Romano Toppan - Saggi

La creazione del mondo e dell’uomo

Il software di Dio e il bosone di Higgs

Benché il tema del rapporto tra Bibbia e management sembri bizzarro e insolito, tuttavia la sua relazione appare già evidente in molti aspetti, alcuni dei quali sorprendenti, proprio dalle prime pagine della Bibbia, nel libro della Genesi.
Dio stesso si presenta subito come un “creativo”, un imprenditore geniale, un “artigiano” e un esperto di fisica teorica, prima di Einstein, molto più di Einstein.
È tutto preso da un entusiasmo produttivo affascinante e spettacolare, capace di creare persino la luce prima ancora dei corpi celesti . Ai suoi tempi gli uomini pensavano esattamente il contrario: la luce veniva dal sole e dalle stelle. E tuttavia la Bibbia, ispirata da Qualcuno, dice che la luce viene prima del sole e delle stelle, proprio con il big bang e il bosone di Higgs: “sia fatta la luce. E la luce fu”.
L’architettura della creazione è simile ad un diagramma di un vero e proprio management con tempi e metodi: ai primi tre giorni, nei quali Dio crea le situazioni di base (giorno e notte, cieli e acque, terre emerse e piante) corrispondono simmetricamente i secondi tre giorni, nei quali Dio crea i “corpi” che li abitano (i corpi celesti, gli uccelli e i pesci, gli animali e l’uomo). Due tridui con quattro opere ogni triduo, con qualche apparente incongruenza logica: per esempio le piante sono create prima del sole e i corpi celesti (sole, luna e stelle) “dopo” la luce.
Gli scienziati hanno cercato per anni di trovare il bosone che era chiamato “la particella di Dio”, per spiegare l’origine dell’universo.
L’hanno finalmente trovata con gli esperimenti del CERN di Ginevra, diretto dalla scienziata italiana Fabiola Gianotti. Ma Dio l’aveva già inventata. È con questa particella che lui avrebbe dato
origine al mondo, con il Big Bang e con l’effetto del big bang ha fatto esplodere un immenso lampo di luce.
Dopo, dalla luce, Dio ha creato le stelle, i soli: ed ecco che dal suo database ne spuntano a miliardi di miliardi, tutte diverse tra loro, tutte bellissime, avvolte nei mantelli grandiosi delle galassie, irrequiete, veloci, che si rincorrono nell’universo con una corsa che non finisce mai, perché l’involucro definitivo in cui Dio ha racchiuso il mondo è circolare, lo spazio è fatto di tempo, e il tempo scivola sulle onde gravitazionali.

La sinfonia del mondo

L’ultima scoperta sulla creazione del mondo conferma che la poderosa sinfonia di un flauto magico accompagnò la nascita del cosmo 15 miliardi di anni fa: gli scienziati che hanno scoperto questa misteriosa musicalità dell’universo sono convinti della equivalenza tra le simmetrie musicali, la matematica e i processi celesti.
L’ordine degli astri in cielo è sintomo di una segreta armonia, di una “radiazione cosmica di fondo”, dovuta all’esistenza di tracce dei moti e delle vibrazioni di quel grumo originario dal quale ha preso forma l’universo dopo il Big Bang, confermando l’esistenza di onde “acustiche” nell’universo primordiale.

Viaggio nell’universo, senza spazio e senza tempo

Lo scienziato Carlo Rovelli è riuscito a dare una spiegazione comprensibile a questi enigmi sulla creazione del mondo: un luogo che è creato in un non-luogo, un tempo che è creato perché è essenzialmente congiunto con lo spazio e nessuno dei due elementi esiste senza l’altro.
Scrive Carlo Rovelli: “L’universo è multiforme e sconfinato, continuiamo a scoprirne aspetti, a stupirci della sua varietà, bellezza e semplicità. Più scopriamo, più ci rendiamo anche conto che quello che ancora non sappiamo è più di quanto abbiamo capito. Più potenti sono i nostri telescopi, più vediamo cieli strani e inaspettati. Più indaghiamo dettagli minuti della materia, più scopriamo strutture profonde.
Oggi vediamo quasi fino al big bang, la grande esplosione da cui 14 miliardi di anni fa sono nate tutte le galassie; ma già cominciamo a intravedere qualcosa al di là del big bang. Abbiamo imparato che lo spazio s’incurva, e già cominciamo a intravedere che questo stesso spazio è tessuto da una trama di grani quantistici che vibrano.
Quello che sappiamo sulla grammatica elementare del mondo sta continuando a crescere. Se cerchiamo di mettere insieme quanto abbiamo imparato, gli indizi puntano a qualcosa di assai diverso dalle idee su materia ed energia, spazio e tempo, che ci hanno insegnato a scuola.
Appare una struttura elementare del mondo in cui non esiste il tempo e non esiste lo spazio, generata da un pullulare di eventi quantistici. Campi quantistici disegnano spazio, tempo, materia e luce, scambiando informazione fra un evento e l’altro…
La realtà è tessuta da una rete di eventi granulari; la dinamica che li lega è probabilistica; fra un evento e l’altro, spazio, tempo, materia ed energia sono sciolti in una nuvola di probabilità” .
Dio ha dimostrato una versatilità e ricchezza di pregi e di abilità senza dubbio fuori del comune, con intuizioni inaccessibili ed inarrivabili, come quella di incatenare insieme il tempo e lo spazio, in modo da creare una cosa finita pur sembrando infinita ed illimitata, ponendo dei limiti alla sua consistenza e durata, pur non poggiando su niente altro che sia esistito prima, e risolvendo in un ambito enigmatico, ma imprescindibile, il fatto che l’esplorazione dello spazio possa continuare all’infinito pur restando in un ambito finito, e possa conciliare un inizio senza luogo in un non-luogo senza tempo.
Egli ha creato tutto con un ritmo incalzante e ordinato, con un controllo di qualità in tempo reale (“e Dio vide che era cosa buona” , ossia pienamente conforme al suo progetto).
Il mondo ha preso forma, immagine e sostanza da quella luce: Dio appare come un architetto o un ingegnere versatile e polivalente, un fisico teorico di prim’ordine e con competenze che vanno dalla gestione delle acque, alla creazione della luce, dalla investigazione degli abissi del nulla alla ricercatezza o raffinatezza decorativa degli ambienti e raggiunge il suo apice nella creazione di un prodotto, l’uomo, capace di corrispondergli come interlocutore, associandolo a sé, come collaboratore, nella gestione e nella conoscenza del mondo.

Il mondo è un cantiere aperto

Certo, per gli studi sulla evoluzione del mondo secondo la scienza moderna, quello che la Bibbia scrive non ha alcun fondamento come report rigoroso e scientifico. Ma non era questo l’intento di colui o di coloro che hanno redatto il testo della narrazione.
L’essenza del racconto è che Dio esiste prima di tutte le cose e le ha inventate dal nulla.
È lui che ha preso l’iniziativa e ha preso come linee guida nella costituzione di questa immensa impresa che è l’universo creato, il Logos (il modello), che gli ha fatto da sinopia in questo sterminato affresco.
La narrazione biblica introduce, perciò, in modo netto l’idea che la perfezione e l’eccellenza sono un percorso, che tutto è suscettibile di miglioramento continuo, che nulla è attuato in un colpo solo, neppure da un essere che pure potrebbe permetterselo.
Probabilmente vi è qualcosa di intrigante, misterioso e pieno di fascino in questo “metodo”: la parola viene dal greco μετα την οδον attraverso la strada, attraverso il percorso, ossia cammin facendo. Dio è come noi, nel momento in cui scopriamo che la nostra essenza stessa è un viaggio, un cammino.
Il genio dell’opera d’arte si “rivela” gradualmente, come accade a qualcuno, molto vicino al modo di essere di Dio; per esempio, Michelangelo, nell’opera di scultura. Se noi siamo simili a lui, allora io penso a Dio come ad un essere che ha somiglianza con i migliori di noi, come appunto Michelangelo, oppure Caravaggio, Mozart, Einstein.
Michelangelo afferma, nei suoi scritti, che egli vedeva chiaramente ciò che avrebbe generato (il suo Davide, il suo Mosè o la sua Pietà) ancor prima di dare il primo colpo di scalpello. Inizialmente prigionieri del marmo, questi capolavori sono giunti alla luce, nella forma perfetta e definitiva, in modo graduale. Ed era certamente impagabile il “piacere” di veder sorgere il sole delle sue opere attraverso i preliminari della preparazione della materia e degli utensili, dei disegni e dell’allestimento dei ponteggi, con l’effetto di una finale rivelazione.

Dio è uno scienziato evoluzionista

E anche a Dio piace un creato che si “dipana”, che tesse le sue trame per impulso interiore.
La evoluzione ci ha poi dimostrato, attraverso i suoi studi, che la creazione di Dio era e rimane un progetto, dotato di una spinta endogena, tanto da far dire ai nostri scienziati che il “creato” sembra stato “avviato” più da un artigiano divertito e un po’ bizzarro, che ha posto all’interno del mondo un dispositivo autoportante e auto-generante, come se fosse una macchina del moto perpetuo.
Jaweh è paragonato all’aquila che aleggia (y’raheph) sopra i suoi piccoli per stimolarli al volo: librandosi sugli aquilotti, l’aquila genera un effetto “causativo” esplicito.
Analogamente, aleggiando sulla superficie delle acque, lo Spirito di Dio (Pneuma, soffio di vita) sembra stimolare i viventi a “balzare” dalle acque: “brulichino le acque” (Gen. 1,20). Questo concetto “evoluzionistico” coincide perfettamente con il darwinismo e cancella in modo inequivocabile tutte le teorie fondamentaliste, che interpretano la scrittura con le idee “fossili” che hanno in testa e non con i “fossili” che confermano il contrario.
Memorabile, in questo senso, il gesuita Teilhard de Chardin, che ha tentato di unire, proprio grazie alla teoria evoluzionistica, la storia della materia e la storia dello spirito, in un’unica visione del divenire che entrambe le comprende.

Dio come imprenditore

Il modo con cui la Bibbia descrive il comportamento dell’imprenditore divino è come un incommensurabile algoritmo che governa i processi che sono avvenuti in modo assolutamente criptico, solo in piccolissima parte esplorato.
Basti pensare al desiderio che tutti abbiamo avuto di scoprire la “particella Dio”, il bosone di Higgs, e di che cosa è fatto quel 95% dell’universo di cui non conosciamo neppure il concetto, pazienza la formula.
Ne esce la figura di un imprenditore deciso ad una responsabilità diffusa, decentrata e motivante, associando tutti gli attori o operatori, anche i più umili (pensiamo alle amebe primordiali), a sviluppare tutto il loro potenziale, a dar fondo a tutte le loro risorse creative implicite e a diffonderle, con un processo di miglioramento continuo, fino a predisporre dei veri e propri “salti” di qualità e di complessità.
L’autocorrezione, insita nella radice stessa di questa enorme pianta strepitosa ed esagerata, porta ad un equilibrio cosmico attraverso il gioco di attrazione e repulsione. Il creato è, in realtà, una dialettica continua e paradossale che si tiene in piedi per miracolo. Ogni tanto esplode qualcosa, muore qualcos’altro, tutto torna, ma avvolto in un mistero che ancora oggi nessuno è riuscito a decifrare, anche se Einstein e i geni pari a lui hanno intuito qualcosa; ma si sentivano un po’ presi in giro da “qualcuno” che la sapeva più lunga di loro.

Dio è un inventore innovativo

Come si possa conciliare la materia oscura, i buchi neri e quel che resta del mondo, la vita e il soffio illimitato del nulla, la stabilità delle evoluzioni dei pianeti dei sistemi solari come il nostro e la fuga a folle velocità delle galassie verso non si sa dove e non si sa come, rimane tuttora senza risposta.
Tutto questo sancisce ed implica un “livello di management” talmente complesso, in mezzo a tutto questo caos apparente, da togliere il fiato e mettere a dura prova la nostra capacità di giudizio sul genere di profilo gestionale e progettuale che caratterizza Dio.
Anche per Dio vale la definizione di Schumpeter che affermava che l’imprenditore è “colui che crea cose nuove ma anche nuove combinazioni di cose vecchie”, come un cantiere in progress. Il risultato della creazione è, pertanto, più simile ad un immenso bricolage di combinazioni, ricombinazioni, rilanci di nuovi prodotti sulla scena del mondo e improvvise obsolescenze, come i dinosauri.
E tuttavia ha voluto associare noi uomini (l’uomo a sua immagine) in questa opera, in questo cantiere aperto. Molto di più di quanto ci stupirebbe il fatto che il Presidente di Goldman Sachs (detto anche “padrone dell’universo”) , una mattina, del tutto impazzito e ignaro delle conseguenze del suo gesto, chiamasse all’incarico di seguire i complicatissimi algoritmi dei derivati e di tutti i “frattali” della finanza creativa una pulce trovata per caso sulla coda del suo schnauzer.

Il benessere organizzativo: anche Dio ha lo stress

Questo manager e imprenditore vuole lasciarci un messaggio, nel quale raggiunge il massimo vertice della propria intelligenza anomala: si riposa .
Ha lavorato tutta la settimana, ma “il settimo giorno si riposò” .
L’autore della Genesi, che ignoriamo, ma che deve essere stato sicuramente ispirato da Dio, per dire una cosa del genere, assolutamente inaudita per i suoi tempi , anticipa con questa breve frase tutti i concetti che noi assegniamo al “benessere organizzativo”, al rapporto tra felicità e lavoro, tra tempo di lavoro e tempo libero. Dio inventa lo Shabbat.
L’invenzione dello Shabbat (parola ebraico per “sabato” o giorno di festa e di riposo) è straordinaria e rivela una concezione della gestione dell’impresa e della organizzazione del lavoro che suona come uno dei regali più belli che la cultura biblica del popolo eletto abbia fatto al mondo e alla stessa vita, al senso della esistenza tanto della natura che dell’uomo.
Ora sappiamo che persino Dio prova lo stress nell’impegno del proprio lavoro, benché lo scandisca con una gestione del suo tempo in modo ordinato, secondo le priorità stabilite dal suo “Logos”, facendo intervenire al momento opportuno anche il suo braccio destro, il suo “amministratore delegato” per eccellenza, che è lo spirito (πνευμα) che soffia sulle vele che il creatore ha appena issato all’inizio della navigazione del tempo e subito dopo il nulla informe e privo di potenza.
Egli sospinge questo gregge ancora abbozzato di schizzi, disegni, progetti e materiali grezzi verso un cammino di metamorfosi, ricomposizioni, apparizioni e scomparse, evoluzioni verso la bellezza, la interdipendenza dei pianeti, degli astri e della materia oscura nella loro reciprocità di masse, e la interdipendenza delle creature della terra, nella loro reciprocità profonda, sia con la natura inanimata che con le pulsioni delle loro vite e della loro stessa sopravvivenza.
Quando noi guardiamo i risultati finali nei paesaggi stupendi, nelle montagne, come nelle valli, nei grandi fiumi, come nei ruscelli, nei ghiacciai, come nelle foreste, nelle baie, negli azzurri dei laghi come nei riflessi meravigliosi dei tramonti, dobbiamo ammettere che l’amministratore delegato (τό πνευμα), ha soffiato nelle direzioni giuste, ha plasmato le forze della natura, soprattutto in assenza dell’ultimo essere pensante e cosciente, attraverso fenomeni impetuosi e imponenti .

Sottile è il Signore

Il suo amministratore delegato è vivace, forte, talvolta impetuoso, quasi sempre sottile: “Sottile è il Signore, ma non malizioso”, direbbe Einstein! . A chi gli chiedeva che cosa intendesse con queste parole, Einstein rispondeva che “la Natura nasconde i suoi segreti non perché ci inganni, ma perché è essenzialmente sublime. Sublime nella superiore armonia, fatta di semplicità, delle leggi in cui risiede la spiegazione ultima della complessità del reale”. Egli lavorò tutta la vita a scoprirle, e di certo visse, lui che non era uomo di preghiera, in maniera profondamente religiosa, se ciò significa “non aver dubbi circa il significato e la grandezza di quegli obiettivi e di quei fini che trascendono la singola persona e che non necessitano né sono suscettibili”.
Ma tornando allo Shabbat, giorno del riposo di Dio (“il settimo giorno”), che cosa sarebbe il lavoro se non ci fosse il non-lavoro, il riposo, la lieta assenza della fatica e degli impegni produttivi?
Il mondo è stato fatto per essere oggetto di continua trasformazione, ma anche per essere “goduto”. E se in quasi tutto il resto lo stile della narrazione biblica evoca e ricorda il poema di Gilgamesh degli antichi sumeri , questa idea dello Shabbat è assolutamente improponibile come frutto di un autore umano. Lo Shabbat era una rottura del ritmo lavorativo non solo per le classi agiate e potenti, ma per tutti. Una invenzione totalmente e pienamente democratica, una specie di “welfare universale” (erga omnes).
Nelle dispute di Gesù con i farisei, sappiamo che persino gli animali erano tenuti al riposo assoluto nel giorno dello Shabbat.
Il tema dello Shabbat tornerà poi anche come riposo della terra tutta, con la celebrazione dell’anno giubilare, che introduceva una novità assoluta nella relazione tra l’uomo e gestione delle risorse naturali alla luce della sostenibilità e della responsabilità sociale.

