Rocco Gilberto Artuso - Poesie

DANIELE 20/06/2010

 

L’ombra furente si alzò

e azzannò forte in quella notte.

Famelica spingeva i suoi denti

nel dorso degli animi attoniti.

Lo stupore indifeso e indefesso

esaltava la forza di quelle mascelle leonine

mai sazie.

Quel leone travolgeva gli animi devastandoli.

L’angoscia aleggiava e tutto avvolgeva.

Nulla sembrava poter placare quel morbo.

Poi si levò l’esile scintilla,

partorita dal cuore dei trafitti,

salì al cielo in un attimo,

svegliò l’Eterna Impassibilità

e giacque ai suoi piedi,

come nel più eloquente dei  giacigli.

La Fiamma Eterna

riconobbe come sua quella scintilla

e l’abbracciò e la protesse.

Le diede la pienezza del suo calore

e partorì quella lacrima

che spense l’angoscia

e diede sapore al tempo.

E il cuore dei trafitti divenne fecondo

perché imparò ad amare

mentre il Cielo si inchinò

e ci diede il suo sorriso.



CHE SORDI !

 

Il nostro cuore batte

senza che noi glielo comandiamo

perché obbedisce a Dio

che gli dà l’impulso.

Già per questo

dovremmo essere felici

mentre noi meniamo la nostra vita

per ogni dove,

a caccia di felicità.

Quella, però,

è nascosta nel nostro cuore

che canta la sua gioia

ogni volta che batte.

Che sordi che siamo !

Il problema

è nel cuore dell’uomo !


 

BRIVIDI

 

Quando guardo il mare,

mentre il sole mi scalda

abbagliandomi di infinito,

scorgo dentro di me I brividi di eternità

che da silenti si innalzano imperiosi

e bussano dentro il mio cuore

ogni volta che batte il suo ritmo.

Non è il mio brivido,

è il brivido di Colui che vuol essere

ascoltato e accolto da me.

È il soffio di colui che mi ha pensato

prima ancora che fossi concepito,

prima ancora che fossi e avessi,

quando ero totalmente suo.

È il sospiro di colui che mi chiede

di tornare ad essere totalmente suo,

niente riservando per me stesso.

Allora la trepidazione mi assale

E come un balsamo,

sento il sapore della sua tenerezza.



CUORE

Guarda o Cielo e splendi d’azzurro 
Mentre il sole sta a guardare. 
Risvegliati 
O cuore dormiente 
Al suono del silenzio 
Mentre pulsa il Mistero 
Della vita imperiosa. 
Risvegliati,  
Tu mio compagno, 
fin dal primo battito, 
Che hai gioito e patito 
Con me fino a spegnerti 
Nell’oceano della Vita Vera. 
Risvegliati,  
Perchè il tuo fermarti 
Ha scoccato l’ora 
Della Vita Vera. 


 

SPECCHO

 

I capelli stanno sparendo.

Sono diventati rari proprio sopra la fronte.

Proprio per questo la mia fronte diventa,

ogni giorno, più larga

anzi diventa sempre più alta, più alta e più lucida.

Quei quattro solchi orizzontali, poi, sono una vera sventura.

Non li sopporto.  

Mi invecchiano, mi invecchiano e mi inquietano.

Occhi troppo piccoli, e naso troppo grosso,

mento troppo lungo e occhiaie troppo scure.

Miseria ladra, si ladra della mia gioventù.

E non parliamo delle zampe di gallina.

Specchio stronzo.

Mi deformi con le tue menzogne.

Ti diverti alle mie spalle.

Nemmeno sai riprodurre le immagini.

Per questo, uno di questi giorni ti romperò.

Ti ridurrò a pezzettini,

così la smetterai di tormentarmi

ogni volta che mi  guardo riflesso in te.

Possibile che non sai guardare dentro le persone ?

Già,  tu sai guardare solo l’aspetto esteriore delle cose.

Non ci provi nemmeno a guardare dentro le cose.

Per questo mi irriti, mi fai venire rabbia.

Sei freddo e spietato. Dovresti guardarti tu,

dovresti guardare i tuoi difetti, non quelli degli altri.



