditato dal padre quel grande forno, famoso in tutta la città per il profumo con cui, ogni mattina, invadeva le strade e diffondeva il buongiorno. E così Lorenzo, il nostro bambinetto di 10 anni, credeva che da grande sarebbe stato anche lui un panettiere. 

Ogni tanto il babbo, quando si svegliava di buon umore perché un po’ più rilassato, portava il figlioletto in cucina e gli spiegava come bisognasse impastare, lasciar lievitare, gli faceva segnare, tra un compito e l’altro, la quantità giusta di olive, datteri, carciofi, peperoni, pomodorini… Di ingredienti, insomma, che arricchivano quel pane così morbido e caldo, così… Famigliare.  

Il padre era conosciuto da tutti, non appena sentivano il suo cognome associavano senza troppi ragionamenti quel posto ben pulito, con tratti antichi, che in un certo senso, facevano pienamente parte di quella gente. Sua madre si occupava delle questioni contabili del panificio, dagli scontrini all’acquisto di quelle che lei chiamava, più volte al giorno, “materie prime”.

Il periodo che Lorenzo amava maggiormente però era quello natalizio, solo durante quei giorni ornati da lucine e musichette per le strade gli era concesso mettere dello zucchero e la glassa per decorare i biscottini, il panettone ed i grissini: quell’anno di cui vi narro si prospettava sul tredicesimo di Lorenzo, dello stesso che, all’insaputa del padre, stava realizzando una torta per il compleanno della madre. 

Suo papà non era d’accordo sul cambiare le abitudini di famiglia, e voleva, come ogni anno, imbandire la tavola con focacce piene di prosciutto, mortadella e salame, con treccine alle olive e tarallucci al peperoncino, festeggiandola con i sapori che ogni giorno era abituata a sentire, tra farina e olio. Ma Lorenzo era convinto che la madre sarebbe stata contenta di avere, tutta per sé, una torta panna e cioccolato; sapeva quanto fosse golosa, infatti lei gli raccontava spesso che quando era piccola assumeva moltissimo zucchero. 

Non è che in quella famiglia non fossero concessi i dolci, in realtà Lorenzo ne aveva assaggiati moltissimi, amava anche la frutta estiva e, non appena arrivava la Pasqua si concedeva pezzi enormi di cioccolata al latte. No, il problema era proprio l’importanza che si dava a ciò che si mangiava: il pane, la mollica, tutto ciò che veniva definito “salato” doveva far parte, ogni giorno, della loro tavola. 

Questo Lorenzo lo sapeva, ma tentò e, quando portò la torta con le candele rosa a tavola, ricevette sguardi sconvolti, quasi stesse insultando qualcuno. Il padre non ci rimase bene, gli rimproverò di applicarsi con quelle che erano le tradizioni di famiglia anziché fantasticare in un campo di cui avrebbe saputo poco; sua mamma però ne prese subito una fetta, assaggiandola senza esitazione e gli mostrò un sorriso pieno di gioia, incoraggiandolo a sedersi al suo fianco. 

Un momento da dimenticare, reso più dolce da quella donna che, negli anni, effettivamente lo incoraggiò a percorrere la strada che credeva meglio per lui: così si diplomò, si specializzò con corsi di pasticceria, sotto gli occhi delusi del padre. 

<<Sai, è pur sempre una forma d’arte. Un modo che mi appartiene per rendere le giornate degli altri piene di gusto, di sapori nuovi…>> cercò di spiegargli, una sera mentre l’altro leggeva, vicino al camino nel grande salone della loro casa. 

L’altro spostò gli occhiali, chiudendo quel manoscritto senza molto interesse. <<Figliolo, ascolta…>> esordì, strofinandosi gli occhi. <<Io non ti critico, solo che non ti capisco. La nostra famiglia ha cominciato dal pane, sai, tuo nonno mi ha insegnato tutto, nonostante io fossi fissato con la matematica. Ma ecco che, mentre gli ingredienti si univano, il gusto prendeva forma, e tutto risultava un’operazione algebrica ben riuscita.>> gli raccontò, distraendosi un momento ad osservare la camicia a scacchi e quei jeans un po’ scoloriti del figlio. <<Il profumo del pane, fa parte di noi. E tu l’hai distorto con la panna, con quel sapore aspro dei mirtilli…>> non riuscì a finire la frase, come se tutto fosse troppo assurdo anche solo da dire. 