La sostenibilità nella creazione del mondo

Le prescrizioni del giorno dell’espiazione o kippur appaiono come un prolungamento dell’anno giubilare o sabbatico e si inseriscono nell’insieme di leggi di carattere religioso, morale e sociale del Codice dell’Alleanza o del Patto.
Il Giubileo, che veniva celebrato ogni 50 anni e che è stato recepito anche nella tradizione cristiana, aveva una dimensione prevalentemente sociale, ma essendo ancorato all’Alleanza sinaitica, aveva anche un profondo significato religioso. Esso veniva solennemente annunciato dalla tromba (Jôbèl) nel “giorno dell’espiazione “o kippur (Levitico 25), che si celebrava ogni anno (settembre-ottobre) e che era giorno di penitenza, preghiere e sacrifici. Il fondamento religioso di queste leggi appare evidente: nel riconoscimento del dominio del Dio Creatore su tutto, per cui l’uomo è soltanto un possessore relativo, temporaneo (Deuteronomio 15; 23,10-11; Levitico 25,1-7).
Un proverbio keniota, molto citato dai testi sulla sostenibilità, dice: noi non ereditiamo la terra dai nostri padri, ma la riceviamo in prestito per i nostri figli.
Le tre prescrizioni giubilari erano:
– il riposo della terra durante un intero anno;
– la restituzione della proprietà fondiaria a coloro che l’avevano perduta;
– la libertà di coloro che erano diventati schiavi a causa dei debiti.
L’idea che presiede a questa istituzione è di impedire il pauperismo e la schiavitù e di favorire uno sviluppo equilibrato, sia in rapporto all’uso delle risorse (la terra) che in rapporto alla dignità dell’uomo e alla salvaguardia della distribuzione dei beni e delle fonti di reddito. Inoltre, l’anno sabbatico non equivaleva ad un anno di “ozio “, ma ad un periodo nel quale si era invitati a dedicarsi prevalentemente a lavori di “utilità pubblica “(insediamenti, pozzi, canali di irrigazione e di bonifica ecc.).
Questo ritorno periodico delle proprietà e delle persone al loro stato precedente, faceva sì che né l’indigenza assoluta né la schiavitù potessero diventare la condizione “definitiva “di nessuna famiglia, di nessun individuo. Ezechiele (Ezechiele 46, 17) chiama l’anno giubilare “šenat hat-derôr”, anno di libertà ed è simbolo anticipato della salvezza (Isaia 61, 1-2).

Il Giubileo contro il capitalismo predatorio e i diritti “acquisiti”

Il mancato rispetto di questo impegno del Giubileo suscita lo sdegno dei profeti. Isaia e Michea parlano di coloro che aggiungono casa a casa, campo a campo e occupano tutta una regione, in dispregio della legge giubilare: eccessi di “capitalismo “predatorio che attirano la vendetta di Dio.
Vi era, inoltre, un palese intento di segnalare il contrasto profondo con le civiltà vicine (Babilonia ed Egitto), nelle quali il latifondismo era la forma economica dominante.
Ad esempio, la casta sacerdotale degli Egizi era, subito dopo il Faraone, la più grande proprietaria terriera dell’antico Egitto. Akhenaton è passato alla storia come il faraone eretico per il tentativo di sostituire, in conflitto con il potente clero tebano, il dio Amon e tutti gli degli egizi con un nuovo culto monoteista adoratore del dio Aton.
In realtà non fu tanto il monoteismo a sollevare la ribellione della casta sacerdotale, ma la minaccia di perdere i benefici derivanti dal culto di Amon, divinità solare tebana. Il suo ruolo di protettore della regalità comportava un enorme potere per il suo tempio principale situato a Karnak, e i suoi sacerdoti, nel corso dei secoli, avevano ricevuto in dono terre ed altre proprietà fino a diventare quasi uno stato nello stato ed a influenzare anche le scelte sulla successione al trono d’Egitto. La famosa Hatsheput, detta il re-donna, derivò il suo potere dal favore goduto presso il clero di Tebe.
L’egemonia dei privilegiati era assoluta e lo stesso codice di Hammurabi, che sanciva il diritto di proprietà terriera, in realtà introdusse questo principio per favorire la “irreversibilità “della costituzione dei latifondi, perché il malessere dei piccoli proprietari indebitati (o resi schiavi per debiti) non potesse in alcun modo costituire un diritto implicito alla restituzione della libertà o alla rivendicazione del possesso.
In altre parole, Hammurabi sancì per primo la sciagurata regola dei “diritti acquisiti”, che in realtà sono nella maggior parte dei casi “privilegi acquisiti”, anche se in modo mafioso e collusivo con il potere costituito, affinché i poveracci ai quali erano stati tolti i campi o i beni non potessero in alcun modo rivendicare la loro libertà dalla schiavitù per debiti o la restituzione del maltolto.
Quello che accade in Italia con i piccoli (artigiani, piccole imprese ecc.): l’apparato fiscale e persino (di fatto) l’apparato giudiziario sono molto protettivi per i ricchissimi, ai quali permette evasioni, prescrizioni ed elusioni macroscopiche, mentre, con il filo di spada di Equitalia o del codice esercita una violenza sui “piccoli” , perfino peggiore del Codice di Hammurabi: come dire che a distanza di quattro mila anni, siamo costretti a rimpiangere addirittura quelle civiltà schiaviste.
L’Italia è una nazione ampiamente specializzata sui “diritti acquisiti” che sono invece “privilegi”, con l’aggravante che è un paese nel quale non sarà mai celebrato un anno “giubilare”, malgrado la sua sedicente fede cristiana. Qualcuno ha scritto che il cristianesimo in Italia è stato ed è come l’acqua che scorre sopra un ciottolo e lo bagna solo in superficie: se spacchi il ciottolo, dentro è ancora asciutto e arido, anche dopo duemila anni (naturalmente salvo eccezioni: perché persino in Italia ci sono state e ci sono ancora persone che credono veramente).
Questo fenomeno ha avuto eco anche oggi nella controversia tra i mapuchi e i latifondisti cileni, ai quali i moderni Hammurabi (per esempio Pinochet) assegnavano diritto di proprietà.
E i governi di molti stati (in Italia e in molti altri stati del mondo) fanno lo stesso, quando danno “concessioni” privilegiate, contratti fraudolenti, bustarelle e tangenti ai “pochi” che già hanno tutto: i politici amano questa gente sopra ogni cosa, quasi “fisicamente”, permettendo a questi pochi di ingrassare in mille modi a scapito dei molti, specialmente dei deboli e dei poveri. In Italia, ad esempio, ci sono concessioni “privilegiate” con proprietà statali e pubbliche per lo sfruttamento privato degli arenili delle spiagge, delle autostrade, delle estrazioni (acqua minerale, petrolio …), fino alla creazione di lavori falsi o fittizi ma ben pagati, alla trivellazione in aree protette, agli abusi di ogni tipo, alle acciaierie che distruggono l’ambiente e fanno morire persone, perfino alle discariche di rifiuti tossici che politici e capi condividono sulla pelle della madrepatria e di cittadini comuni e di persone povere o deboli (come i bambini) e, come tali, considerati un “nulla” .

La creazione e le vie dei canti

La lettura dei documenti principali della sostenibilità, dalla Dichiarazione di Rio a quella di Johannesburg, dicono esattamente le stesse cose, compreso il problema (sul piano planetario) della remissione dei debiti per i paesi molto poveri.
Tracce del principio di sostenibilità, sono riscontrabili anche in numerose mitologie e tradizioni simboliche di popoli e di civiltà diverse da quella occidentale che, divenendo dominante, ha finito con l’occultare l’apporto di queste civiltà e con il rimuoverle, molto spesso con l’uso della violenza.
Eppure, rileggendo la lettera del Capo indiano Seattle (posta in appendice al capitolo) oppure valutando con attenzione la visione del mondo e della natura che emerge dal testo di Bruce Chatwin “Le vie dei canti “ . In questo libro straordinario, Chatwin riporta la “cultura” degli aborigeni dell’Australia nei riguardi della terra, del paesaggio, del territorio: essi lo paragonano ad un testo musicale, dove sono incise, fin dai tempi della creazione (avvenuta attraverso il canto), le note di una armonia sacra e il rispetto per la natura e l’ambiente di questi popoli era straordinario.
Si coglie molto bene quanto alcune civiltà, che noi occidentali abbiamo distrutto, avessero già pienamente elaborato il principio della sostenibilità e si comportassero realmente secondo tale principio.
Pertanto, il concetto di sviluppo sostenibile non è una scoperta del nostro tempo: l’ispirazione è molto antica. Ha radici che risalgono all’Antico Testamento e sono correlate alla enunciazione di un evento che ancora oggi è celebrato, il Giubileo.

La creazione dell’uomo: un prodotto difettoso?

A questo punto la Genesi si occupa in modo mirato dell’ultimo processo creativo di Dio, ossia la creazione degli uomini (uomini e donne insieme). Qui le cose si complicano, perché l’ultimo arrivato, grazie ad una scintilla di somiglianza con il suo creatore, si è dedicato ad una gestione che si è conclusa rapidamente con una bancarotta ed un fallimento.
Se dovessimo giudicare Dio dalle conseguenze e dalle non conformità che sono scaturite da Adamo (o, meglio, dagli “adam” ) e, via via, da tutti i suoi (loro) discendenti, compresi quelli che hanno fatto parte del popolo eletto (gli ebrei), e poi del popolo cristiano, è difficile che Dio superi l’esame di una visita ispettiva secondo le norme ISO 9000. In altre parole, Dio si è rivelato un pessimo head hunter.
La sua produzione, nel caso dell’uomo, si è fatta incerta, precaria, piena di difetti e con ostacoli a non finire sul concetto di miglioramento continuo.
Piuttosto, siamo in presenza di una produzione vasta sì, ma talmente difettosa e spesso impresentabile, da suscitare seri dubbi sulla lucidità e capacità di previsione di Dio sull’esito del proprio investimento, tanto da indurlo a pentirsene amaramente, al punto che se non vi fosse stato Noè, l’unico “prodotto” conforme alle aspettative, gli “adam” sarebbero scomparsi dalla faccia della terra, come i dinosauri.
Mentre su tutto il resto egli ha dimostrato una versatilità e ricchezza di pregi e di abilità senza dubbio fuori del comune, con intuizioni inaccessibili ed inarrivabili, nella creazione dell’uomo ha preso un vero abbaglio.
E tuttavia, la creazione di Adamo, degli adam, ci propone, in modi diversi, ma egualmente suggestivi, il tema della relazione tra Bibbia e management, proprio nelle premesse con le quali è stata avviata la catastrofe del primo manager della storia che, messo a gestire un Parco Tematico pieno di bellezza, lo ha fatto chiudere dopo poco tempo per fallimento, con conseguenze letali su tutti i discendenti che si portano appresso questo marchio di incompetenza, stupidità e malvagità per sempre, salvo un paio di eccezioni che sembrano del tutto plausibili: Gesù di Nazareth, che è figlio del creatore, e sua madre.
Fatte salve queste due creature, il resto si fa fatica a considerarlo un prodotto di pregio. Gesù e sua madre sono le uniche che veramente e senza alcuna esitazione meritano un verdetto di soddisfazione totale e assoluta all’interno di tutta la produzione “umana” di Dio e della sua moltiplicazione per opera del soffio-pneuma sulle vele dispiegate dell’eros.

Tutti pazzi per l’eros

L’eros (la sessualità) è un segno della somiglianza dell’uomo con il suo creatore, e che il soffio-pneuma sospinge come mezzo d’amore e di congiunzione per far continuare la creazione dell’essere umano lungo i secoli e colmare il gap temporale tra i primi esseri umani, uomini e donne, usciti dalle mani di Dio e l’ultimo che ci sarà alla fine del tempo. Il respiro-pneuma che spinge l’attrazione reciproca di uomini e donne con l’eros, spinge tutti gli esseri animati e inanimati con forme di attrazione sessuale e altre forme, nella loro moltiplicazione, perpetuazione e dinamiche reciproche: animali, uccelli, pesci, molluschi, fiori, frutti, piante, combinazioni chimiche, cellule, pianeti e stelle … Tutto si muove in una ventata di attrazioni e armonie reciproche. Eros è la forma più nobile e avanzata di questa gioia creativa di Dio e contiene nel suo irresistibile piacere che lo muove, un riflesso della sua soddisfazione dopo la creazione (“vide che era buono” ).
Il concetto di cammino della creazione in generale, uomo compreso, appare qui evidente: anche l’uomo è stato una bozza iniziale, uno schizzo, e molti schizzi sono andati perduti per strada, perché finiti contro gli scogli o in vicoli ciechi, altri hanno avuto più fortuna, e sono stati sospinti dallo pneuma verso mete più sicure e stabili, verso forme di adattamento e compatibilità ambientali più perfette.
Sulla riproduzione dell’uomo, è interessante fare una riflessione immediata, sempre sulla traccia lasciataci dal libro della Genesi, ossia sulla sessualità come percorso designato per la continuità della creazione dell’uomo.

Il sesso come forza meravigliosa di origine divina

Anche se questa forza meravigliosa, chiaramente attribuita fin dagli inizi, durante la breve esperienza nel Parco Tematico, come uno dei segni inequivocabili della somiglianza con Dio, ha generato, dopo il fallimento, una quantità incalcolabile di schifezze e di abusi, da far dubitare seriamente della sua origine divina, tuttavia è cosa assolutamente certa e inattaccabile che la sessualità sia uno dei tratti precisi di questa somiglianza.
La qualità di un dono non si misura con la volgarità e la mancanza di gratitudine, di gentilezza e di “educazione” di colui che lo riceve, così come la qualità di una dote non si misura con la renitenza, la sordidezza, la sporcizia di uno che poi la dissipa e la corrompe.
Il “non mangiare dell’albero del bene e del male” significa non interiorizzare la pretesa di fare violenza alla natura intima di un bene, arrogandosi il diritto e l’arbitrio di decidere quello che si vuole di quel bene.
Mangiare, nella cultura ebraica della Bibbia, significa assimilare, significa conoscere, esattamente come avere relazioni sessuali, intime (Adamo “conobbe” Eva e nacque un figlio…; e “Come posso avere un figlio se non “conosco” uomo? dice Maria di Nazareth).
Il fatto che la sessualità sia entrata nell’ambito di una conoscenza deturpata dall’arbitrio, attraverso il “mangiare” del frutto dell’albero proibito, finisce per dare alla sessualità un rapporto profondo con il fallimento di Adamo ed Eva: invece di godere dell’albero della vita, attraverso la felicità e l’intimità, che erano a loro disposizione, per il fatto stesso che la loro somiglianza con Dio era rappresentata dal loro essere maschio e femmina, preferirono ascoltare il loro avvocato matrimonialista che ha loro propinato la “separazione” dalla conoscenza reciproca che li rendeva simili a Dio, per preferire la conoscenza “infida” di un essere invidioso, che si era separato prima di loro dal suo creatore, con la ribellione di Lucifero.
Egli per primo aveva preferito l’arbitrio incondizionato, libero dalla gratitudine (ossia dalla “grazia” di Dio), che in realtà è obbedienza dolce, obbedienza del vero bene, della direzione giusta del proprio essere. Evidentemente lo specchio con il quale il diavolo si guardava era deformante e il narcisismo gli ha giocato un brutto scherzo, lo stesso che poi lui ha giocato ai primi uomini.
E così, per induzione e manipolazione del consenso, molto simile alle truffe pubblicitarie o finanziarie (come i bitcoin, che fanno diventare miliardari in pochi minuti!), anche Adamo ed Eva avevano optato per quella direzione che fa perdere il senso della realtà, come la mania di grandezza e la presunzione di voler essere come il proprio creatore, solo perché gli assomigliamo un pochino.