ERO AL SEMAFORO

Ero solo alla guida. Davanti al semaforo, anzi proprio davanti al semaforo c’era un’altra macchina, dopo c’ero io e, dopo ancora, tante altre macchine. Aspettavamo che quel rosso si decidesse ad andar via e apparisse quel sospirato verde. Per la verità ero soprappensiero; era domenica e potevo godermi la giornata con calma, senza fretta. Vengo, per così dire, svegliato e richiamato alla realtà più immediata quando appare il verde. In una frazione di secondo e prima che potessi rendermene conto è un susseguirsi di suoni che cantano l’evento. È un corale inno all’impazienza, alla fretta. Chi sta davanti a me viene a sentirsi pressato da quei clacson e impreca e gesticola con evidenti segni di rabbia. Capisco che in quella cabina c’è un’esplosione di veleno. Quell’uomo aveva creduto che gli avessi suonato io per rimproverarlo di dormire davanti al semaforo. Non aveva capito che gli aveva suonato quel tizio dopo di me e, poi, tutti gli altri. Eppure gridava; guardava nello specchietto retrovisore e gesticolava come per dirmi: “ma cosa vuoi? Vuoi che scenda e ti sbrani?”. Aveva occhi furiosi e feroci come se quei suoni di clacson avessero svegliato la belva che era in lui. Gli automobilisti che mi seguivano, ignari di tutto, continuavano a strombazzare perché non si accennava a ripartire. Non potevano perdere quei pochi secondi che dovevano sembrar loro un’eternità. Mi percepivo come il companatico di un panino imbottito, stretto tra l’ira di chi mi stava davanti e l’ira di chi aveva cose più urgenti e più importanti da fare che aspettare qualche attimo in più davanti ad un semaforo. Come siamo strani noi uomini: corriamo senza mai fermarci come se dovessimo raggiungere qualcuno o qualcosa senza avere altro scampo. È come fossimo condannati a correre. Per questo difficilmente sappiamo ascoltare l’altro. Difficilmente ne abbiamo il tempo, difficilmente ne sentiamo il bisogno. Scappiamo dall’altro, dalle sue debolezze, dalle sue mancanze. Forse per non rischiare di incontrare le nostre.



LA MACCHINA DELLA VERITA’

In un tripudio di gente, in un continuo via-vai tra I  mercatini di Trastevere, tra I riflessi del sole calante mi accorgo di un pannello colorato e tondeggiante con sù scritto: “La macchina della verità”. Mio figlio mi dice, come se non lo sapessi già, che basta mettere la mano in quella fessura che rappresenta la bocca di quel volto della macchina perché quest’ultima mi dica la “verità”. Se metto la mano nella bocca della macchina lei mi darà un biglietto con sù scritta la “verità”. Per assicurarsi la conoscenza della “verità”, però, è indispensabile che la prodigiosa macchinetta ingoi una mia moneta. Dopo saprò tutto. Non metto alcuna moneta semplicemente perchè conosco già il mio futuro. Perderò ancor più I capelli, perderò un po’ l’udito e la vista, la mia motilità andrà scemando e mi affannerò a salire le scale di casa mia. Qualcuno delle persone a me care mi addolorerà perché la mia affettività non si ammali completamente.  Le articolazioni, che già scricchiolano, mi annunceranno giorno dopo giorno la mia galoppante fragilità, anche fisica e andrò in pensione quando forse mi servirà giovarmi di una badante. Vedrò più spesso il medico e il farmacista di quanto vedrò il salumiere. I miei figli abiteranno lontano dalla mia città e potrò vederli, forse insieme a qualche nipotino, sperando che il fuso oario e  la connessione a internet lo permettano. Pregherò tanto perché verrà anche un giorno, di una data che non conosco, che vedrò incominciare ma non vedrò la sua fine perché lui vedrà la mia. Tutto ciò non solo non mi angoscia ma, addirittura, mi aiuta a vivere meglio e più serenamente la vita di ogni giorno perché ogni giorno vissuto in più è un nuovo regalo. Comunque non finirà tutto nel buio perché vedrò una impareggiabile luce, per il momento, inaccessibile in uno splendore inimmaginabile. Quella macchinetta lì queste cose non le sa. Quella racconta ciò che la gente vuol sentirsi dire: che godrà sempre di ottima salute e non morirà mai e che uscirà fuori dalle difficoltà con un gran colpo di fortuna che, a suon di euro sonanti, risolverà I loro fallimenti per sempre. In realtà preferisco tenermi la mia moneta anziché sentirmi raccontare fandonie. Quella macchinetta non solo non conosce il mio futuro ma non conosce neppure il mio presente perché, se così fosse, saprebbe che non credo alle panzane.