Lorenzo gli sorrise, si avvicinò a lui e gli prese la mano, ringraziandolo di essersi aperto con lui. <<Papà, tu e il nonno siete stati e siete degli ottimi panettieri, aiutami ad essere un ottimo pasticcere. Ti prego.>>

Le giornate trascorsero sempre più rapide, dai dolci sospiri alle torte Danubio, dalle crepes ai baci di dama e altre mille leccornie che, pian piano, avvicinarono nuovi clienti e decorarono quel panificio.

Scettici, i bambini chiedevano di poter avere un biscottino a forma di zucca di Halloween, o uno intagliato nelle mele, oppure una bella meringa rosa, tra i genitori che prendevano pizzette e bruschette.

Gli anni passarono, Lorenzo era stato fortunato a capire cosa volesse dalla vita e, mentre sperimentava nuovi piatti, si concedeva sempre l’assaggio di formaggi, creme e intrecci di pasta sfoglia. 

<<Buongiorno Linda!>> la salutò Lorenzo, entusiasta. <<Cosa ti riporta da me?>>

Linda era ormai una cliente abituale, si forniva sempre da lui per le feste, i compleanni o anche solo per spuntini pomeridiani tra un turno di lavoro e l’altro. Inoltre, era anche una sua amica da tempo; si occupava di arte, mostre e di illustrare i capolavori italiani alle persone, a quei turisti, studiosi, studenti o semplicemente curiosi che si perdevano tra sculture e dipinti. 

<<Ciao Lorenzo!>> rispose lei, rivolgendogli un debole sorriso, già attenta sui cestini di frutta, quelli che più di tutti adorava. 

<<Due, giusto?>> le chiese, facendole l’occhiolino e mettendoli subito in un sacchetto, senza però schiacciarli. 

<<Come posso dirti di no? Sono così buoni!>> lo ringraziò lei, soprattutto quando non li volle pagati. 

<<Offro io. Allora, come si sta lì fuori oggi? Il Natale si avvicina, si sente proprio nell’aria.>> disse lui, sistemandosi il cappellino bianco. 

<<Già, tra poco ci riuniremo tutti alle nostre famiglie e ci perderemo tra canti e risate…>> rispose lei, pensierosa. <<A proposito di questo, volevo farti un ordine.>> affermò subito dopo, decisa. 

<<Dimmi tutto.>>

<<La torta di rose. Una grande per almeno… 15 persone. Oppure due da 8, non so. Si può fare?>> si ritrovò in difficoltà a fargli quella richiesta, e Lorenzo ne conosceva il motivo. Arrivarono nel frattempo altri clienti. 

<<Per quando ti serve?>> le chiese, tenendo gli occhi su tutto. Era giovedì, uno dei giorni con meno afflusso di gente, quindi si ritrovava a servire da solo.

<<Per la vigilia, se per te non è un problema.>> era timida di carattere, però non era quello ad averle fatto abbassare il tono di voce.

<<Certo.>> gli sorrise lui, togliendosi un guanto per segnare subito il tutto. La guardò, mentre giocherellava con l’anello di fidanzamento. 

<<Ehi, stai tranquilla.>> le disse, preoccupato. Sapeva il motivo di quell’ansia, quella torta era la preferita del padre, ormai venuto a mancare. Probabilmente credeva di recargli dolore, per quello era timorosa, ma Lorenzo non soffriva per quella perdita, o meglio, sapeva che quello strano uomo, ancora legato al suo caldo e morbido pane, se n’era andato nel sonno, sereno e realizzato. 

Era stato il suo maestro, ma non solo per quanto riguardava il lavoro, gli aveva soprattutto trasmesso quell’amore per i sapori, i gusti e, tutto insieme, per la famiglia, le amicizie, gli amori. In un certo senso, scontrarsi gli era servito per sistemare quegli aspetti della sua vita che non riusciva a risolvere, tanto che si era dato alle ripetizioni pomeridiane di matematica, proprio come un bravo insegnante che, prendendosi cura dei suoi alunni, sacrifica ore di sonno per preparare appunti e schemi.