Peccato originale: truffa e bancarotta

Questo fenomeno, che sta all’origine della bancarotta, è una specie di “bolla speculativa “: sentirsi al centro del mondo, pensare che siamo padroni di noi stessi, degli altri e del mondo è una inclinazione ormai incarnata dentro di noi, un imprinting dovuto al primo uomo.
Gli adam hanno preferito la “speculazione” più rischiosa, seguendo il suggerimento degli esperti dei derivati, ossia di coloro che si credono padroni del mondo : “sarai come dio”, diventerai ricchissimo, senza meritarlo, senza fatica. Il diavolo si traveste in mille modi e inganna dovunque, con chiunque, e si nasconde, si mimetizza, preferisce i circoli segreti, le riunioni massoniche, le cupole.
Il sole, la luce, la trasparenza gli danno fastidio. Le e-mail che i manager della Goldman Sachs si scambiavano nel bel mezzo della crisi dovuta alla loro truffa intenzionale sono esattamente la stessa cosa del messaggio del serpente.
L’idea di disporre di mezzi illimitati, sproporzionati al proprio merito, ingigantiti dall’ebbrezza di sembrare onnipotenti, di farla franca comunque, a spese degli altri, è quello che è accaduto ai primi adam, che hanno giocato in borsa al rialzo, non sapendo che il titolo di “dio” che il serpente gli ha venduto, era fasullo quanto i titoli Abacus o i derivati.
Quando si crede di poter disporre “senza limiti” di una potenza anche solo presunta, vediamo che immediatamente arrivano puntuali i comportamenti più aberranti. Le forme di crudeltà più efferate che l’umanità registra ogni giorno, dalla cronaca e dalla storia, sono sempre dovute all’effetto dei deliri di onnipotenza che travolgono uomini o donne, i quali, solo un attimo prima di cadere in questo stato percettivo di sentirsi dio, sono persone normali, che riescono a controllare il proprio essere entro i limiti della compatibilità e conformità sociale adeguata.
È sufficiente avere il dominio incontrollato di prigionieri, di carcerati, di fedeli della propria setta, di bambini e bambine indifesi, ecc. e sentirsi “immuni” da una resistenza efficace dell’altro, per rendere gli uomini mostri disumani e orribili, come nella pedofilia. In questo caso, lo strumento della paranoia abusiva e speculativa” (la bolla “mentale” di sentirsi come dio), colpisce l’essenza stessa della nostra somiglianza con Dio che è la sessualità, la pulsione verso l’amore e il dono di sé, la fusione verso la felicità. E la corrompe.

I non-luoghi della criminalità

Nel mondo aziendale e delle organizzazioni, nascono in questo modo il mobbing, i ricatti sessuali che intercorrono talvolta tra manager e sottoposti, tra politici e sudditi, oppure le forme, più o meno subdole, di ricerca del capro espiatorio: tutte cose odiose, ma diffusissime.
Qui il diavolo, che entra nella mente del predatore e del persecutore, ne amplifica le tendenze innaturali della ricerca del proprio profitto e godimento a danno dell’altro, soprattutto se indifeso e incapace di difendersi dalla predazione.
L’inferno è una rappresentazione teologica, un non-luogo, nel quale tutto si svolge in questo modo: esso consiste nel creare tutti insieme un carcere, una città come Ciudad Juarez, una periferia che è una specie di non-luogo o terra di nessuno tra la terra e l’inferno.
Molti non-luoghi dove domina la criminalità efferata in ogni parte del mondo e nei quali le esercitazioni indotte dal serpente raggiungono la loro performance più alta e totale, coincidono con l’inferno almeno tanto quanto la mistica dell’orgasmo e la bellezza della musica di Mozart coincidono con il vissuto permanente del paradiso.
Il “paradiso” non è un non-luogo di cui non sappiamo nulla: sia la Genesi, che i Salmi (in fresche acque mi conduce), che i Profeti (soprattutto Isaia), che l’Apocalisse, ci mandano cartoline illustrate molto chiare: il paradiso sarà esattamente quello che vediamo ora in quei siti (magari ormai rari) che esistono sulla terra attuale, ma senza le mosche o le zanzare, ma soprattutto senza i “serpenti” (del nazismo, del KGP, della Stasi, di Scampia, di Ciudad Juarez, dei Gulag, di Abu Ghraib, di Nosferatu).
Il copione della storia umana è sempre quello: Adamo ed Eva, il diavolo, la mania di grandezza, lo sfruttamento della natura e dell’uomo, la fuga dal bene, la donna, il bambino, l’embrione, l’indifeso, il povero, l’ebreo della Shoah.
Nel primo libro della Bibbia Dio invita gli adam di essere “gestori” del parco tematico (Gan Eden: Gan = parco, oasi in mezzo all’Eden, ossia in mezzo al deserto) nel quale poter godere di tutto quello che rende lieta e felice la vita di un uomo, “all’unica condizione” di non montarsi la testa, di non travalicare la coscienza di sé come creatura (e non considerarsi dio), di non scendere a patti con il diavolo, ossia con l’opinione di colui che per primo ha spezzato il patto di gratitudine e di riconoscimento del dono di essere stato creato da un “Altro” da sé.
Milton, nel Paradiso perduto , fa dire a Satana, in un terrificante dialogo con il suo braccio destro Belzebù, che egli si era ribellato a Dio, suo creatore, “perché non sopportava più di dovergli essere grato per tutta l’eternità”.

Il reclutamento di Adamo e la silicon valley

Dio, quando decide di nominare l’uomo “manager” o Direttore Generale del suo Ministero delle attività produttive, fa la selezione tra la polvere, per terra, sulla strada fangosa del nulla.
Vi è, tuttavia, un grave equivoco all’origine del mito della “felicità” originale dell’uomo come viene tramandato dalla cultura ebraico-cristiana: il mito dell’Eden, che noi identifichiamo con il termine felicità.
In realtà, una lettura attenta e filologica dei primi passi della Bibbia ci dice che l’uomo è stato creato da Dio attraverso l’aphar, la polvere, in un luogo chiamato eden, che vuol dire steppa arida, spoglia, priva di alberi e di acqua, e che solo “successivamente” Dio invitò Adamo a entrare nel parco tematico.
Ed è appunto in un Gan Eden che Adamo visse la sua esperienza di felicità insieme alla natura, agli animali e, da ultimo, alla donna. Felicità che, a causa della pubblicità ingannevole del diavolo, venne perduta per sempre come status, per essere conservata come memoria, come nostalgia o come utopia.
L’uomo, cacciato dal “giardino” dell’Eden, si è ritrovato nuovamente da dove è partito, ossia nella steppa (eden) e nella polvere (aphar) e su questa steppa arida e su questa polvere diviene capace di creare un mondo “nuovo”, di plasmarlo, di goderlo, di sentirsi realizzato e motivato ad esistere, a provare esperienze ed emozioni, a raggiungere la “conoscenza” e la competenza, proprio attraverso un cammino e non più attraverso un “regalo” .
L’uomo è ancora nell’eden (steppa), in lista di “attesa” per costruire il “giardino” dell’eden e di entrarvi: il giardino è perciò nella sua “mente” e nella sua memoria, come la memoria antica e profonda dei canti degli antenati degli aborigeni dell’Australia o come una eco che il lavoro del nostro inconscio attinge dai bagliori della presenza di Dio quando camminava leggiero con Adamo nel giardino e il suono dei suoi passi rimane impresso quasi impercettibilmente nei nostri cuori.
In altre parole, il gesto creativo di Dio “organizza” e rende intelligente l’aphar, la polvere del deserto e lo organizza come un sistema organico con sofisticati software . Ossia da qualcosa di caotico, casuale, aleatorio, Dio ricava un essere intelligente e cosciente e gli dà la somiglianza con lui nella sorprendente gioia della creatività come compito e della sessualità come energia motivante e di continuità . Dio è un genio.

L’uomo e il lavoro

La condanna di Dio a Adamo affinché “lavori” la terra “con il sudore della fronte”, significa che il suo compito era da sempre, fin dall’inizio, quello di “lavorare”, organizzare, rendere determinato qualcosa di indistinto, rozzo (“raw materials”), proprio attraverso l’ingegno. L’uomo è chiamato a rendere vivibile il mondo, soprattutto nel senso della bellezza, che, come scriveva Dostoevskij, salverà il mondo .
D’altronde, il lavoro della terra suggerisce che il verbo greco αροω e quello latino “arare” contengono la radice sanscrita “ar” dalla quale provengono tutti i vocaboli che significano la “bellezza”, ossia un lavoro che trasforma qualcosa di grezzo e informe in qualcosa non solo di utile, ma soprattutto in qualcosa di bello , di armonioso, e dalla quale derivano le parole del latino ar-s e ar-tifex, con una proliferazione di altri termini, tutti debitori di questa stessa radice sanscrita “ăr”, che sono le attuali ar-te, ar-tistico, ar-tigiano, ar-tista, ar-monia: ossia l’uomo capace (eccome!) di creare bellezza e ingegno.
La vera felicità, perciò, non può che essere una conquista, individuale e collettiva, “volontaria”, di tipo morale e politico; il suo carattere di conquista coincide con il paradigma del “cammino”, del già e del non ancora, per stabilire un equilibrio in progress tra le aspettative e la realtà, senza spostare mai in eccesso le aspettative e senza rimuovere la realtà limitata e anche sgradevole.
É in questa situazione immanente di ricerca, investigazione, attesa e fiducia, sia in se stessi (autostima) che negli altri (capitale sociale), che si manifesta un accesso realistico ed effettivo allo stato di felicità.
La felicità che gli adam originari volevano conseguire in modo diverso dal cammino e dalla fatica (l’inglese travel è cammino, ma i neolatini trabajo, travaglio, travail, significano fatica), grazie alla loro credulità alla promessa ingannevole di una fiction ben costruita dal serpente (con la quale proponeva e prometteva a loro di essere più di quello che potessero essere), deve conseguirla con l’impegno della volontà e quindi della libertà .
Anche Eva dovrà conseguire la sua missione attraverso un “travaglio”. La parola con il quale noi traduciamo l’espressione “partorirai con dolore”, in aramaico non significa “dolore”, ma “affanno”, “difficoltà”, “travaglio”. Anche nella sua vita entra il concetto di travel, di cammino.
Anche le donne, come gli uomini, potranno raggiungere la felicità solo attraverso una conquista, un travaglio, un percorso.

Il manager tra polvere e bellezza: un sottile diaframma

Già dalla prime pagine della Bibbia, noi possiamo cogliere elementi di giudizio riconoscibili nella loro perenne attualità.
Gli imprenditori (e i manager con loro), sono responsabili della trasformazione della polvere in bellezza, in benessere, in felicità.
La fiducia che le compagnie ripongono nelle loro capacità e competenze implicano che essi sono responsabili:
1. delle risorse umane che sono state loro affidate perché siano valorizzate e orientate verso una competenza sempre più adeguata,
2. delle risorse materiali e finanziarie che hanno il compito di portare verso un miglioramento continuo, verso l’eccellenza e la soddisfazione di aver compiuto un lavoro produttivo per loro stessi e per i consumatori.
In che modo rispettano la “responsabilità sociale” delle imprese che sono stati chiamati a guidare? Come è la loro leadership?
Le manifestazioni che alcuni di loro hanno di questo ruolo e di questa posizione sono state spesso di natura “ostentativa”, orientate a costruirsi attorno un’aura di onnipotenza, di deformazione onirica, di grandeur, di status symbols idonei a spremere un distillato della propria competizione con dio. Al contrario di questa tipologia di management, riconosciamo nella parola di Dio anche i segni di quei manager che accolgono in pieno il motore intimo del loro ruolo, come è scritto già nei primi capitoli della Genesi: essi orientano il loro comportamento verso un modello e uno stile con i quali vedono nell’etica non un vincolo penoso ed ingombrante, una veste scomoda e stretta da cui liberarsene al più presto, con l’aiuto del serpente, ma il cromosoma stesso della propria natura, del senso originario del proprio ruolo.
Il serpente è sinonimo di “esperto di ricambio di pelle”: se la “veste” morale, l’abito nuziale di chi è invitato o chiamato ad un ruolo, viene cambiato in modo opportunistico, secondo la convenienza, i valori della lealtà e della coerenza non esistono più.

Il leader e l’imprenditore moderno: figli della libertà

L’imprenditore e il “manager” del capitalismo moderno nascono proprio nel momento in cui crolla, alla fine del Settecento, la definizione di una autorità autoreferenziale e assoluta, del tutto arbitraria e acquisita attraverso la famiglia, il censo o le relazioni di potere, e non attraverso i meriti e le competenze.
È proprio in quel preciso momento storico, che abbiamo finalmente il frutto dell’inatteso (per migliaia di anni) trionfo del principio morale in base al quale nessuno può accampare il diritto di essere “padrone” degli altri, di diventare “manager” (di un organismo pubblico o privato) per eredità divina, come i sovrani assoluti, o per eredità genetica, come i cosiddetti “nobili” delle vecchie caste dominanti: l’’importante per questo tipo di ruoli era “essere figlio di qualcuno”.
E tutti coloro che hanno teorizzato, difeso e legittimato questo dispositivo assurdo e iniquo (compresa la chiesa e i sistemi sacerdotali) ne sono responsabili, senza alcuna remissione della loro colpevole complicità.
Nel modello di “elezione” e reclutamento per eredità, per censo o per familismo amorale, noi oggi siamo finalmente capaci di riconoscere l’intima natura immorale, l’intima e connaturata ingiustizia e iniquità.
E tuttavia si continua, sia pure in forme più subdole e manipolatorie, anche con l’aiuto di teorie organizzative compiacenti o collusive, a raffinare l’antico modo immorale di fare il manager, il dirigente, l’amministratore delegato, il consigliere di amministrazione, il board, l’Aufsichtsrat o quanto altro l’astuzia del diritto societario abbia escogitato per dare forma al ruolo di comando di una impresa o di una organizzazione quale che sia, compresa la chiesa o le chiese, gli ordini e le congregazioni religiose, e tutte quelle forme di gestione del potere che paradossalmente si ispirano ancora più direttamente al messaggio di Dio e della Bibbia per poi, ancora più pericolosamente, rivelarsi come organizzazioni gestite con criteri di arbitrarietà, abusi, manipolazioni, sfruttamenti, anche sessuali, peggiori persino delle organizzazioni nelle quali non vi è alcuna esplicita relazione con il messaggio della Bibbia.

Dio ha scelto un figlio di nessuno

Il riferimento a Dio (o agli dèi) per una qualsiasi “legittimità” divina del potere, alla luce di quanto ci dice anche solo l’esordio della sua Parola, la Genesi, è chiaramente fuorviante e manipolatoria.
La complicità di quasi tutti coloro che avrebbero dovuto esserne i leali interpreti, la chiesa e i teologi, ha purtroppo avvallato e beneficiato di questa deformazione per quasi tutta la storia della chiesa cattolica, almeno dal IV secolo, dopo l’Editto di Costantino del 313 d.C. fino ad oggi.
La casta religiosa non ne esce meglio di quella laica e mondana: in certi periodi storici del papato.
Ad esempio, la casta religiosa e i teologi hanno superato in crudeltà e perfidia diabolica anche quella laica, nel proteggere, sostenere, nutrire il “potere” immeritato e incompetente, ricevuto attraverso reclutamenti dai quali ricavare privilegi, potere e denaro a prescindere dal merito o come sinecura feudale .
Nulla di più falso del richiamo a Dio: Adamo non poteva essere nominato manager o governatore o principe del Parco Tematico o Gan Eden per eredità o per nepotismo, perché Dio ha scelto uno che non era figlio di nessuno (e nemmeno nipote! ).

Il nuovo Adamo

Lo stile con cui il nuovo Adamo, Gesù, definisce il suo modo di operare, di essere “leader” e manager del nuovo corso della creazione (di cieli e terre nuove) e della salvezza (la “grazia” o il riconoscimento a Dio, l’ευχαριζω, l’αγαπη) è definito da San Paolo nella lettera ai Filippesi (2,6 e ss.): “Cristo Gesù, pur avendo tutti i requisiti per essere Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò sé stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini”.
Questa “similarità assunta” con gli uomini piuttosto che l’esibizione narcisistica di sentirsi un dio, pur avendone titolo, ci propone un radicale mutamento di prospettiva: identificarsi, attraverso una empatia profonda, con i propri compagni di strada, con i collaboratori, con gli altri, in un atto di “obbedienza” intima e profonda a colui che aveva detto al vecchio Adamo di non “mangiare”.
E a Eva, madre dei viventi, diventata madre dei morenti e decaduti, si contrappone un’altra donna, Maria, che risponde con un gesto di gratitudine e di obbedienza: “Sia fatta la tua volontà”.
Il tema del management come “servizio” è un tema introdotto dal nuovo Adamo in molte parti del suo messaggio, con le sue stesse parole: “Non sono venuto per essere servito, ma per servire”.
La parola servizio deriva dalla radice indoeuropea swer, che intende un atteggiamento di “tenere costantemente gli occhi su qualcuno”, per essere pronti e vigili ai suoi desideri; come il Salmo che recita: “…come una serva ha sempre gli occhi attenti alla mano della sua padrona” (Salmo 122,2).
Anche il titolo di “vescovo”, che si è insinuato nella terminologia cristiana in modo surrettizio e scorretto, preso in prestito dalla concezione burocratica della magistratura romana e greco-bizantina come “supervisore” (επισχοπο, dovrebbe concepire il “governo” come un “servizio”. La parola vescovo contiene il significato di “vedere”, osservare e vigilare, ma piuttosto in senso di “dominio”, al di sopra degli altri (επι) e non con gli altri (συν).
Quel prefisso επι guasta tutto e occorrerebbe imparare dalla riforma di Lutero che si limita a parlare di “pastori”. Se fosse anche l’unica ragione dei seguaci di Martin Lutero, ebbene: in questo essi hanno ragione.