MAFIA

Luglio 2016. Museo del Louvre. Sotto un sole cocente e un caldo afoso accedo, insieme a mia moglie già sbuffante per il caldo, a quello che è il più grande museo del mondo. Già dentro la Piramide di accesso a quel gran monumento delle arti e della cultura impressiona l’altissimo numero di persone e di lingue che si sentono risuonare e poi echeggiare. Sembra un formicaio in fermento. È assolutamente impossibile pensare di vedere tutto. Servirebbe moltissimo tempo. Cerchiamo di vedere, almeno, la zona della pittura dei geniali artisti italiani. Soprattutto vogliamo vedere La Gioconda, La Monna Lisa di Leonardo, un’eccellenza italiana. Chiedo informazioni ad un tizio dello staff il quale, avendomi sentito parlare con mia moglie, si improvvisa come conoscitore della lingua italiana per cui non riesco a capire nulla. Desiste, quasi subito, dall’impresa e continuiamo, su sua proposta,  in francese. La Monna Lisa si trova al “premier etage”, al primo piano del Museo, nell’ala chiamata Denon. Ringrazio il tizio ben contento che possa finire quel nostro vagare con le gambe che mi fanno male e con gli occhi che faticano a soffermarsi, tante sono le preziosità che meriterebbero attenzione. Il francese mi trattiene: Da quale parte d’Italia venite? 

Dalla Calabria – rispondo.

Calabria  ? 

Si, Calabria

Ah… Mafia !

Mi vien fuori una risata che sembrava preparata appositamente per quell’imbecille. Poi raggiungiamo la sala della Monna Lisa. Una sala enorme stracolma di gente. Di gente di ogni parte del globo la cui pelle va dal bianco ceruleo dal pelo dorato al nero più del carbone passando per le sfumature giallognole cino-nipponiche con occhietti mandorlati nonchè dal creolo-ispanico con chioma a spazzola. È una calca incredibile. Tutti vogliono vedere quell’opera unica al mondo che troneggia con toni imperiali che sanno di bellezza eterna catturata in quel dipinto dagli occhi parlanti. Alla parete opposta alla Monna Lisa c’è un’opera di un altro autore italiano, di dimensioni ciclopiche raffigurante “Le Nozze di Cana”. Alle altre due pareti altre preziosità di talento straordinariamente indicibile. I flash dei cellulari si susseguono a velocità fulminea, come fossero in gara per catturare tutto ciò che è possibile. Quando mi fermo a sorseggiare un caffè, che solo molto vagamente mi ricorda quello di casa mia, mi torna in mente quel ” … Calabria? Ah … Mafia !”

La Calabria ha due milioni di abitanti: quanti saranno I mafiosi? Quante saranno le persone oneste, laboriose, rispettose delle leggi e solidali con I più deboli? 

La gente di malaffare è, sicuramente, un numero molto esiguo che, però, fa molto rumore. Fa tanto rumore da sembrare interi eserciti in assetto di guerra. E’ la Calabria degli onesti, quella dei semplici, l’altra Calabria; quando farà sentire il suo ruggito? E gli osservatori esterni, quando si accorgeranno di quanto c’è  di autenticamente valido nella nostra Italia e nel profondo sud dello stivalone? Perchè nessuno sembra accorgersi delle tante “Monna Lisa” dipinte quotidianamente dai semplici con il pennello del sacrificio e dell’abnegazione?

È molto strano ma viviamo in una società che etichetta tutto. Non abbiamo il tempo di accorgerci dell’altro, di conoscerlo e di apprezzarlo. Non abbiamo, soprattutto, quella capacità di ascolto dell’altro da cui normalmente scaturisce la solidarietà e la scoperta della bellezza della condivisione e della comunione. Contano molto le monetizzabili sicurezze considerate, troppo spesso, certezze come se sI trattasse di áncore di eterna salvezza. Tutto ciò che sta fuori di ciò che governiamo, poiché non abbiamo il tempo di conoscerlo e viverlo, lo etichettiamo per poterlo consumare oppure evitare. Così se vieni dal sud sarai un mafioso.