<<Ti ringrazio Lore, davvero.>> fece lei, percependo quel senso di pace che quel luogo possedeva, ascoltando le storie che sussurrava. Una donna le passò quasi davanti, impaziente, mentre un uomo sbuffava per il freddo che regnava fuori.

Mentre la ragazza addentava un dolcetto, chiudendo gli occhi, lui si propose di realizzare una torta ottima e soprattutto, con prodotti il meno calorici possibili, dato che aveva avuto modo di conoscere il suocero di Linda, lo stesso che non sapeva darsi un fermo a mangiare; non voleva di certo che stesse male!

“Si” si disse il nostro ragazzo, ormai uomo “la risposta è nel gusto, nella dolcezza, nella consistenza… Nei gesti si conserva la bellezza”.


Ma ti apparteneva

 

Rifletto, 

ricreo, riconduco. 

Pensieri, parole, 

emozioni. 

Sfuggono, 

rapide, e percepisco 

sensazioni, nozioni

mai imparate. 

Era un suono nuovo, 

quello che, giungeva da lontano. 

Era come sordo, 

a volte rumoroso, 

ma ti apparteneva, 

e ciò lo rendeva 

poesia. 


Tra salsedine e foglioline

 

Si sentiva nettamente la differenza, anche solo annusando l’aria. 

Giulia viveva in periferia, in una di quelle zone dove se ti affacciavi dalla finestra vedevi il fumo di una fabbrica non molto lontana avvelenare il cielo. Era nata lì, quegli odori la circondavano di continuo, da quando si svegliava e mangiava le brioches impacchettate, al tragitto per la scuola, alla sera, quando il camino di una casa dei vicini, nel periodo invernale, rendeva tutto quasi bruciato. 

La nostra bambina di 8 anni, per la prima volta dopo tanto tempo, era in macchina a osservare ciò che c’era al di là dal finestrino, immaginandosi già in costume, con i braccioli e i capelli mossi legati in due treccine.  

I suoi genitori lavoravano molto ma, non appena potevano, si prendevano una vacanza, anche per scappare da quel posto grigio, lo stesso che ogni mattina si apriva con l’odore di cannella e miele ma che non riusciva, almeno non per Giulia, a colorarsi abbastanza. Quell’aria, insieme a lei, soffriva. 

E così, mentre si spostavano verso le coste più azzurre, verso nuvole più sparpagliate e l’odore di sale, canticchiavano qualche vecchia canzone, cercando di coinvolgere anche la loro bambina. 

Lei li amava, entrambi: ammirava la mamma quando si sistemava la camicia davanti allo specchio, papà quando beveva un caffè di troppo e si stirava la cravatta, e soprattutto adorava quando passavano tutti e tre del tempo insieme. L’unico problema era che preferiva annusare tutto, perdersi ad immaginare il fiore dal quale proveniva quel pizzico leggero, piuttosto che cantare. 

L’udito non era il suo senso, forse apparteneva di più al nonno: lui era un musicista. 

In ogni modo, non è di quest’ultimo che voglio narrarvi, ma di Giulia che, all’età di 12 anni scriveva un tema sulla notevole differenza che si sentiva, anche solo respirando, tra città e zona balneare: lì tutto era più leggero, come se potesse fluttuare, come se lì gli incensi bruciassero più lentamente, le foglie non volessero ribellarsi al vento, come se le brioches della mattina non fossero preconfezionate. Infatti, era così, le preparava lei insieme alla mamma, grazie a una ricetta che gli aveva dato un caro amico: e bisognava sentirne la bontà!

Scriveva, annusando anche quella graffite che si abbandonava su quel foglio un po’ giallino, pronta a riscrivere tutto e consegnarlo all’insegnate, sempre più convinta e ferma sulla propria tesi. 

L’esistenza si componeva di note olfattive che Giulia voleva comprendere, sperimentare e a cui voleva attribuire dei ricordi forti, man mano, nella sua vita.

Lei percepiva il mondo focalizzandosi sugli odori degli agrumi, suoi profumi che la gente indossava, gli stessi che li differenziavano, anche ad occhi chiusi.