Conclusione

Dal primo libro della Genesi, abbiamo tratto una vera e propria lezione magistrale su quello che un manager deve fare o essere:

a) Non farsi mai prendere da manie di grandezza: il tarlo che lo porta alla rovina è quello di voler avere sempre di più, fino a perdere il senso della realtà;
b) Non usare capri espiatori per proteggere le proprie colpe;
c) Non circondarsi di falsi amici e cortigiani (gente che striscia e viscida) che non gli dicono la verità e che nutrono il suo senso di onnipotenza (fasulla);
d) Non barattare la propria felicità o qualità della vita con l’ambizione e il successo;
e) Non nascondersi o fare cricche o complotti oscuri perché le foglie di fico non bastano a tenere segrete le proprie porcherie e oscenità;
f) Pensare anche al benessere degli altri e non solo al proprio: le proprie ambizioni non devono trascinare altri alla rovina;
g) Essere “vegetariano” (in senso metaforico) e quindi non aggressivo o violento o tirannico (sete di sangue);
h) Rispettare la natura, l’uomo, gli animali e l’ambiente, anche nel perseguire il profitto dell’azienda;
i) Non pretendere premi o bonus più grandi senza merito.

Glossario e commenti integrativi

Adam

Adam (in ebraico אָדָם , in arabo آدم) non è il nome proprio, Adamo, come abbiamo sempre sentito dire o letto nelle traduzioni confezionate e tramandate in modo stereotipato: Adam significa “uomini”, e che si tratti di un sostantivo plurale è dimostrato dall’uso dei verbi correlati, come il verbo iussivo “dòminino” (וְיִרְדּוּ֩ wə·yir·dū ) e dai pronomi personali (אֹת֑וֹ בָּרָ֣א bara’ otô = li creò, e non “lo” creò). In lingua originale ebraica è un sostantivo plurale (uomini) e non, come si continua a ritenere per tradizione, il nome di un “primo” uomo.
Un “primo” uomo, secondo la Genesi, non è mai esistito come singolo: si parla di “uomini” (implicitamente è compatibile anche una origine multi-localizzata e da diversi filoni genetici).
Inoltre, la Genesi è chiarissima su un punto: gli “adam” originari sono tali sia come maschi che come femmine, fin dal primo loro apparire. È una concezione assolutamente rivoluzionaria, rispetto al pensiero di tutte le culture dei popoli limitrofi, nelle quali la “donna” non è tenuta in considerazione “alla pari” degli uomini.
Inoltre, la descrizione antropomorfa dell’origine della donna (dalla costola degli adam) è un modo figurato per affermare con altrettanta chiarezza che la donna è della identica sostanza e natura dell’uomo e non di sostanza o natura “inferiore”.
La narrazione è senza dubbio infantile, tuttavia appropriata per una “pedagogia” semplice, comprensibile, che fosse capace di far assimilare il concetto, che ai tempi della redazione del libro, appariva sicuramente “ostico” e difficile da digerire, ossia che la donna è, da sempre, uguale all’uomo in tutto e per tutto.
Un secondo concetto importantissimo da ricavare da questo passaggio della rivelazione è che il sesso è stato da sempre una impronta di origine divina, ossia un dono o una dotazione che rende l’uomo simile a Dio, e che è stato ed è innanzitutto un bene creato per il godimento e la gioia, prima ancora che per la riproduzione, in modo da costituire quel “legame” relazionale profondo e intimo (carne della mia carne, ossa delle mie ossa) che diventa una dinamica “speculare” a quella che sussiste tra le persone divine (il padre creatore e il figlio che è “parola” o logos hanno tra loro una relazione e un amore talmente grande, profondo e infinito da diventare esso stesso persona divina, il pneuma-alito di Dio, che noi chiamiamo “spirito santo”).
Per esprimere questa “equivalenza” è utile anche ricordare il Salmo 33, versetto 6 in cui si afferma: “Dalla parola/logos del Signore i cieli furono fatti, e dall’alito/pneuma della sua bocca tutto il loro esercito”.
Perciò la creazione avviene “all’inizio” con la parola-dâbâr (il logos di Dio, ossia il figlio), ma prosegue poi nel “percorso” con l’alito, il soffio o alito di Dio (ruah Elohym), il quale genera e guida l’esercito che prende corpo man mano che il creato sviluppa la propria evoluzione.
Un’ultima nota curiosa: secondo la Encyclopédie di Diderot e d’Alembert, alla voce Adam, il nome ebraico corrisponderebbe al greco πυρρος e al latino rufus, uomo terreno”, “terroso”, o “della terra rossa a causa del colore “rossastro” della terra da cui è stato forgiato. Forse questo colore è una annotazione solamente “visiva” oppure può essere una reminiscenza dei racconti della creazione dell’uomo nella teodicea babilonese, secondo la quale l’uomo fu creato con il sangue di un dio (Kingu). In ogni caso, il simbolismo delle componenti di Adamo, il fango come miscela di acqua e polvere “rossa”, resi vivi con il “soffio” – pneuma, ritorna nelle componenti di Gesù come “fonte della vita nuova”: acqua e sangue unite dal soffio dello Spirito. Il nuovo Adamo, Gesù, è anche lui “rufus”, rosso, ma non per il colore della polvere usata da Jaweh nell’ eden (terra arida, deserto), ma per il colore del suo sangue, uscito dal costato insieme all’acqua. Il battesimo che Gesù porterà sarà un battesimo di acqua, sangue e pneuma per una vita nuova ed eterna.

Eden

Dal sumerico “edin”, che significa steppa arida, terra desolata, senz’acqua. Altre interpretazioni sono, invece, più orientate verso il significato aramaico di “fertile, ben irrigata”: nella Bibbia il termine עֵ֫דֶן Eden è utilizzato con significati associati a ‘piacere’- per esempio Genesi 18:12. Personalmente, propendo per la derivazione dalla radice linguistica sumerica.

Gan Eden o Paradiso terrestre

Gan Eden, in aramaico, o paradiso (in antico persiano), significano proprio un’area protetta, una “riserva” naturale organizzata e valorizzata a coltivazione, con acque in fontane e ruscelli, quindi qualcosa di più di un semplice “giardino”, che attenua sensibilmente il concetto originario. In aramaico Gan” (גָּן) significa “parco”, terreno curato in forma di giardino, di oasi con un criterio suscettibile di generare sollievo, relax ed emozioni: indicava il “parco” o riserva protetta, con alberi e selvaggina, nella quale i re e i nobili andavano a trascorrere giornate di allegria, di caccia, di banchetti, una specie di sintesi tra un “sito di interesse comunitario” (SIC), un parco naturale protetto, una foresta (compresi alberi da frutta e orti) e corsi d’acqua.

La polvere o aphar

Anche la “polvere” da cui Adamo avrebbe origine, in aramaico è indicata con la parola עָפַר aphar che significa qualcosa di indeterminato, impalpabile, diffuso, atomizzato, volatile e senza scopo: l’alito di Dio lo rende coerente, gli dà un indirizzo e uno scopo e lo trasforma in reti raffinate di cellule e di neuroni, basi elementari per la consapevolezza e la competenza. Dalla stessa radice proviene anche il celebre àpeiron) dei presocratici, che testimonia la loro contiguità con il mondo sumerico (apar) e semitico (aphar) nella ricerca dell’elemento costitutivo primordiale nella creazione dell’uomo (e anche di tutto il resto con un aphar che può essere interpretata come la “polvere cosmica” provocata dal big bang).
Sul piano della riflessione filosofica, alcuni autori di rara intelligenza, come Maurizio Ferraris, sostengono la stessa tesi che ho esposto in questo saggio: non è il “ passaggio dall’alto in basso che determina il passaggio dalla natura allo spirito…Si può benissimo proporre una prospettiva dal basso in alto: l’organico è il risultato dell’inorganico, la coscienza emerge da elementi che non sono coscienti, il senso si produce dal non senso, e le possibilità sorgono dall’urto della realtà” (la Repubblica, 19.02.2013).
Recentemente gli scienziati dell’University of Arizona hanno realizzato una scoperta che potrebbe aiutarci a meglio definire la provenienza del materiale stellare di cui è composto gran parte del Sistema Solare, inclusi noi stessi. In base a questa scoperta, noi saremmo polvere di stelle, fatti di materiale forgiato nelle ardenti fornaci di stelle morte prima della nascita del nostro Sole, per cui gran parte della materia di cui è composta la Terra, persino la vita stessa, è fatta di elementi prodotti da stelle, compresi silicio, carbonio, azoto e ossigeno, quindi polvere di stelle e origine della vita.
“Si può pensare ai grani di polvere che scopriamo in meteoriti come a ceneri stellari, rimaste da stelle morte da lungo tempo quando il nostro Sistema Solare si è formato”, spiega Tom Zega , uno degli scienziati di questa scoperta.
“Ora possiamo tracciare la provenienza di quelle ceneri stellari”, aggiunge Lucy Ziurys . “È come studiare l’archeologia della polvere di stelle”.
L’aphar che ho interpretato può avere una conferma anche da questo tipo di riflessioni.

RaDAH

Al versetto 24 e 28 del primo capitolo della Genesi, Dio dice agli “adam” di avere il “dominio” sugli altri esseri, di riempire la terra e di soggiogarla. Il verbo che la bibbia usa per esprimere il “dominare” è RaDAH che viene tradotto normalmente con il termine” dominare su”, offrendo il fianco ad una sfumatura di tipo più aggressivo che assertivo. In realtà una interpretazione autentica del termine ebraico RaDAH ci conduce verso una formula che è più congeniale ad una relazione di leadership e di relazione ispirata ad un principio di sostenibilità e sussidiarietà.
Dice un esperto come Andrew Basden , che “noi, cristiani occidentali, abbiamo capito male il suo significato. È una parola che è adoperata solamente una dozzina di volte nell’Antico Testamento…Noi l’abbiamo adottata per significare “dominare su “proprio come un feudatario medioevale o un potente dominerebbe sopra i suoi sudditi, sfruttandoli per i propri scopi personali, per il suo personale piacere, prestigio ecc. Ma un esame del termine RaDAH dimostra che questo non è il tipo di dominio a cui noi siamo chiamati ad avere sul creato…Il nostro RaDAH deve essere non per il nostro personale interesse, ma per l’interesse di ciò che è oggetto del nostro management, ossia per l’interesse e a beneficio del creato”. E quindi della madre terra.
E sempre sulla scorta di una analisi comparata di testi biblici, Basden conclude: “Noi dovremmo invece sanare quelle parti del creato che sono malate, fasciare quelle parti che sono ferite, riportare quelle che si sono smarrite, cercare quelle parti che si sono perdute”. In questo modo noi comandiamo (RaDAH) in rappresentanza (delega) di Dio sulla terra, per svilupparla, raffinarla e renderla più bella per il suo interesse piuttosto che per il nostro.
È una conferma della mia interpretazione dello stile di management descritto da Gesù nella parabola del “buon” pastore (Gv. 10,11-18): nel testo greco (ποιμην ο καλος) “buono” in realtà è indicato con la parola “bello”, quasi a significare, secondo l’ideale greco di uomo, che questo “manager/pastore” è tale non in base ad una “autorità”, ma in base ad una “autorevolezza riconosciuta”, ad una sua “bellezza” o fascino di tipo carismatico, in una relazione che va al cuore delle persone e che si prende a cuore “le” persone.
Inoltre, questo dominio è un dominio “vegetariano” con una etimologia che significa piuttosto “guida”, coaching, con l’attitudine propria della cultura “pastorale”: take care of, secondo una immagine che Gesù userà per descrivere il proprio stile di comando. Del resto, la contrapposizione tra Abele, incarnazione della cultura pastorale, e Caino, simbolo della cultura agricola e meccanica più aggressiva (i cainiti verranno descritti come gli “inventori” delle arti meccaniche e pertanto delle armi con le quali ammazzare come ha fatto Caino), indica un tema molto ricorrente nella Bibbia, soprattutto con i grandi Profeti: la nostalgia del modello di vita “nomadico”, che è più congeniale alla fede in un “unico” Dio. La relazione tra nomadismo e monoteismo con lo stile di Abramo, grande leader carismatico, verrà approfondita con la figura di Abramo.

Shabbat

Detto anche שַׁבָּת Shabbath o Shabbos (secondo la pronuncia Ashkenazita), e deriva dal verbo ebraico Shavath, significa, letteralmente, smettere (più che riposare): quindi, smettere di lavorare, potendo perciò fare “altro”.

La bellezza salverà il mondo

Il principe Miškin nell’Idiota di Dostoevskij afferma:” La bellezza salverà il mondo”. Eppure, quella stessa frase, ancor oggi citata infinite volte, ripetuta nei più diversi contesti fino a farne quasi scordare il suo significato, nel testo originale ha una rilevanza ambigua: è quasi un’evocazione lontana, ricordo di qualcosa di non ben definito. Apparentemente di poca importanza.
L’enorme letterarietà di quelle parole è solo uno dei segni della genialità del suo autore. Il “genio crudele” Dostoevskij (definizione resa famosa in Russia dal critico Michajlovskij) mostra qui, nella sola concezione di quella frase, il primo dei suoi due attributi. “La bellezza salverà il mondo”. Cosa intendeva far dire Fëdor Michajlovic al suo principe idiota? Di quale bellezza si sta parlando? E in che senso “salverà” il mondo?
Non è certo un terreno vergine quello che si sta affrontando. Tutti i commentatori di Dostoevskij o quasi non hanno rinunciato a dire la loro. C’è poi da aggiungere che il tema della bellezza, nella tradizione russa, assume valori sofianici e iconografici capaci di incanalare la questione su binari ben tracciati.
Tutta la vicenda dello scrittore Dostoevskij non si può mai riferire a dei sicuri schemi interpretativi: lui, il più russo di tutti e il più estraneo a quella tradizione al contempo; il più analitico in certi passaggi come pure profondamente allusivo e ambiguo in altri. In tal senso la fortuna occidentale della frase “La bellezza salverà il mondo” non è riconducibile soltanto all’Idiota né alla tradizione russa. E poi c’è la parola stessa “mir”, che in russo – fatto curioso – ha due significati: mondo e pace. L’universalismo della cultura russa sembra discendere o incarnarsi nella lingua stessa, laddove l’aspirazione all’armonia concorde dell’umanità coincide con l’umanità stessa, il mondo. Il punto centrale è dunque che il mondo sarà salvato dalla bellezza: una profezia “linguistica” in questo caso si avvererà e il semplice mondo/mir diventerà la pace/mir.
La prima strada che si apre davanti a noi è quella della bellezza come ideale. Tra il bello e il bene esiste un legame misterioso, inafferrabile e indistruttibile. La “Bellezza”, intesa in senso “schilleriano”, è un concetto universale. Ad essa è affidato il potere di ricomporre in un’unità armonica il disordine fondamentale della realtà, rendendola capace, così, di rivelare un senso ultimo al di sopra del suo stesso caos. In tal senso l’idea della bellezza per Dostoevskij coinciderebbe con quella che da Platone (“Il bello è lo splendore del vero”), passando per lo Pseudo Dionigi Aeropagita (“Dio ci concede di partecipare alla sua propria Bellezza”) si innesta poi saldamente nella tradizione russa con la nota raccolta ascetica conosciuta come “Filocalia” e nella tradizione di Alessandria costruisce una vera e propria “iconosofia”: una grandiosa Teologia della Bellezza per la quale penetrare l’essenza delle cose vuol dire essenzialmente contemplarne la bellezza perfetta. Ed è proprio nell’aspirazione all’armonia concorde dell’umanità, punto centrale il mondo, che inviterei a leggere i miei figli ed amici.

La conoscenza del bene e del male e la “mela”

Una cattiva interpretazione della espressione “conoscenza del bene e del male” può indurre in inganno anche menti geniali come lo scrittore (e premio Nobel della letteratura) José Saramago. In un saggio recente (“Caino”, Feltrinelli, 2010), egli scrive che si stupiva che la sventurata coppia del giardino dell’eden fosse scacciata “per il nefando crimine di aver mangiato del frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male. Questo episodio…non è mai stato ben spiegato. In primo luogo, persino l’intelligenza più rudimentale non avrebbe alcuna difficoltà a comprendere che essere informato sarà sempre preferibile a ignorare, soprattutto in materie tanto delicate come lo sono queste del bene e del male…In secondo luogo, grida vendetta l’imprevidenza del Signore che, se realmente non voleva che mangiassero di quel suo frutto, avrebbe avuto un rimedio facile, sarebbe bastato non piantare l’albero…”.
A parte l’umorismo spassoso di queste affermazioni, Saramago, forse suo malgrado, riflette la nozione tradizionale e diffusa che quasi tutti hanno di quel racconto, compresa la bufala della “mela” (di cui non c’è alcuna traccia nel testo biblico).