SOFFERENZA

Con la sofferenza abbiamo sempre un conto aperto. È una partita che dura tutta la vita. Nella prima parte di questa lotta mettiamo ogni energia, ogni sforzo, ogni attenzione per evitare di soffrire sia noi stessi che I nostri cari. A volte tentiamo una vera e propria fuga dal patire magari rifugiandoci nell’illusione di aver vinto la gara sol perchè rivestiamo ciò che ci fa soffrire con la percezione immediata di ciò che ci sembra apprezzabilmente buono. In realtà la sofferenza rimane nascosta in silenzio dietro al prossimo angolo del nostro percorso, pronta ad azzannare  e, a volte, devastare le nostre certezze. A volte ci fa sentire che la nostra stessa vita è in pericolo o quella dei nostri figli, del nostro piccolo cosmo o delle nostre labili certezze. Scappare dalla lotta è ciò che facciamo normalmente, perchè non vogliamo soffrire ed è per questo che voragini di affettività malata ci sbarrano il passo. Ma scappare non risolve nulla anzi, molto spesso, alimenta quella innata fame di felicità scritta, fin dal principio, nel nostro spirito. Per quasi tutta la vita cerchiamo di saziare quella fame di felicità che ci lascia inquieti e, sempre più, affamati. A volte non possiamo scappare dalla realtà che ci fa soffrire ed è allora che ritroviamo insospettabili energie insieme a quella pazienza con noi stessi che ci fa assaggiare il dolce sapore del mistero che solo la sofferenza riesce a darci. Tutta la vita diventa una fuga dal soffrire, gli eventi fanno di noi dei fuggiaschi, chi non è disposto ad assecondare I nostri progetti di felicità diventa un nemico. Eppure c’ è una via d’uscita ed è molto più vicina di quanto possiamo immaginare. In realtà nella lotta con la sofferenza il Cielo vuole aprirci I misteri del suo linguaggio, vuole darci un assaggio di eternità che può essere percepita solo quando ci spogliamo degli orpelli della camuffata superbia. La sofferenza non può veramente ucciderci, perchè siamo eterni, può solo renderci più dolci, più umili, più veri, più uomini



TORNIAMO BAMBINI

Entro al bar del paese e mi accorgo del silenzio che c’è anche se siamo in pieno giorno. Mi sembra non ci sia nessuno, oltre me.  Poi, dietro il banco noto il barista: un uomo tarchiato ricco di grasso e di anni che cerca di alzarsi a fatica. Intanto chiedo un caffè. Quell’uomo si muove a fatica. Sembra tutto d’un pezzo, sembra che le articolazioni non gli funzionino da tempo. Cerca di prendere qualcosa ma gli cade di mano. – Eh, nasciamo bambini e torniamo bambini! –  mi dice. Annuisco in segno di consenso. – Non ho più forze, mi cadono le cose di mano, avverto dolori dappertutto, comincio a perdere la memoria … Eppure ero forte e correvo come un cavallo.

- Si – mi son detto – quest’uomo ha ragione. Nasciamo bambini, deboli e incapaci di provvedere a noi stessi. Saremmo già morti se qualcuno non ci avesse già strappati da morte certa volendoci bene, provvedendo a noi stessi, cibandoci con latte e affetto. Nasciamo nudi eppure, cerchiamo di accaparrarci tutto ciò che ci è possibile per rivestirci di sicurezze e di onori. Nasciamo talmente gracili che basterebbe un nulla a schiacciarci, nasciamo senza alcuna possibilità di farcela da soli. Man mano che cresciamo e ci irrobustiamo reclamiamo autonomia da tutto e da tutti pensando che la nostra originalità sia il centro del mondo e della storia, unico parametro per misurare anche l’Assoluto. Per questo ci affanniamo in imperiosi tentativi di autoaffermazione fino al punto di dividerci anche da chi ci ama. Dopo viene il tempo della malattia, della vecchiaia, dei dolori, delle articolazioni e delle certezze affievolite ed usurate. Viene il tempo in cui abbiamo bisogno dell’aiuto altrui. Come quando eravamo bambini. A volte, quando tacciono I rumori che sgorgano dal nostro “io” riusciamo anche ad intravedere I barlumi del mistero oltre cui siamo piombati su questa terra, quando eravamo deboli e indifesi e qualcuno ci accolse e ci amò. Si, ritorniamo bambini. Qualcuno dovrebbe accoglierci come “nuovi bambini”. La paura di non essere accettati come bambini anomali, di essere rifiutati ed emarginati, di essere percepiti come un peso per gli altri ci fa chiudete in noi stessi. Eppure quel barista chissà quanti tesori ha nello scrigno del suo cuore. Potrei imparare tanto anche dalle sue ferite. Forse dobbiamo, perché è necessario, ritornare bambini, ritornare a percepirci piccoli e indifesi perché è così che si deve entrare in quel nuovo mondo dove dall’utero di questa prima vita saremo partoriti.