La nonna, un giorno, le fece annusare tante tipologie di miele differenti, alcuni aromatizzati, atri provenienti da alveari diversi, così come fece con le marmellate e con i minerali: la nonna Flavia aveva già compreso quanto per lei fosse fondamentale odorare, non la criticò mai per questo, anzi, al suo quindicesimo compleanno le regalò un cane, spiegandole che gli animali “sì, che ci sentono bene!”.

Infatti, Beck l’accompagnava in montagna quando lei raccoglieva i funghi, le castagne, le faceva compagnia quando leggeva, in veranda, mentre Giulia si documentava sulle piante, i loro rimedi e gli sciroppi, le creme che se ne ricavano. Una sera però, la raggiunse anche la mamma.

<<Allora Giuly, che leggi di bello?>> le chiese, spostandosi una ciocca di capelli dietro l’orecchio. 

<<Credo che da grande aprirò un vivaio mamma, vivrò lì vicino e troverò per ogni cliente il giusto profumo per ogni occasione!>> suonò quasi infantile per via del tono con cui pronunciò quelle parole, ma si sentì più libera nel farlo, sentiva di doverle dire da tempo.

La mamma le sorrise, intenerita, e appoggiò la mano sopra la sua. <<Certamente. Sarà una bellissima attività. Sai, c’è un istituto non molto lontano da qui che ha un corso per florovivaisti. Potresti andare lì, anziché proseguire il tuo percorso come segretaria.>> 

Giulia rimase a bocca aperta per qualche istante, incredula di poter avere davvero quell’occasione. 

<<Ma dovrò ricominciare da capo, perderei l’anno!>> obbiettò, cercando di concretizzare il tutto ma tirandosi un po’ indietro, spaventata. 

<<Lo so, ma non fa nulla.>> la rassicurò dolcemente lei. <<Non tutti noi vediamo con nitidezza il percorso che fa per noi, non subito almeno. Ricordi quanto abbiamo discusso per la scelta delle superiori?>> le ricordò, sempre attenta. 

<<Già…>> affermò la ragazza, pensierosa. 

<<Su, riflettici ancora qualche giorno e poi fammi sapere. Ma ricordati di una cosa importante: io sarò sicuramente una tua cliente affezionata!>> provò a fare un tono di minaccia, ma si ritrovò subito a ridere, fallendo. 

Parlare con la madre le fu sicuramente d’aiuto, anche il padre la motivò e, mentre lei girovagava i negozi di profumi in boccetta e, soprattutto, i campi e le zone piene di vegetazione, i suoi capelli si allungavano, il suo corpo si fece sempre più esile e i suoi occhi sempre più vivi.

Giulia sapeva cosa voleva, lo sapeva bene anche nel momento in cui il suo fidanzato, anni dopo, presentatosi con una composizione di Gardenia, le stava proponendo una vita insieme. 

<<Sono le mie preferite!>> lo ringraziò lei, abbracciandolo e si precipitò subito a trovargli una sistemazione. 

<<Magari sarò banale ma… So che le piante sono un po’ il tuo mondo, i profumi e…>> si fermò, sistemandosi il colletto della camicia. <<Vorrei chiederti se vuoi vivere con me.>> disse, determinato. 

Giulia si voltò verso quel ragazzo con il quale divideva il cuore da ormai tre anni e, avvicinandosi a lui, si mise a sorridere. Lasciò che gli occhi grigiastri di lui si specchiassero in quelli color albicocca di lei, che le loro mani si unissero e, solo allora, gli diede una risposta. <<Solo se mi prometti che riempirai la casa del tuo profumo.>>


Essere, bene.

 

Posai il mio sguardo

su quel granello di luce, 

concentrai il mio udito

sul tuo battito. 

Riempì la stanza 

del tuo profumo, 

che un po’ ricordava il mio, 

e finì per sfiorare

Il tuo modo di pensare. 

Perché tu, 

in un istante, 

mi avevi concesso

quella consapevolezza, 

quel senso di stare, 

essere, bene, 

che non assaporavo più

da tempo, ormai. 