Michelangelo: Peccato originale e cacciata dal Paradiso terrestre

Anzi: un arboricoltore americano, William Bryant Logan, ha scritto un libro nella quale sostiene una tesi curiosa, che seppellirebbe definitivamente il mito della mela.
Egli sostiene che la quercia era l’unico albero che potesse dare un frutto commestibile nei territori in cui la Genesi trae la propria geografia, ossia la Mesopotamia. Ed è la ghianda, dalla quale si ricava una farina commestibile ancor prima di quelle del frumento e del mais. In sanscrito la parola quercia e la parola albero coincidono: duir. Per quanto riguarda invece la proibizione di mangiare del frutto dell’albero (duir?), essa, al contrario di quanto pensa Saramago, non è correlata al rischio dell’ignoranza o della incompetenza (che sarebbe effettivamente una cosa assai disdicevole e contraddittoria nell’opera di Dio), ma è correlata al rischio della libertà dell’uomo, che può, se vuole, anche essere arbitro assoluto del proprio comportamento. È quindi una questione “etica” e non una questione di conoscenza.

Appendice umoristica (e sarcastica)

Troppo semplice far funzionare il mondo in maniera deterministica. Moni Ovadia fa una riflessione molto originale sui maestri del Bereshit Rabbà (della Midrash e del Talmud), che ci narrano che il Santo Benedetto dubita di sé stesso proprio nell’atto di creare il mondo e l’uomo: “Creava mondi e li distruggeva e persino quando, dopo molteplici tentativi, la creazione fu compiuta, Jaweh la contemplò, sospirò e pronunciò queste due parole: halevai sheyaamod (purché tenga)”
Creava mondi e li distruggeva perché non gli interessavano proprio quelli che certamente avrebbero tenuto. È il Dio della relazione e non del diktat. Troppo semplice far funzionare il mondo in maniera deterministica. È il Dio del corteggiamento, fedele oltre l’adulterio del partner. È come una mamma e un papà che vogliono vedere crescere il pupo e non tollerano un figlio già adolescente e ancora con grembiule e baverino bianco. Accetta solo un mondo che non dia garanzie proprie perché è affidato unicamente alla responsabilità della creatura.
E ancora oggi, poiché è affidato a noi, neppure il Signore sa se terrà. Dal 1945, impossessandosi dell’Energia nucleare, per la prima volta nella sua storia, l’umanità è in grado di autodistruggersi. Il Signore ha ceduto a noi perfino la data della fine del mondo, una data che appariva inesorabilmente Sua e che neppure il Figlio incarnato pretendeva di conoscere.
Ha esteso a noi il potere di annullare il creato. Con l’aumento della nostra capacità distruttiva in campo ecologico Egli lascia e raddoppia dandoci una seconda occasione di rovinare tutto con l’inquinamento, l’aumento del calore, la desertificazione, la diffusione di malattie e altro.
Un generoso volontario nell’accoglienza ascoltando questo racconto sul ripetuto sfarinarsi delle ipotesi di creazione percepì odor di bestemmia e scomunicò in cuor suo il biblista che osava narrare tale impudicizia. Forse oggi dal Paradiso capisce che in questo spogliarsi di Dio e umiliarsi il disonore diventa il massimo di gloria perché è il massimo di amore e condivisione. Sembrava una bestemmia ed era salmo di gloria perché Dio non funziona come tappabuchi o burattinaio.
Ma il Creatore non potrebbe, non dovrebbe eliminare il male, il dolore, l’angoscia nel mondo? Non vede? Non vuole? Non può? Se non vede non è l’Onnisciente e allora non è Dio. Se non può allora non è l’Onnipotente e dunque non è Dio. Se non vuole allora è crudele e allora non è Dio. E allora Dio non c’è? Quale la risposta a questa logica stringente e fredda di un non credente? La risposta, calda, folle, apparentemente assurda: “Sapeva, poteva e non l’ha fatto”. Perché con tutto il suo essere di amore doveva lasciarci alla nostra libertà e condividere con noi la responsabilità nella gestione della terra.
Da quando è nato il primo uomo o il primo clan, Dio è entrato nella imprevedibilità. Da quando è apparso l’umano nel mondo Dio non è più l’Onnipotente. Non vuole più esserlo. Non gli interessa.
Si è iscritto volontariamente all’anagrafe nell’elenco dei poveri e dei senza dimora. Prigioniero della nostra libertà. “Siete prigionieri del mio amore” dice santa Teresa del Bambin Gesù al Padre, Figlio e Spirito Santo. Non come Napoleone che in nome della Rivoluzione libera, fraterna, egualitaria si proclama Imperatore.
Non gli interessa essere obbedito bensì amato. Perde molti seguaci per una manciata di innamorati.
(padre Livio Passalacqua, Parole chiave, Vita Trentina Editrice, 2019)

“L’anello di transizione tra la scimmia e l’uomo esiste: siamo noi”
(Konrad Lorenz)

“Io penso che Dio nel creare l’uomo sovrastimò alquanto la sua abilità”
(Oscar Wilde)

“In un angolo remoto dell’universo scintillante e diffuso attraverso infiniti sistemi solari c’era una volta un astro, su cui animali intelligenti scoprirono la conoscenza. Fu il minuto più tracotante e menzognero della storia del mondo, ma tutto ciò durò soltanto un minuto. Dopo pochi respiri della natura, la stella si irrigidì e gli animali intelligenti dovettero morire. Qualcuno potrebbe inventare una favola di questo genere, ma non riuscirebbe tuttavia a illustrare sufficientemente quanto misero, spettrale, fugace, privo di scopo e arbitrario sia il comportamento dell’intelletto umano entro la natura. Vi furono eternità in cui esso non esisteva, quando per lui tutto sarà nuovamente finita, non sarà avvenuto nulla di notevole. Per quell’intelletto, difatti, non esiste una missione ulteriore che conduca al di là della vita umana. Esso piuttosto è umano, e soltanto chi lo possiede e lo produce può considerarlo tanto pateticamente, come se i cardini del mondo ruotassero su di lui”
(Nietzsche, Verità e menzogna)

“Gettato nell’infinita immensità degli spazi che ignoro, e che non mi conoscono, provo spavento”
(Pascal, Pensieri 205)

Per comprendere lo scarso uso dell’incomparabile dono dell’intelligenza: “Divento intelligente solo quando serve”
(Marilyn Monroe in “Gli uomini preferiscono le bionde”)

Per comprendere meglio l’incomparabile dono dell’intelligenza. “L’uomo non è che una canna pensante. E anche quando l’universo lo schiacciasse, l’uomo sarebbe sempre più nobile di ciò che lo uccide, dal momento che egli sa di morire, mentre l’universo non sa nulla”
(Pascal, Pensieri 264)

Per comprendere meglio l’incomparabile dono dell’intelligenza: “Che fortuna possedere una grande intelligenza: non ti mancano mai le sciocchezze da dire”
(Anton Cechov)

“La somma dell’intelligenza sulla Terra è costante; la popolazione è in aumento”
(Assioma di Cole, Arthur Bloch e le leggi di Murphy)

“Il vantaggio di essere intelligente è che si può sempre fare l’imbecille, mentre il contrario è del tutto impossibile”
(Woody Allen)

Sulla sessualità come dono gradito di Dio
“Quanto conta il sesso nella vita? Ci sono molte cose più importanti, ma al momento non me ne viene in mente nemmeno una”
(Michael Franti, musicista californiano)

Il Paradiso
Come immagina il paradiso?
Una versione migliore della vita sulla terra
(Corinne Bailey, cantautrice soul)

A proposito della proprietà privata e dello sfruttamento della natura nel mondo: Lettera del capo indiano Seattle al Presidente degli Stati Uniti Franklin Pierce nel 1854

“Come potete acquistare o vendere il cielo, il calore della terra? L’idea ci sembra strana. Se noi non possediamo la freschezza dell’aria, lo scintillio dell’acqua sotto il sole come è che voi potete acquistarli? Ogni parco di questa terra è sacro per il mio popolo. Ogni lucente ago di pino, ogni riva sabbiosa, ogni lembo di bruma dei boschi ombrosi, ogni radura ogni ronzio di insetti è sacro nel ricordo e nell’esperienza del mio popolo. La linfa che cola negli alberi porta con sé il ricordo dell’uomo rosso. Noi siamo una parte della terra, e la terra fa parte di noi. I fiori profumati sono i nostri fratelli, il cavallo, la grande aquila sono i nostri fratelli, la cresta rocciosa, il verde dei prati, il calore dei pony e l’uomo appartengono tutti alla stessa famiglia. Quest’acqua scintillante che scorre nei torrenti e nei fiumi non è solamente acqua, per noi è qualcosa di immensamente significativo: è il sangue dei nostri padri.
I fiumi sono nostri fratelli, ci dissetano quando abbiamo sete. I fiumi sostengono le nostre canoe, sfamano i nostri figli. Se vi vendiamo le nostre terre, voi dovrete ricordarvi, e insegnarlo ai vostri figli, che i fiumi sono i nostri e i vostri fratelli e dovrete dimostrare per fiumi lo stesso affetto che dimostrerete ad un fratello. Sappiamo che l’uomo bianco non comprende i nostri costumi. Per lui una parte di terra è uguale all’altra, perché è come uno straniero che arriva di notte e alloggia nel posto che più gli conviene. La terra non è suo fratello, anzi è suo nemico e quando l’ha conquistata va oltre, più lontano.
Tratta sua madre, la terra, e suo fratello, il cielo, come se fossero semplicemente delle cose da acquistare, prendere e vendere come si fa con i montoni o con le pietre preziose. Il suo appetito divorerà tutta la terra e a lui non resterà che il deserto.
Non esiste un posto accessibile nelle città dell’uomo bianco. Non esiste un posto per vedere le foglie e i fiori sbocciare in primavera, o ascoltare il fruscio delle ali di un insetto. Ma forse è perché io sono un selvaggio e non posso capire. Il baccano sembra insultare le orecchie. E quale interesse può avere l’uomo a vivere senza ascoltare il rumore delle capre che succhiano l’erba o il chiacchierio delle rane, la notte, attorno ad uno stagno?
Io sono un uomo rosso e non capisco. L’indiano preferisce il dolce suono del vento che slanciandosi come una freccia accarezza la faccia dello stagno, e preferisce l’odore del vento bagnato dalla pioggia mattutina, o profumato dal pino pieno di pigne. L’aria è preziosa per l’uomo rosso, giacché tutte le cose respirano con la stessa aria: le bestie, gli alberi, gli uomini tutti respirano la stessa aria. L’uomo bianco non sembra far caso all’aria che respira. Come un uomo che impiega parecchi giorni a morire resta insensibile alle punture. Ma se noi vendiamo le nostre terre, voi dovrete ricordare che l’aria per noi è preziosa, che l’aria divide il suo spirito con tutti quelli che fa vivere.
Il vento che ha dato il primo alito al Nostro Grande Padre è lo stesso che ha raccolto il suo ultimo respiro. E se noi vi vendiamo le nostre terre voi dovrete guardarle in modo diverso, tenerle per sacre e considerarle un posto in cui anche l’uomo bianco possa andare a gustare il vento reso dolce dai fiori del prato. Considereremo l’offerta di acquistare le nostre terre.
Ma se decidiamo di accettare la proposta io porrò una condizione: l’uomo bianco dovrà rispettare le bestie che vivono su questa terra come se fossero suoi fratelli. Che cos’è l’uomo senza le bestie?
Se tutte le bestie sparissero, l’uomo morirebbe di una grande solitudine nello spirito. Poiché ciò che accade alle bestie prima o poi accade anche all’ uomo. Tutte le cose sono legate tra loro. Dovrete insegnare ai vostri figli che il suolo che essi calpestano è fatto dalle ceneri dei nostri padri. Affinché i vostri figli rispettino questa terra, dite loro che essa è arricchita dalle vite della nostra gente.
Insegnate ai vostri figli quello che noi abbiamo insegnato ai nostri: la terra è la madre di tutti noi. Tutto ciò che di buono arriva dalla terra arriva anche ai figli della terra. Se gli uomini sputano sulla terra, sputano su sé stessi. Noi almeno sappiamo questo: la terra non appartiene all’uomo, bensì è l’uomo che appartiene alla terra. Questo noi lo sappiamo. Tutte le cose sono legate fra loro come il sangue che unisce i membri della stessa famiglia. Tutte le cose sono legate fra loro. Tutto ciò che si fa per la terra lo si fa per i suoi figli. Non è’ l’uomo che ha tessuto le trame della vita: egli ne è soltanto un filo. Tutto ciò che egli fa alla trama lo fa a sé stesso. C’è una cosa che noi sappiamo e che forse l’uomo bianco scoprirà presto: il nostro Dio è lo stesso vostro Dio. Voi forse pensate che adesso lo possediate come volete possedere le nostre terre ma non lo potete. Egli è il Dio dell’uomo e la sua pietà è uguale per tutti: tanto per l’uomo bianco quanto per l’uomo rosso. Questa terra per lui è preziosa. Dov’è finito il bosco? È scomparso. Dov’è finita l’aquila? È scomparsa. È la fine della vita e l’inizio della sopravvivenza.
Ogni parte di questa terra è sacra per il mio popolo. Ogni ago lucente di pino, ogni riva sabbiosa, ogni lembo di bruma dei boschi ombrosi, ogni radura ed ogni ronzio di insetti è sacro nel ricorso e nell’esperienza del mio popolo. Noi siamo una parte della terra, e la terra fa parte di noi. Tutte le cose sono connesse tra loro. Insegnate ai vostri figli ciò che noi abbiamo insegnato ai nostri: che la terra è la madre di tutti noi. Contaminate il vostro letto ed una notte vi troverete soffocati dai vostri rifiuti “.

Note

[1] Una cosa impossibile per gli antichi: l’idea che la luce sia create prima dei corpi celesti (sole, stelle) non può scaturire dalla mente di un uomo del tempo dello scrittore della Bibbia e incredibilmente coincide con le recenti scoperte della fisica e dell’astrofisica: all’inizio dei tempi e del mondo vi fu un immenso lampo di luce.

[2] Si tratta dei risultati di una scoperta di una équipe internazionale guidata dai fisici Paolo De Bernardis (La Sapienza di Roma) e Andrea Lange (California Institute of Technology), con l’esperimento denominato Boomerang. Una curiosità antropologica: per gli aborigeni dell’Australia il mondo è stato creato dal “canto” degli antenati e lo scrittore Bruce Chatwin ha dedicato un’opera a questa credenza nel libro “Le vie dei canti”. Quello che sembrava un racconto favolistico e mitico, sembra meno criptico dopo la scoperta dei fisici sul “flauto magico” che ha accompagnato la creazione del mondo.  Giustamente il grande Leonard Bernstein affermava che “La musica può nominare l’innominabile e comunica l’inconoscibile”.

[3] Il testo qui pubblicato è un estratto del nuovo libro di Carlo Rovelli, La realtà non è come ci appare, Raffaello Cortina, Milano, ed è stato pubblicato in IL SOLE 24 ORE, con il titolo Senza spazio e senza tempo il 19 gennaio 2014.

[4] I fisici utilizzano per questo tipo di fenomeni l’espressione “embedded systems” (sistemi integrati e incorporati uno con l’altro).

[5] Il neologismo non-luogo (o non luogo, entrambi modellati sul francese non-lieu) è un termine introdotto dall’antropologo francese Marc Augé nel 1992, nel suo libro Non-lieux. Introduction à une anthropologie de la surmodernité. In inglese il non-luogo è tradotto con non-places, in tedesco Nicht-Ort.

[6] Genesi, capitolo 1. Si tratta di una specie di certificazione di qualità o di conformità totale, come un manager del migliore kaizen, ispirato a Masaaki Imai, uno dei padri della gestione totale della qualità.

[7] Colore rossastro d’incerta composizione, usato un tempo dai pittori di affreschi per i disegni preparatori (detti anch’essi sinopie).

[8] Autodefinizione di Lloyd Blankfein, Ceo della Goldman Sachs dal 2006 al 2018.

[9] Genesi, 1,20

[10] Genesi 2, 3.

[11] Nell’epoca dell’autore della Genesi e per quasi tutta la storia umana fino ad oggi, il lavoro ha avuto una concezione servile e una gestione schiavista, fondata sullo sfruttamento intensivo di quelli che lavorano e non offriva riposo, se non in termini minimalisti. Per immaginare come fosse il rapporto tra lavoro e riposo, è sufficiente ricordare (con la saggezza della memoria) i campi di concentramento del nazismo, con lo slogan crudele Arbeit macht frei: qui si ha l’immagine perfetta di come erano trattati gli schiavi e i lavoratori nei tempi della schiavitù di massa, come nel caso dei Faraoni, dei Sumeri, dell’impero persiano, dell’impero romano, del feudalesimo con i servi della gleba, del macchinismo industriale con i turni impossibili della prima era industriale. Il carattere “sacro” della domenica (per i cristiani), il sabato per gli ebrei e il venerdì per gli islamici, hanno permesso alle masse di lavoratori, di schiavi e di servi della gleba di avere almeno 1 giorno di riposo: e questo è dovuto proprio a questa invenzione di Dio, forse una delle poche cose di cui siamo certi che l’ispirazione non poteva che giungere da “fuori” della mente umana. Considero questo come una delle prove più chiare e indiscutibili della “presenza” di un “alito di Dio” sulle parole scritte.

[12] I più imponenti fenomeni di trasformazione della terra nella quale viviamo oggi sono avvenuti, per fortuna, prima dell’arrivo dell’uomo, miliardi di anni fa: anche oggi abbiamo cataclismi e fenomeni talvolta impressionanti, come maremoti, terremoti, uragani ecc. ma, in paragone ai periodi più antichi delle ere geologiche (per esempio Archeano, paleozoico, mesozoico ecc.), tali sconvolgimenti sono in scala più attenuata e residuale.

[13] La frase è riportata dal suo allievo Pais. In: Pais A., Sottile è il Signore…, Bollati Boringhieri, Torino 1991.

[14] Gilgamesh è l’eroe sumerico oggetto di un poema bellissimo, che condensa in sé tutta la mitologia sumerica. La civiltà e la cultura dei Sumeri, essendo la potenza economica e culturale più influente lungo tutto il terzo millennio avanti Cristo, hanno plasmato sul piano dello stile e delle interpretazioni cosmologiche tutto il mondo circostante, soprattutto i popoli residenti nella cosiddetta “mezzaluna fertile”, ossia le terre che vanno dal fiume Nilo ai confini della Persia, e dal Golfo Persico all’Anatolia.

[15] Yom Kippur (יום כפור yom kippùr, “Giorno dell’espiazione”) è la ricorrenza religiosa ebraica che celebra il giorno dell’espiazione. È con Yom Kippur che inizia l’anno giubilare.

[16] Jeremy Rifkin, nel suo testo “L’era dell’accesso. La rivoluzione della new economy” (Mondadori ,2000), sostiene la tesi che nella economia attuale e futura si assisterà ad un crescente “declino della proprietà materiale” e accenna esplicitamente alla teologia quando scrive: “Poiché Dio era padrone di quello che aveva creato, tutte le cose del mondo, in ultima istanza, gli appartenevano” (pp. 205 e ss.).

[17] Nella Relazione del 2018 sul rendiconto generale dello Stato compiuta dai magistrati della Corte dei Conti si rileva l’elevata concentrazione dei controlli effettuati nelle fasce di minore importo. Inoltre, vi sono continuamente casi di criminalità evidente da parte di uomini molto potenti, ai quali i magistrati, stranamente, decidono archiviazioni, ammende ridicole, prescrizioni: l’unica spiegazione plausibile è che, a nostra insaputa e in modo del tutto coperto, vi siano rapporti di complicità tra magistrati e potenti, per esempio attraverso la comune associazione a logge massoniche, o a forme di connivenza di altro genere, non esclusa quella di stampo mafioso. Attualmente questi casi sembrano in preoccupante aumento.

[18] In una intercettazione telefonica compiuta in Toscana alla fine del 2017 sugli autori di illeciti nelle discariche di Scapigliato (Rosignano) e di Piombino, vi è un audio choc su uno dei capi di questo traffico: “I bambini? Che muoiano”.

[19] Chatwin B., Le vie dei canti, Adelphi, Milano 1988.

[20] Sul significato vero e originario della parola “adam” vedi l’appendice alla voce “adamo”.

[21] L’espressione che Dio usa nella Bibbia (vide che era cosa buona) coincide con l’espressione che i brasiliani usano quando sono felici con qualcosa di bello, piacevole e che gli amanti sussurrano quando sono nel momento più bello della loro relazione sessuale: que bom! (ou seja: fico feliz).

[22] L’espressione “siamo padroni del mondo” è attribuita a Lloyd Blankfein, che è stato Ceo (Chief Executive Officer: Amministratore Delegato) della Goldman Sachs, in uno dei momenti di maggiore e manifesta prepotenza.

[23] John Milton, Il Paradiso perduto, capitolo 1°, versetti 325-330.

[24] Seguendo un celebre detto attribuito a Leone Magno (O felix culpa), se Adamo non avesse compiuto un atto di trasgressione, l’uomo non avrebbe mai avuto l’esperienza della libertà come conquista, che ha preferito alla felicità come regalo o come dono. Uno dei principi fondamentali che legano l’essenza umana alla felicità è che non si può mai rendere felici gli altri, loro malgrado. Tutte le volte che qualcuno, nella storia, ha creduto di poter avere la soluzione delle felicità altrui e di imporla, è fallito. Non solo: ha creato spesso le condizioni della massima infelicità.

[25] L’accostamento tra la “polvere” (aphar) del deserto (eden) e il silicio, potrebbe evocare, dentro il gesto creativo di Dio, anche la nostra costruzione della intelligenza artificiale attraverso i microchips. Secondo la bella riflessione di Francesca di Monte, sul sito della associazione Chimicare, il microchip è “il granello di sabbia con una memoria da elefante, inventato per la prima volta dal fisico italiano Federico Faggin con il nome Intel 4004 e portava le iniziali del suo inventore F.F. Il microchip, dispositivo in grado di compiere operazioni di calcolo o di elaborare grandi quantità di informazioni, è il “cuore” tecnologico, o meglio, il “cervello” di tutti gli strumenti elettronici: dai computer ai telefonini, dalle calcolatrici agli elettrodomestici, dagli orologi alle automobili. Ogni microchip è formato da milioni di minuscoli “mattoncini” elettronici più o meno complessi, racchiusi in superfici sempre più piccole: quando sono nati i primi transistor erano grandi diversi centimetri, ora si riesce a farne stare 30 milioni sulla capocchia di uno spillo. I microchip sono costruiti su delle piastrine di silicio, considerato per tale motivo l’elemento base dei circuiti integrati.  Ecco perché la zona della California in cui sorgono numerose industrie di elettronica ed informatica viene chiamata “Silicon Valley” (dall’inglese silicon=silicio). Il Silicio (Si) si trova negli strati di sabbia, argilla, granito e quarzo nella forma di diossido (SiO2-Quarzo) ed è il secondo elemento chimico più frequente presente nella crosta terrestre (dopo l’ossigeno)”. E la sua presenza è particolarmente imponente proprio nel deserto (nell’eden).

[26]La sessualità, nell’uomo, è come se fosse un gruppo statico di continuità (detto anche UPS, dall’Inglese Uninterruptible Power Supply): il principio di fondo è la potenza e l’interruzione è l’impotenza.

[27] È la celebre frase che Dostoevskij fa dire al principe Miškin nell’Idiota.

[28] Il verbo greco ar-ów porta all’atto di “arare” la terra, di trasformarla in campi produttivi, per creare ricchezza, fertilità, estetica del paesaggio (basti pensare alla bellezza di campi di grano, alle distese dei prati, ai vigneti e ai giardini e così via). Ma (ed è qui la sorpresa) il legame della radice etimologica “ăr” non si esaurisce con l’opera (del lavoro o dell’arte), come nella parola ar-monia,  ma anche con la virtù: in greco la virtù ha anch’essa la stessa radice che forma la parola αρ-ετή (ar-eté), con la nobiltà e la perfezione (αρ-istóV) e con l’amicizia (αρ-qmóV). Anche in Latino (e di  conseguenza in tutte le lingue neo-latine), la radice genera lo stesso effetto linguistico: ar-are, con lo stesso significato di ar-ów, ma con una proliferazione di altri termini, tutti debitori di questa stessa radice sanscrita “ăr”, che sono ars, artifex, e le attuali ar-te, ar-tista, ar-tistico, ar-tigiano, ar-monia, ecc.: l’uomo capace (eccome!) di creare bellezza e ingegno. Anche nel gotico e le lingue germaniche la radice “ar” la troviamo nelle parole ar-am (da cui il tedesco Arm=braccio e inglese Harm=braccio), che prolifera in ar-beit (lavoro), ossia l’atto e lo strumento di trasformare la materia (il ferro, la creta, il legno…), e poi: norvegese “ar-beider”, svedese “ar-betar”, danese “ar-bejder”. Sembra che perfino nelle lingue slave vi sia una relazione tra questa radice etimologica: infatti in russo, bulgaro e macedone, lavoro si dice ’ра-бота (rabota), in cui la “a” viene tralasciata, ma la comune radice è testimoniata dalla presenza della “r”, come anche nel croato ’ra-d.

[29] Che è la posta in gioco o la scommessa di Dio nella creazione dell’uomo, perché, come dice il filosofo Heidegger, “L’uomo è l’unico essere che può rifiutarsi di essere quello che dovrebbe essere”.

[30] Beneficio ecclesiastico che non comporta obbligo di un vero lavoro, di una reale presenza nel luogo e di effettiva cura di anime. Anche la società moderna è ancora molto legata all’uso della sinecura, soprattutto nell’accumulo di cariche sostanzialmente fasulle a politici o ex-politici, per permettere compensi del tutto immeritati e sottratti al bene comune. Il potere politico si comporta in modo molto simile al regime feudale, anche se conserva una apparenza di democrazia. In italiano c’è una espressione molto efficace: dare incarichi immeritati agli “amici degli amici”.

[31] Il nepotismo è una costante storica sia in politica che nella storia della chiesa: i papi che nominavano cardinali i nipoti sono molto numerosi e qualcuno di questi nipoti è poi diventato persino papa a sua volta. Uno spettacolo decisamente indecente.

[32] Associate Professor di Cosmochemistry, Planetary materials and Astrobiology, Arizona State University.

[33] Professor of Chemistry/Biochemistry and Astronomy, University of California, Berkeley.

[34] Jeremy Rosen, rabbino e studioso della Torah, sostiene una sfumatura diversa della funzione del comando che Dio ha assegnato all’uomo, nel caso specifico del rapporto tra maschio e femmina.  In Genesi 1:28 Dio dice all’uomo e alla donna che la loro responsabilità è di governare il mondo animale. E in questo versetto “governare o comandare” la parola ebraica è RaDAH. Ma per il tipo di “governo” o di comando del maschio sulla donna, Rosen ci dice che il verbo adoperato è MShL, che ha un significato di responsabilità, piuttosto che di comando, ossia una specie di contratto sociale che conferisce protezione alla donna mentre la gravidanza la rende vulnerabile. E infatti questo verbo è collocato nel testo subito dopo aver parlato della lunghezza e del dolore della gravidanza.

[35] Docente di Human Factors and Philosophy in Information Systems alla Salford Business School (Università di Salford, Manchester).

[36] Riporto l’interessante commento di Giovanni Tiresi a questa citazione di Dostoevskij. Fonte : https://ilmiolibro.kataweb.it/opinione/379465/lidiota-di-dostoevski-la-bellezza-salvera-il-mondo/

[37] “Oak, the frame of civilization”, W.W. Norton, 2006, tradotto in italiano da Bollati Boringhieri “La quercia, storia sociale di un albero”.

[38] Come teologo, devo decisamente dichiarare che esistono pochi testi come questo da valorizzare come forma di esegesi straordinariamente precisa e chiara della Genesi.

 

 

 

Libertà e competitività nel mondo dei contadini oggi: una riflessione di scenario

Autosufficienza e libertà

Il concetto di autosufficienza coincide, nel linguaggio sociale, a quello di “libertà”: libertà dal bisogno, libertà dalla dipendenza da altri, libertà dalla emarginazione.
Il premio Nobel del 1986, Robert Solow, americano, ha fatto una elaborazione interessante del concetto di autosufficienza, mettendolo al centro dell’intera architettura sociale di una società nella quale vi sia equità, eguaglianza di opportunità e giustizia dei propri meriti. Egli sostiene che una società è sana se riesce a trasformare il “welfare” in “workfare”, ossia nel lavoro, che è la radice definitiva sia della autosufficienza, della libertà e della autostima. Chi è senza lavoro perde tutte tre queste qualità esistenziali e la sua personalità perde la fiducia in sé stessa e diventa un peso per la società.
Il mestiere del contadino, così come quello dell’artigiano, risolve con le proprie forze, grazie ad una applicazione integrale del paradigma dell’autosufficienza, tutti i problemi sociali del non-lavoro.
Sia i contadini che gli artigiani e tutti coloro che si orientano all’auto-impiego, risolvono di colpo un grande problema sociale: il lavoro se lo trovano loro stessi, con tutto quello che ne consegue, anche in termini di giustizia sociale: essi la ottengono con le proprie forze. Ebbene: pochi, nella società attuale, come per il passato, ricevono uno scarso riconoscimento politico, fiscale e sociale come i contadini e gli artigiani.
Lo stato non è generoso, come dovrebbe esserlo, con loro e con chi, come loro, abbracciano la via dell’autosufficienza.

La catena del valore li penalizza

Nella storia la condizione sociale di chi lavora la terra non ha mai dato segni di equità e di giusto riconoscimento della centralità di questo lavoro sia per la persona in sé che per la società. Per tutti i beni legati al cibo, dalle verdure alla frutta, dalla carne ai prodotti lattiero-caseari, i contadini sono al primo stadio della catena del valore e ricevono ben poco di quello che quei prodotti fanno guadagnare negli altri stadi della catena.
Tutta la polemica recente sul ruolo degli immigrati clandestini nel lavoro dei campi, soprattutto (ma non solo) nel meridione, sfruttati dall’istituzione mafiosa del caporalato, con paghe infime e senza alcuna copertura assicurativa e sanitaria, ha messo in luce, ancora una volta, il fatto ormai lapalissiano che chi “produce” i beni alimentari alla base della catena del valore ne ricava un prezzo spesso inferiore al costo di produzione: di qui la spiegazione delle paghe bassissime e in nero, per comprimere fino all’inverosimile i costi di raccolta e stoccaggio.
Le stesse organizzazioni agricole si sono rivelate impotenti e talvolta collusive con questo sistema, come nel caso scandaloso della Federconsorzi, nata con un intento molto positivo e strategico nel dopoguerra e finita nel solito pantano italiano di ruberie e scandali.
Se ripercorriamo con qualche cenno puramente indicativo la sua storia, percepiamo quanto intelligente fu la sua natura e quanto opportuni i suoi scopi.

Organizzazioni contadine: forti nel passato, quasi nulle nel mercato odierno

In un mercato globalizzato, la strategia delle coalizioni, del networking e della cooperazione su tutta la filiera, è oggi ancora più necessaria e vitale di ieri: se nel passato questa strategia cooperativa era utile, perché poteva offrire dei vantaggi competitivi su costi, oggi è indispensabile, perché offre vantaggi competitivi su tutta la linea operativa e, soprattutto, sulla forza contrattuale di ogni singolo contadino o artigiano nella definizione dei prezzi e nella acquisizione certa di un margine di profitto accettabile già nella prima fase della catena del valore, sia per l’impresa che per i lavoratori.
Solo così si potrebbe ipotizzare una uscita onorevole dal lavoro nero e dallo sfruttamento degli immigrati “schiavi”.
Ebbene: proprio nella fase iniziale del fenomeno della globalizzazione, negli anni Novanta, quando essere uniti e coalizzati era ancora più indispensabile e necessario di prima, è esploso in modo clamoroso il fallimento delle organizzazioni contadine quando il loro ruolo avrebbe dovuto essere ancora più forte.
L’impatto più funesto fu il fallimento della Federconsorzi, istituzione che nel suo secolo di vita passò da istituzione privata ad organo fondamentale della politica agricola statale, per tornare poi ad una struttura privatistica fino ad essere travolta nel 1991 da una vicenda scandalosa e da una crisi irreversibile. Fondata nel 1892, sotto l’ispirazione della borghesia illuminata e degli ambienti più aperti del cattolicesimo italiano, ha esercitato un ruolo vitale già nel periodo embrionale della globalizzazione di fine Ottocento, rappresentata in quel tempo soprattutto dalla concorrenza americana nel commercio internazionale dei cereali.
La strategia della Federconsorzi era la risposta giusta e intelligente della competizione internazionale, diventando strumento di acquisti collettivi per ottenere una calmierazione del mercato e una garanzia di qualità, soprattutto nei settori dei fertilizzanti, delle macchine agricole e del fabbisogno del credito agevolato.
Un altro brillante mezzo fu l’istituzione delle cattedre ambulanti di agricoltura, una benemerita istituzione per diffondere la conoscenza della scienza agronomica negli ambienti rurali.
Importante fu il suo ruolo sia nel periodo fascista con la gestione ammassi nella economia di guerra e nel periodo postfascista con gli aiuti del Piano Marshall.
Ma con gli anni Novanta Federconsorzi fu commissariata e fece emergere grandi responsabilità delle organizzazioni agricole principali, Coldiretti e Confagricoltura.