Lasciai vagare quell’animo, 

che non riusciva, 

testardo, 

a recepire, 

quel nuovo senso di stare, 

essere, bene. 


 

Un foglio spiegazzato

 

Scottava quel fuoco, ardeva senza sosta, bruciacchiando il legno e creando luci rabbiose intorno a sé. 

Nicolas odiava ciò che era troppo caldo, così come non riusciva a tenere tra le mani, neppure con l’ausilio dei quanti in pile, una semplice palla di neve.

<<È pronto in tavola!>> annunciò la madre, richiamando lui e il fratello Jason in cucina, stessa stanza in cui il padre aveva già sparpagliato diversi fogli scarabocchiati.

<<Credo che li butterò nel fuoco!>> esclamò, scansando il figlio, come se toccarlo potesse provocargli dolore. Era quello che al bambino mancava, l’abbraccio del padre, un suo contatto fisico: era un genitore fantastico, cantava spesso e si riuniva a giocare con loro, gli domandava se volessero una mano nei compiti e capitava anche che preparasse la carne ai ferri in estate, ma non era bravo con i gesti, non trasmetteva molto e Nicolas sapeva che questo gli recava come un vuoto, nel suo modo di vedere il mondo.

Sua madre, quasi come se potesse sentire i suoi pensieri, gli prese la mano e la invitò ad aiutarla a mettere le gocce di cioccolato sulla torta che aveva preparato. 

<<Arrivo!>> urlò il fratello, probabilmente chino ancora sui libri. 

Era domenica, una di quelle primaverili in cui non si è ancora convinti di potersi accontentare di una polo o se bisognasse tenere su la felpa; infatti, il padre, quella mattina, visto l’abbassamento improvviso delle temperature, aveva acceso il fuoco, riscaldando l’ambiente. <<E Geremia, spegni il camino dai, ormai qui si sta bene!>> gli ordinò lei, sorridendo subito dopo al suo piccolo. <<Non prendertela, non è mai stato caloroso.>> gli sussurrò per rassicurarlo, mettendogli una mano su una spalla. 

Sembrava essere nata per quello quella donna, per fare la mamma: era gentile, buona, golosa e, soprattutto, attenta ai propri figli. 

Si ritrovarono così tutti e quattro seduti insieme, a commentare una gara di Formula 1 e subito dopo a dividersi la bomboletta della panna per il dolce. 

<<Io mamma esco, vado a trovare Linda in ospedale!>> l’avviso Jason, correndo nel piccolo bagno bluette per sistemarsi i capelli con dedizione. 

<<Le terrai la mano?>> gli chiese curioso il fratellino, raggiungendolo e senza ombra di malignità.

<<Certo, così saprà che sono lì dato che non può ancora vederci.>> gli rispose sincero lui.  

<<E allora perché ti sistemi così? Tanto non può vederti.>> gli fece notare l’altro, sbuffando. In realtà era solo geloso che Jason avesse una scusa per uscire, mentre il nostro ragazzino di 13 anni, sarebbe rimasto a giocare da solo. 

<<Non si sa mai che riapra gli occhi!>> gli fece l’occhiolino il fratello, scompigliandogli i capelli come gesto d’affetto. 

Nicolas era particolarmente attento alle carezze, ai buffetti sulla guancia e ai baci. Proprio per questo non riusciva a comprendere perché suo padre fosse così distaccato, dopotutto la chitarra se la teneva stretta… Cosa gli costava prendere ogni tanto lui? Non aveva neanche ricordi da bambino di un suo solido contatto, mancanza costante che si poteva vedere anche nelle fotografie.

Così, tra dubbi su se stesso e sul genitore, Nicolas crebbe e, proprio quando la prima ragazzina provò a baciarlo, lui si tirò indietro. 

Era strano, non si sentiva spaventato da contatto ravvicinato, era un tipo molto fisico, però, come si dice? “Una mancanza crea uno squilibrio e uno squilibrio crea la paura di non sapersi comportare”. O almeno era stato così per Nicolas, che, dedicandosi allo studio quanto il fratello, prese però un percorso universitario diverso e divenne fisioterapista. Aiutare la gente era un’esigenza che gli aveva trasmesso la madre e la scienza lo affascinava. Con il tempo parve passargli quel senso di inadeguatezza, dopotutto imparò a convivere con il caldo ed il freddo, con il ruvido e il liscio; così, riflettendo su se stesso, capì di essere maturato. 