Una immagine eloquente della catena del valore

Lo schema provocatorio che i due economisti americani Pine e Gilmore fecero nella loro celebre opera sul percorso della catena del valore del caffè può rendere esplicita la situazione attuale di tutti gli altri prodotti dell’agricoltura e descrivere, in forma di metafora, la condizione di inferiorità e di marginalità di tutti i contadini del mondo, ad ogni latitudine, indipendentemente dalla forma di stato e dalle ideologie politiche che la sostengono: di questa condizione fragile e oppressa vi sono prove evidenti in Cina come in Tailandia, in India come in Brasile, negli Stati Uniti come nel Congo.
Anche il comunismo, con la sua falce e martello (contadini, operai e piccoli artigiani ) si è rivelato e si sta rivelando su questo punto cruciale una macchina persino peggiore del capitalismo: su questo punto, sono le due facce, come Giano bifronte, della stessa catastrofe sociale e politica.
Su questa crisi ormai pandemica delle catene di valore, gioca un ruolo pesante anche la trasformazione profonda che hanno avuto le posizioni di rendita, che fanno assomigliare l’attuale società “aperta, moderna, invincibile” ad un feudalesimo da colletti bianchi più che da gorgiere Tudor: la distinzione sociale tra i ricchi che ostentano la loro astrale lontananza dal lavoro manuale (salvo che per le mazze da golf) e i poveri che si dedicano alla produzione di legumi, alle pulizie dei signori, a tutti i lavori manuali tanto più umili quanto più indispensabili alla vita, è diventata sempre più ampia ed incolmabile. I dati ci confermano, anno per anno, in modo implacabile, che pochissimi ricchi diventano sempre più ricchi, anche in Cina (con il suo comunismo che proclama in modo quasi grottesco il contrario, con tutta la sua pompa cerimoniale e ipocrita), e i poveri, soprattutto nel mondo rurale, diventano sempre più poveri. Forse persino al tempo dei Tudor questa distinzione sociale non era così letale come oggi e come, forse, ancor più domani.
Una inversione di marcia sarebbe proprio una “evoluzione” coalizionale dei contadini, molto più che una evoluzione coalizionale degli operai, ormai cooptati dalle destre amiche dei ricchi quasi ovunque: nell’America di Trump come nell’Italia di Salvini e Meloni, la massa più importante del loro elettorato, con un paradosso stupefacente (sic), è costituita dagli operai e dagli impiegati di serie B, colmi di paure e di pretese di status.
Il grafico mostra, secondo Pine e Gilmore, con grande semplicità, ma anche con grande efficacia, quello che accade: coloro che, nelle campagne e nelle piantagioni, producono il caffè come prodotto agricolo, traggono un guadagno quaranta volte inferiore a chi lo vende, sia pure carico di valori intangibili ed “esperienziali”, a Piazza San Marco (ma anche in altri luoghi affini).

Grafico n.1: Valore d’uso, valore di scambio e valore “intangibile” del caffè nel percorso dal luogo di produzione a Piazza San Marco.

 

 

 

 

 

Posto 15 centesimi il valore del caffè come commodity, l’industria di trasformazione ne guadagna il doppio, quella dei servizi oltre sei volte e a Piazza San Marco quaranta volte.

Il mondo contadino e l’evoluzione della civiltà

Nei tre milioni di anni nei quali si presume che esista l’uomo, a partire da Lucy fino a oggi, il paradigma dell’autosufficienza sorge definitivamente con la nascita dell’agricoltura e dei contadini. Infatti, l’umanità fu costretta al puro paradigma della “sopravvivenza” almeno per 2.990.000 anni e solo negli ultimi 10.000 anni abbiamo le prove di una società ed una economia diversificata, nella quale, accanto all’autosufficienza, si affermava anche una divisione del lavoro, una strutturazione piramidale del potere e della proprietà, al punto che si sono formate classi sociali (per esempio i capi, monarchi, sacerdoti, scribi ecc.) che vivevano del lavoro “altrui”.

E questo si verifica con l’abbandono progressivo della vita nomade basata sulla caccia, la pesca e la ricerca di nuove terre, per far nascere le prime forme urbane, le prime città.

Göbekli Tepe  al confine della Turchia con la Siria e lungo la cosiddetta mezzaluna fertile, è un sito archeologico scoperto di recente e sembra fatto su misura del nostro ragionamento intorno alla forma con la quale la civiltà nomadica e pastorale ha subito, ben settemila anni prima delle Piramidi egiziane, una torsione strategica verso la civiltà stanziale e urbana e quindi ha accelerato il cammino dell’uomo verso un pieno sviluppo, grazie all’agricoltura e all’addomesticamento degli animali utili, come i bovini e gli ovini.

Il mondo agricolo è quindi la fonte prima dalla quale nasce e si sviluppano le prime forme di civiltà organizzata, come i Sumeri, gli Egizi, gli Ittiti ecc.: senza il lavoro dei primi agricoltori e la loro capacità di accumulare derrate alimentari, soprattutto cereali, non si sarebbe potuto creare una forma stabile di società, nella quale si potessero produrre anche oggetti, come le anfore di ceramica, i bronzi, il ferro, persino gli strumenti musicali e i primi tentativi di arte.

È molto indicativo lo studio che l’etimologia della parola “arte” ha elaborato attorno la radice sanscrita ăr_ dalla quale provengono tutti i vocaboli che significano un lavoro che trasforma qualcosa di grezzo e informe in qualcosa non solo di utile, ma soprattutto in qualcosa di bello.

E osservando le tre grandi radici linguistiche indoeuropee (il greco, il latino e il gotico) osserviamo che la radice “ar” dà origine ai verbi che significano ar-are, ossia lavorare i campi: ó (l’atto di “arare” la terra, di trasformarla in campi produttivi, per creare ricchezza, fertilità) ma dalla stessa radice (ed è qui la sorpresa) abbiam la parola  (armonia), la parola αρ-ετή (ar-eté), ossia la virtù e la perfezione. In latino e lingue neolatine dalla stessa radice derivano: arare, con lo stesso significato di ó e una proliferazione di altri termini connessi ai significati dell’arte e della bellezza: ars, artifex, e le attuali ar-te, ar-tistico, ar-tigiano, ar-tista, ar-monia, ecc.: l’uomo capace (eccome!) di creare bellezza e ingegno comincia come contadino e senza il lavoro dei campi non vi sarebbe stata arte e cultura (a sua volta derivata dal latino “colere”, ossia coltivare i campi). E anche nel gotico e lingue germaniche, la radice dà origine a: ar-beit (lavoro), ad ar-am (da cui il tedesco Arm=braccio e inglese Harm=braccio).

I contadini nel Veneto

Nel paradigma dell’autosufficienza, anche la nostra regione, il Veneto, ha dimostrato di saper creare un proprio modello originale di costruzione della economia e della società:

Il mito del “metalmezzadro” è la formula creativa con la quale alcuni sociologi hanno saputo definire lo sforzo del mondo contadino veneto tra gli anni sessanta e gli anni ottanta, di contare sulle proprie forze integrando varie forme di economia famigliare: non più solo il lavoro dei campi (nei quali fino al 1960 era impegnato il 65% della popolazione), ma anche la fabbrichetta accanto alla casa, il lavoro a domicilio, le prime forme di reddito per le donne e i ragazzi nel mondo nascente del turismo estivo, il credito cooperativo ecc.

È con questo modello che il Veneto, da regione pauperistica, afflitta da emigrazione e povertà, ha saputo diventare all’inizio degli anni Novanta l’ottava regione d’Europa per reddito pro capite.

Il segreto dei “distretti” industriali è un insediare le attività produttive a livello di paesi, di comunità locali anche piccole, nelle quali la “famiglia” rurale autosufficiente si organizza e si espande, diversificando le sue attività.

I centri di molte forme di capitalismo nascente, che avrà in seguito dimensioni internazionali, sono spesso collocati in paesi molto piccoli e lontani dalle città, in mezzo alle campagne, come il quartier generale dei Benetton a Ponzano Veneto o dei Polegato a Crocetta del Montello, o alle montagne, come l’occhialeria della Luxottica del Bellunese, con capitale Agordo.

Ma anche il distretto delle scarpe lungo il Brenta, quello del marmo in Valpolicella, quello dei mobili della sinistra Piave e così via.

Dall’autosufficienza alla sopravvivenza

È interessante la formula con la quale un grande filosofo tedesco, Ernst Bloch, autore del libro Il Principio della Speranza [1] ha descritto la centralità di chi lavora i campi, dei contadini, quando disse che se fosse successa una guerra nucleare e lui fosse sopravvissuto, le due uniche persone con le quali avrebbe voluto trovarsi in mezzo al disastro erano un contadino e un artigiano. Questa indispensabilità li ha resi e li rende vulnerabili.

E Bloch aggiungeva che nessuno può fare a meno di loro, al contrario può benissimo fare a meno, per sopravvivere, di avvocati, commercialisti, banchieri, politici e persino medici.

In altre parole, i contadini che producono le cose più necessarie alla vita, sono molto meno compensati di quelli che producono cose superflue.

E ha ragione Ernst Bloch quando dice che solo in situazioni di emergenza risalta con forza l’assoluta priorità del loro lavoro, mentre, passata l’emergenza, essi ritornano in fondo alla scala sociale, insieme ai  colleghi pastori e pescatori.

In questo legame di fraternità e similitudine sociale con queste due categorie, sta uno dei limiti e dei difetti gravi della loro azione sociale e politica: non hanno mai creato una catena di solidarietà profonda con i pastori e con i pescatori, non hanno mai pensato e ipotizzato una strategia comune sulle catene di valore e di distribuzione comuni, non hanno mai realizzato significative integrazioni e sinergie, non dico con gli altri piccolo produttori del mondo rurale e della pesca, ma neppure tra di loro.

La maggior parte delle altre persone, che svolgono altri lavori in una società sempre più complessa, sono poco disponibili a dare un peso specifico alla produzione dei contadini, per darne invece moltissimo al consumo di altri livelli, soprattutto alla cosiddetta economia del futile e dell’inutile.

Basti solo fare un cenno a un paio di economie del futile: il gossip e tutto quello che gira intorno ai “gravissimi problemi mondiali” che dipendono dal fatto che Belén Rodriguez resti incinta o no, che Alessia Marcuzzi abbia le gambe storte, e che Raul Bova una nuova amante: ebbene questo settore economico del futile e dell’inutile, che produce solo sciocchezze, genera in Italia un fatturato di dieci miliardi di euro.

Spostandoci al settore del calcio, dove i contratti milionari anche con i mezzi brocchi si sprecano come se fossero noccioline, ha un fatturato in chiaro di alcune decine di miliardi di euro, senza contare il fatturato in nero delle scommesse, della corruzione, delle manovre mafiose di Blatter che regna incontrastato malgrado le sue palesi nefandezze o della gestione della Federazione Italiano Calcio, con i suoi dirigenti incapaci e spendaccioni, per poi avere come risultato di tutto questo denaro la sconfitta con una squadretta oratoriale della Corea.

Autosufficienza, cooperazione e networking

Autosufficienza vuol dire sì libertà, autonomia, dignità, ma non individualismo.

È qui che i contadini scontano un ritardo rispetto alla evoluzione rapida che in questi ultimi cinquant’anni ha avuto il mondo, trasformando le nostre visuali e i nostri orizzonti, da strettamente locali a universali e globali, con esiti catastrofici sulla nostra creazione di valore e sulla nostra competitività sia di impresa che di territorio. La singola azienda conta orami ben poco in uno scenario di questo tipo.

L’ autosufficienza materiale dei contadini si sta restringendo sempre di più, a mano a mano che si amplifica l’economia globalizzata, l’economia immateriale, l’economia dell’intangibile, verso la quale non hanno saputo aggiornarsi in maniera vincente e soprattutto fare squadra, essere più forti e più compatti.

Le strutture associative sono precarie, gestite con la mentalità e le visioni di trent’anni fa.

Spesso sono servite a qualcuno per servirsi di loro, invece che di servire ai loro interessi e proiettarli almeno nel presente, se non ancora nel futuro.

Il presente, ora, è molto confinato in modelli antiquati, salvo alcuni settori molto specifici, che hanno saputo dare una svolta epocale, come il settore dei vini.

Invece occorreva far attuare a tutti i settori produttivi dei contadini un benchmarking con le buone pratiche avanzatissime e di grande successo commerciale a livello mondiale del settore del vino, con le fiere intelligenti, i marchi d’area, l’approccio culturale, con richiami di natura filmica, come “Sideways”, film che presenta in modo fantastico i produttori di vini della Napa Valley in California.

I produttori di vino hanno saputo valorizzare anche la letteratura e la critica sul vino, e se ne occupano grandi giornalisti, scrittori e persino poeti, riscoprendo una antica cultura del vino che dà una immagine affascinante e creativa di questo prodotto.

È senza alcun dubbio l’unico settore nel quale i contadini e gli agricoltori (in questo caso i viticoltori) hanno saputo adottare la vera legge del successo di oggi e nel prossimo futuro: ossia sposare pienamente tra loro internet e cabernet.

Marketing territoriale integrato

Ma domandiamoci: hanno fatto la stessa cosa con il grano, l’orzo, il mais, il latte, la frutta, le verdure, i formaggi? E le produzioni di nicchia e rare, coltivate ancora in luoghi isolati e ignoti, da piccole minoranze etniche o da contadini eroici sono da noi valorizzate e promosse a livello mondiale?

Oppure dobbiamo lasciar morire tutto questo, per permettere a organismi predatori e vessatori come la Monsanto, di metterci sopra le loro etichette, rivendicando diritti di brevetto largamente vessatori e abusivi, dovuti a una legislazione che li favorisce grazie alla loro capacità di lobby e di corruzione dei membri del Congresso americano?

Questo stile ben lo sappiamo, è classico e in vigore un po’ in tutti i settori: basti pensare ai recenti e ripugnanti esempi del settore farmaceutico, nel quale il cartello tra la Roche e Novartis moltiplicava per dieci volte un farmaco equivalente ad un altro, facendo credere che quello più costoso era sicuro mentre quello meno costoso no, quando invece gli effetti dell’uno e dell’altro erano sostanzialmente eguali.

E noi pensiamo che saremo ancora liberi e forti con questo genere di scenario mondiale che sembra il film “Lo squalo” con noi come comparse?

Noi siamo in una società che a giusto titolo qualcuno ha definito società delle reti.

All’ Homo sapiens si sta sostituendo ogni giorno di più l’Uomo Ragno, l’uomo connesso da mille fili, capace di produrre una bava di social networks pieno di punti di riferimento, ma per ora è purtroppo privo di vera solidarietà.

Basta vedere i nostri figli e i nostri nipoti: sono già l’incarnazione di questa nuova era dell’accesso, si muovono in una navigazione sempre più virtuale, creano reti ogni giorno sempre più complesse, mentre noi siamo fermi nel nostro campicello e vediamo con sospetto il contadino vicino e lo consideriamo concorrente o indifferente.

Il tempo nel quale la categoria dei contadini era stata capace di creare strumenti cooperativi importanti, come lo fu (e per fortuna lo è ancora) la Coldiretti, e come lo furono i Consorzi Agrari, il cui fallimento è dovuto alla loro trasformazione da catene di solidarietà e di garanzia della nostra libertà di acquisto e di vendita, in macchine che si erano trasformate in feudi di gente che ci mangiava sopra a spese della nostra gente di campagna.

Se i consorzi si fossero per esempio o trasformati in “distretti produttivi” specializzati per settori, come lo hanno saputo fare negli anni Ottanta e novanta gli artigiani e le piccole imprese del Veneto, oppure i “parchi scientifici e tecnologici” degli anni duemila, oggi non saremmo qui a rincorrere affannosamente un restauro della libertà di azione e della dignità dei nostri contadini, ma a ottenere i risultati certamente cospicui di un marketing territoriale integrato.

La best practice dei produttori di thè

Abbiamo un bellissimo esempio che ho letto su La Repubblica all’inizio di luglio di qualche anno fa: in India i produttori di thè erano fino a ieri in condizioni paragonabili al più puro feudalesimo, con una produzione strozzata dagli intermediari e dai broker, che imponevano i prezzi a loro uso e consumo, fregandosene altamente delle esigenze di guadagno, di dignità lavorativa e di potere di acquisto degli altri beni e servizi, dei contadini che producevano e raccoglievano il thè. Una situazione esemplare della sconfitta assoluta della autonomia e della libertà del mondo rurale.

Nell’era di internet, un’idea e un algoritmo possono rappresentare una catapulta fra il nostro passato e presente, spesso pieno di ostacoli e di difficoltà crescenti, soprattutto di emarginazione e di dipendenza da altri, e il nostro futuro, fra tradizione arcaiche o modi di gestire vecchi e obsoleti e le opportunità globali, con chiarissimi trends di crescita delle domanda di prodotti genuini e di autenticità, alla quale fanno più presto ad adeguarsi quelli che li vendono come tali, che fanno prodotti taroccati e con le etichette false, piuttosto che i nostri, che sia il grana, venduto in Germania con il marchio Parmesan e fatto con il latte del Brandeburgo, oppure i prosciutti di San Daniele, taroccati negli Stati Uniti con un fatturato di un miliardo e mezzo di dollari.

Il caso del thè di Darjeling

Un fatto assolutamente straordinario, che fa da best practice di eccellenza nella direzione che sto esponendo, è quello accaduto nei campi e nelle colline del Darjeling, un’area produttiva di Thè nel nord dell’India.

I coltivatori diretti di questa pianta fino a pochissimo tempo fa, continuavano a usare gli stessi metodi  di produzione e di distribuzione dei tempi di quando l’India era una colonia inglese, cioè di 70 anni fa: raccolta manuale delle foglioline, compilazione manuale dei libri contabili (al massimo di moderno usando la biro), contrattazione delle quote con intermediari capaci, con la loro furbizia di mercanti, di mettere un produttore contro l’altro sul prezzo di acquisto, borse del thè in edifici fatiscenti, dove i broker se le davano di santa ragione per accaparrarsi i lotti.

In una parola un sistema economico bizantino, vecchio, che impiega minimo sei mesi per arrivare sul tavolo dei consumatori. E tutto questo a fronte di una domanda crescente che fa del thè una bevanda più alla moda che mai, grazie ad una coscienza salutista e alla diffusione ovunque di raffinate sale da thè: la domanda, secondo le previsioni più accreditate, è destinata a raddoppiare in soli cinque anni.

E i contadini che fanno? Pochissimo potere contrattuale, confusione e frammentazione, molto favorita furbescamente dai mercanti che usano la tecnica dell’Impero Romano: divide et impera. Il capitale sociale e la coesione dei contadini, anche in termini di civiltà del villaggio, vengono minati dalle fondamenta e degenerano in competizione al ribasso.

Tutto questo finché un giorno, un giovane figlio di un contadino del posto, rampollo di un piccolo produttore di thè della quarta generazione, dopo un periodo di lavoro come analista finanziario a Singapore, decide (miracolo miracolo) di tornare dai suoi e nella sua terra e di applicare alla tradizione della sua famiglia e di tutti i contadini della zona le sue competenze avanzate, convincendo un venture capitalist a finanziare l’idea di far approdare il mercato del thè nel mondo dell’e-commerce o commercio elettronico per raggiungere i consumatori disposti a spendere e acquistare il thè doc senza intermediari e con la certificazione di qualità e di garanzia.

Questo giovane ha, come ho già detto prima, copiato dal marketing del vino, che è quello che ha avuto l’idea per primo fra tutti i prodotti della terra. È nata così la TeaBox che con i suoi algoritmi predicono la domanda, ha mobilitato una schiera di assaggiatori e pubblicitari del vino perché facessero la stessa cosa con il thè, riuscendo finalmente a sbarcare come esperienza sul New York Time, il giornale più letto a New York, città nella quale, per chi non lo sa, ha da sola lo stesso potere di acquisto dell’intera Italia.

La concorrenza con gli altri brand come Twinings, è vincente, perché in questo modo diretto riesce a vendere thè di migliore qualità ad un prezzo 60% inferiore.

Vorrei invitare tutti noi a riflettere sul grado di autosufficienza e di libertà, oltre che di autostima, che hanno ora i contadini delle regioni indiane che hanno fatto questo, rispetto ai contadini della nostra regione e del nostro paese, che non ha nulla da invidiare per qualità di prodotti altre regioni d’Europa e del mondo.

Noi oggi, nel nostro contesto, rischiamo di perdere la coesione (già persa da tempo), quella compattezza che faceva della categoria dei contadini un gruppo influente e decisivo nelle politiche sia del paese che dell’Unione Europea, e di perdere l’autostima, percependo una crescente emarginazione sociale, dovuta in parte (ma non solo) a quello che viene definito “digital divide” nel linguaggio della banda larga, ossia nuove forme di emarginazione o di marginalità.

L’autonomia dei contadini nella catena di valore è sempre più scarsa.

In Italia, ma ancor più in molti paesi del resto del mondo, la remunerazione dei produttori (contadini, pastori e pescatori) si va riducendo e consente minori margini di contribuzione per ogni prodotto venduto, mentre altri, giocando su intermediazioni talvolta infinite e parassitarie, guadagnano profitti enormi.

Basti pensare al trucco dei trasporti organizzati dalla mafia sui prodotti che vanno e vengono quattro volte: prima vanno a Milano, poi da Milano tornano a Formia, poi da Formia vanno a Bologna, poi da Bologna vanno di nuovo a Milano: nel frattempo i 20 centesimi al chilo che vengono pagati al produttore di zucchine (prendere o lasciare), diventano due euro e mezzo. Qualcuno ha guadagnato dodici volte quello che ha guadagnato il contadino.

I contadini del Nordest brasiliano

Un esempio mi è capitato durante una mia missione con le Nazioni Unite in Brasile, nello stato del Pernambuco, uno dei più poveri di quel paese.

Sono stato mandato ad un congresso di contadini, a presentare il modello veneto e le prospettive di creare reti e di creare sinergie tra loro, oltre che forme nuove di impresa, come l’agriturismo, che allora era del tutto sconosciuto in Brasile.

Durante una visita ai contadini della zona della Mata Norte, che producono buoni prodotti di nicchia grazie ad un territorio collinare e ad abbondanza di percorsi d’acqua, ho chiesto ad un contadino, Evandro, a quanto vendesse un chilo di uva da tavola, buonissima, da lui prodotta.

Mi rispose che i mercanti gliela pagavano, prendere o lasciare, 10 centavos (in euro sono poco meno di 5 centesimi). Io gli dissi che un grappolo d’uva all’Hotel dove ero ospite a Recife, pagavo l’uva due reais. In pratica, a distanza di soli 100 chilometri, io pagavo la sua uva venti volte di più.

E insieme a lui e ad altri cinquanta o sessanta altri contadini della zona abbiamo fatto delle riflessioni del tipo: che cosa ci costerebbe mettersi tutti d’accordo e aprire un negozio chilometro zero a Recife o prendere i contratti direttamente con Alberghi, Ospedali, Comunità ecc.?

Anche se avessimo fatto pagare un chilo d’uva 1 solo real, al netto delle spese, sarebbero restati comunque 40 centavos, ossia quattro volte il prezzo dei mercanti intermediari. Ho spiegato poi i vantaggi competitivi di una organizzazione locale di ospitalità nelle forme di agriturismo: se all’ospite, che viene da Recife, dove paga l’uva 2 reais al chilo, Evandro e gli altri applicassero un prezzo anche solo di 20 centavos, ne uscirebbero contentissimi sia i contadini che i visitatori o turisti: i contadini, perché comunque guadagnerebbero 4 volte di più e senza costi di trasporto, i turisti perché, con grande loro gioia, mangerebbero della buona uva da tavola ad un prezzo 10 volte più conveniente.

Ritorno al feudalesimo o paradigma del futuro?

Se invece noi proseguiamo la situazione attuale senza compiere alcun intervento di coalizione distrettuale, avremo una specie di ritorno sempre più rapido al feudalesimo, non solo nel settore finanziario, nel quale pochissimi squali, come il famoso Lupo di Wall Street, guadagnano, senza produrre assolutamente nulla, cifre equivalenti al PIL di uno stato, ricostituendo quella piramide produttiva molto larga nella fascia della povertà e dello sfruttamento e molto stretta nelle punte dove abitano i nuovi feudatari.

Il feudalesimo venne sconfitto a fatica e le prime sconfitte furono dovute alla creazione dei “liberi comuni”, nei quali contava solamente chi apparteneva al mondo della produzione, chi produceva, chi rischiava, chi lavorava, e non chi gozzovigliava senza far un bel niente. Oggi il nuovo feudalesimo sta creando gerarchie e sottomissioni molto più sottili, invasive.

Cogliere l’attimo e misurarci su un piano sociale, politico ed economico con un modello connesso, con uno stile come quello inaugurato da Terra Madre, con un modo di gestire i nostri interessi simile a quello del thè della zona di Darjeling, farebbe dei nostri contadini una forza libera, capace di contare sui propri vantaggi competitivi in modo intelligente e veloce, abbandonando metodi di elemosina e di debolezza del pensiero strategico che ci sta mandando verso il fondo.

Il vero chilometro zero oggi è il web marketing

Il vero chilometro zero oggi è il web marketing e la distribuzione on line, e non più i gazebo del sabato mattina, dove i consumatori si avvicinano con lo stesso spirito con il quale si avvicinano alle bancherelle delle “strasse” portate dai cinesi o dai cingalesi. E con un sospetto difficile da togliere: ma sarà vero che tutto questo è farina del suo mulino bianco?

l segreto dei “distretti” industriali è un insediare le attività produttive a livello di paesi, di comunità locali anche piccole, nelle quali la “famiglia” rurale autosufficiente si organizza e si espande, diversificando le sue attività.

I centri di molte forme di capitalismo nascente, che avrà in seguito dimensioni internazionali, sono spesso collocati in paesi molto piccoli e lontani dalle città, in mezzo alle campagne, come il quartier generale dei Benetton a Ponzano Veneto o dei Polegato a Crocetta del Montello, o alle montagne, come l’occhialeria della Luxottica del Bellunese, con capitale Agordo.

Ma anche il distretto delle scarpe lungo il Brenta, quello del marmo in Valpolicella, quello dei mobili della sinistra Piave e così via.

Autosufficienza, cooperazione e networking

Autosufficienza vuol dire sì libertà, autonomia, dignità, ma non individualismo. È qui che noi scontiamo un ritardo rispetto alla evoluzione rapida che in questi ultimi cinquant’anni ha avuto il mondo, trasformando le nostre visuali e i nostri orizzonti, da strettamente locali a universali e globali, con esiti catastrofici sulla nostra creazione di valore e sulla nostra competitività sia di impresa che di territorio. La singola azienda conta orami ben poco in uno scenario di questo tipo.

Possiamo dire che la nostra autosufficienza materiale si sta restringendo sempre di più, a mano a mano che si amplifica l’economia globalizzata, l’economia immateriale, l’economia dell’intangibile, verso la quale non abbiamo saputo aggiornarci in maniera vincente e soprattutto fare squadra, essere più forti e più compatti.

Le nostre strutture associative sono precarie, gestite con la mentalità e le visioni di trent’anni fa.

Spesso sono servite a qualcuno per servirsi di noi, invece che di servire ai nostri interessi e proiettarci almeno nel presente, se non ancora nel futuro.

Il nostro presente, ora, è molto confinato in modelli antiquati, salvo alcuni settori molto specifici, che hanno saputo dare una svolta epocale, come il settore dei vini.

Invece di far attuare a tutti i nostri settori produttivi un benchmarking con le buone pratiche avanzatissime e di grande successo commerciale a livello mondiale del settore del vino, con le fiere intelligenti, i marchi d’area, l’approccio culturale, con richiami di natura filmica, come “Sideways”, film che presenta in modo fantastico i produttori di vini della Napa Valley in California.

I produttori di vino hanno saputo valorizzare anche la letteratura e la critica sul vino, e se ne occupano grandi giornalisti, scrittori e persino poeti, riscoprendo una antica cultura del vino che dà una immagine affascinante e creativa di questo prodotto.

È senza alcun dubbio l’unico settore nel quale i contadini e gli agricoltori (in questo caso i viticoltori) hanno saputo adottare la vera legge del successo di oggi e nel prossimo futuro: ossia sposare pienamente tra loro internet e cabernet.

Detassare il più possibile i redditi e i profitti dei contadini

L’idea che propongo è quella di limitare al massimo la tassazione a queste persone, che producono in regime di autosufficienza e di mercato limitato: occorre riconoscere a tutti questi, almeno il 50% di defiscalizzazione del loro fatturato, chiedendo, per esempio, che il reddito che viene “liberato” a loro completa disposizione attraverso la defiscalizzazione, venga adoperato, con evidenze oggettive e verificabili, almeno in agevolazione di alcune forme di investimento:

  • investimento strutturale sulla piccola impresa (per esempio l’adeguamento tecnologico, la digitalizzazione, la frequenza a corsi di aggiornamento in ecologia, biologia, scienze dell’alimentazione, viaggi per benchmarking, convegni…)
  • i vincoli ambientali e di salute (per esempio con i prodotti bio o concimazione con prodotti non nocivi al consumatore e all’ambiente),
  • nuova occupazione, compresa quella per i figli, la moglie e la famiglia allargata) sostegno all’occupazione di immigrati
  • Costi di associazionismo e di networking locale, regionale e nazionale
  • facilitazione di accesso al credito con strumenti di credito agevolato e garantito dai fondi cooperativi di garanzia fidi
  • realizzazione di polizze assicurative vita o di pensione integrativa, con la clausola di reversibilità, per permette3re agli eredi di proseguire l’attività in caso di decesso del titolare.

E altre misure che siano ritenute utili e intelligenti per il successo del loro lavoro e la sua continuità: quello che fanno e quello che producono è talmente essenziale, che dovremmo noi stessi farci carico del peso fiscale, come se si trattasse di una categoria protetta.

Tutto questo si intende applicabile solo per i “contadini” veri, con un capitale di terreni e di produzione limitato (la cui dimensione sarà oggetto di uno studio specifico, che qui non possiamo proporre). Non certo ai latifondisti e ai mega-produttori estensivi.

Mitologia del mondo contadino, tra rimozione e sublimazione

Il pericolo di mitizzare il mondo contadino, ricoprendo di leziosità la fatica e l’emarginazione profonda e spesso crudele, in cui è stato confinato, trova in un’opera di Adriano Prosperi una elaborazione molto accurata e profonda. Nel titolo stesso l’autore adotta il termine esplicito “Un volgo disperso” e, pur riferendosi prevalentemente al mondo contadino italiano dell’Ottocento, tuttavia è una lettura da mantenere vigile e attenta ancora oggi, considerando questo mondo in chiave mondiale, compresi gli immigrati rumeni, nigeriani, ghanesi, senegalesi e pakistani che lavorano, spesso in condizioni sub-umane, nelle nostre campagne, tra vigneti, agrumeti, oliveti e campi di ortaggi, pomodori in testa.

Abbiamo testimonianze di un grande genio come Vincent Van Gogh, pittore del mondo contadino, insieme all’altro pittore Millet. Egli scrive a suo fratello Theo: “Chi preferisce vedere un’immagine sdolcinata dei contadini, vada per un’altra strada. Io sono convinto che dia risultati migliori dipingerli nella loro rozzezza piuttosto che con la convenzionale leziosità.  Un quadro di contadini non deve essere profumato”. Van Gogh aveva appena finito di dipingere “I mangiatori di patate”: uno dei tanti quadri nei quali il grande pittore ci rappresenta un mondo di dolore, di privazione, e di sofferenza. Per riscattare definitivamente questo mondo che ha vissuto per secoli molto al di fuori dell’aura mitologica nella quale poeti, scrittori, pittori lo aveva trasfigurato: una vita piena di stenti, di miseria e di fatica. Anche se oggi, nel nostro paese, registriamo condizioni migliori nelle nostre campagne, occorre mantenere questo sguardo disincantato e razionale per le condizioni dei contadini in tutto il resto del mondo, in paesi nei quali essi costituiscono ancora la maggioranza della popolazione e del tutto trascurati dai loro governi, come in Brasile con i “sem terra”, in India, con la miseria costante, nella stessa Cina, che, malgrado i suoi spettacolari progressi tecnologici e economici, ha creato un sistema che l’esatto opposto delle premesse con le quali si era emancipata ai tempi della rivoluzione di Mao Tse-tung, competendo in capitalismo predatorio con gli stati più capitalisti del mondo, per non parlare del continente africano, dove le dittature predatorie, piene di leaders politici avidi, feroci e ladri sono la regola di tutto il sistema. Se non si assicurano i diritti fondamentali del mondo contadino, cominciando dal principio dell’autosufficienza e della libertà soprattutto attraverso la disintermediazione (di ogni tipo: da quella padronale, a quella del caporalato e delle mafie fino a quella, micidiale, degli intermediari della catena commerciale), il mondo vivrà sempre di più in un clima di pandemia, perché il primo rispetto dell’ambiente e della natura passa attraverso le “formiche” umili e instancabili del mondo contadino, dei pastori, dei montanari, dei boscaioli e degli ortolani, senza sradicare il rapporto con la natura e gli animali selvaggi, che ci confezionano il gesto letale dello spillover.

Note

[1] Relazione tenuta in occasione di un convegno della Associazione Culturale Nuova Vita sul tema “L’autosufficienza nella ruralità veneta. Tra storia e attualità”, tenuto in Mogliano Veneto il 10 luglio 2014.

[2] Pine B.J.- Gilmore J.H. (2000), The Experience Economy. Work is Theatre & Every Business a Stage, Harvard Business School Press, Boston.

[3] Nel successo della prima grande rivoluzione del 14 Luglio 1789, così come in quella del 1848, furono soprattutto i piccoli artigiani e operai autonomi: la miccia fu accesa dapprima per il crollo dei prezzi agricoli della viticoltura, che mandò in miseria i contadini e successivamente l’aumento del prezzo del pane ridusse allo stremo i ceti popolari degli operai e degli artigiani e, ciò nonostante, la tassazione gravava quasi esclusivamente sulle spalle dei ceti più poveri, mentre i nobili e il clero restavano immuni: oggi, con le tasse irrisorie che le grandi concentrazioni del capitalismo attuale pagano sui loro profitti, per esempio nel settore informatico e digitale o nelle loro locations nei paradisi fiscali, la situazione è molto simile. Forse il Covid 19 è un avvertimento sintomatico della eguaglianza perduta e forse ritrovata.

[4] Il Principio speranza, Garzanti 2005.