Con la vecchiaia del padre però, arrivarono anche i suoi acciacchi e, da bravo dottore qual era, non poteva non suggerirgli dei massaggi alla schiena. 

<<Stai troppo chino su di te, questo non ti aiuta.>> gli spiegò, cercando di farlo mettere sdraiato. <<Posso scriverti alcuni suggerimenti per non aggravare la situazione, ma qui è postura sbagliata, niente di più.>>

<<Aggiungici l’età che avanza…>> fece spallucce l’altro, ancora seduto con le spalle ricurve. 

<<Sì.>>

Nicolas non aveva voglia di perdere tempo con le sue ovvietà, avrebbe avuto una conferenza a cui partecipare due ore dopo.

Qualcosa però, forse la sua espressione assente, forse quegli anni passati a non discutere di quello che era divenuto un problema, fece vibrare l’aria. 

<<Hai un tono così freddo con me, Niki. Lo so che non ci vediamo più come prima ma…>>

<<Sdraiati.>>

<<No.>>

<<Okay, fa’ come vuoi.>>

<<Non ti capisco, quest’arroganza…>>

<<Non è arroganza, tu mi hai cresciuto così freddo nei tuoi confronti.>>

<<Ma che stai dicendo?>>

<<Beh, ricordi di avermi abbracciato alla laurea? Avermi messo una mano sulla spalla quando sono stato assunto? O vuoi che torni indietro, che so, a tutte le volte che hai evitato un contatto con me come se fossi un lebbroso?>> lo disse, ripensandosi bambino, poi ragazzino, rimpiangendo tutte quelle volte in cui non glielo aveva fatto presente, come i pomeriggi al parco, in cui, ad esempio, gli altri padri prendevano in braccio i loro figli e li facevano girovagare, mentre lui non gli prendeva neppure la mano per rincasare. 

<<Questa è rabbia, figliolo mio…>>

<<È rancore. E non sei uno psicologo.>>

<<No ma comprendo i suoni.>>

Nicolas si sentì improvvisamente stanco, così si voltò e fece per andarsene. <<A me però sei mancato. Soprattutto da bambino, e da adolescente…>> confessò, lasciando scivolare la sua mano sul cornicione della porta della sua vecchia cameretta. Era passato tanto tempo, ma i piccoli traumi infantili o le esigenze non soddisfatte, dominavano ancora quel posto.

<<Io non sono mai stato… Caloroso. Insomma, mio padre non mi trattava bene, mia madre è morta presto.>> cercò di giustificarsi, timoroso di accogliere quelle parole così dure. 

<<Però questo non doveva togliere qualcosa a me!>> urlò, abbandonandolo alle sue scuse, ai suoi sensi di colpa e ricordi. 

Quella discussione si dissipò nell’aria, insieme alla rabbia, soprattutto nel momento in cui il padre, su un lettino d’ospedale, creava ombre per Giulia, la nipotina. 

<<Nonno, queste cose non mi fanno più ridere come una volta!>> protestò lei, concedendosi però una piccola risatina. 

<<Disturbo?>> bussò lui, sulla porta. <<Ti ho portato il tuo dolce preferito, quello che “solo Lorenzo sa fare”.>> annunciò, avvicinandosi ai parenti. Giulia gli diede un bacio sulla guancia, annunciando che sarebbe andata a prendersi un bel cappuccino caldo. Non appena se ne fu andata, Nicola si rivolse al padre. <<Il dottore ha detto che puoi mangiarlo.>> gli sorrise, guardandolo. 

Era dimagrito notevolmente, ma in viso sembrava ancora perso tra quelle sue note piene di vita. 

<<Ti ringrazio Niki.>> disse lui, facendogli il segno con la mano di appoggiarla sul tavolino. <<Verreste qui per me?>> era la prima volta gli chiedeva di sedersi su quel lettino pallido.

Lui obbedì, aspettandosi uno dei suoi racconti, ma quell’uomo lo sorprese: gli prese la mano, stringendola forte alla sua. 

<<Perdonami, se non ti ho compreso.>> gli disse e Nicolas, incredulo, si ritrovò ad abbracciarlo, facendo attenzione ai tubicini e alla flebo. Per la prima volta lo avvolse tra le sue braccia e il padre tenne ferma la sua schiena, senza farsi schiacciare. 

<<Papà…>> Nicolas aveva bisogno di quel momento, soprattutto di fronte alla fine di una storia e si rese conto che, se quella tenerezza tra loro sarebbe esistita in precedenza, l’immagine che avrebbe conservato del loro rapporto sarebbe stata più limpida. 

<<Suona bisognoso questa volta.>> 

<<Cosa?>>

<<Il modo in cui mi hai chiamato, finalmente è il tuo.>>

<<Io… Mi dispiace, è che sei sempre stato così distante, non mi hai mai avvicinato a te, ho creduto di essere… Sbagliato. Che non lo meritassi, perché tu…>>

<<Lo so, fa parte dell’amore. Non posso dirti che ti voglio bene se non mi avvicino un po’ a te, se non ti sfioro o non ti faccio capire che effettivamente, con il corpo, mi sto rivolgendo a te.>> 

Il padre lo aveva capito e questo bastò a curare le sue domande. È che quella storia stava volgendo alla fine…

<<Sai, ho sempre toccato la mia chitarra come se fosse la mia unica musa, ma in realtà, ad avermi reso felice, siete stati voi: tu, Jason e la mamma. E vi ringrazio, per questa vita.>> gli confessò, con gli occhi lucidi.

Quelle parole scossero qualcosa in lui, ormai quel campo magnetico tra loro due era stato totalmente distrutto, si era finalmente frantumato. <<I sensi si sovrappongono, a quanto pare. Si completano a vicenda… Il tocco che io ho aspettato da te, era il tono che tu volevi sentire da me nel chiamarti. “Una mancanza crea uno squilibrio e uno squilibrio crea la paura di non sapersi comportare”.>> affermò Nicolas, senza abbandonare la mano fredda del padre. Era così strano, così nuovo, che non avrebbe mai voluto lasciarla.

L’uomo ridacchiò. <<E questo chi lo dice?>>

<<Beh, una scrittrice, credo.>> fece spallucce lui, senza ricordare bene né il nome né dove effettivamente lo avesse letto.

<<Beh, non posso darle torto. Ma, visto che i sensi si completano, che dici di farci fare una foto? Una in cui siamo vicini.>> propose il padre, colorato di nuove emozioni.  <<So di non essere uno splendore, però…>>

Il figlio lo zittì scuotendo la testa e, senza abbandonare quel contatto, prese il cellulare. <<Sì.>>

 

Se ne andò poche settimane dopo, lasciando che le lacrime dei suoi cari componessero il suo ultimo motivetto; Nicolas lo salutò accarezzando la tomba, immaginando di essere lì ad abbracciarlo, creando nella sua mente immagini che aveva desiderato e, rivolgendo uno sguardo al fratello, accompagnato dalla sua amata e dalla figlia, alla madre con gli occhi un po’ sbiaditi e al suo amico pasticcere che aveva avuto modo di conoscerlo, il nostro ormai uomo alzò una mano verso il cielo grigio, come a voler raggiungere qualcosa che ci è concesso solo sfiorare. 

<<”Nessuna storia finisce mai veramente, crea talmente tanto, intreccia così tante anime, che rimarrà eterna: noi potremo vederla, ascoltarla, assaporarla, annusarla e toccarla sempre, perché incisa in noi e in ciò che ci circonda”.>> disse a bassa voce, senza accorgersi che il suo bambino, Ernesto, l’aveva raggiunto per aggrapparsi alle sue gambe.

<<E questo chi lo dice, papà?>> gli chiese, confuso per quella frase che non aveva ben compreso, scuotendo i ricci neri che gli ricoprivano la testa. Gli somigliava così tanto…

<<Una scrittrice, credo.>> fece spallucce, sorridendogli. <<E, anche ognuno di noi. Vedi, la vita è così… Piena ed infinita.>>