Rosanna Carletti - Poesie

La cornice

 

Per l’anniversario del loro matrimonio, a Carmen e Andrea è stata regalata una cornice.

Dopo aver sfogliato alcuni album di fotografie, Carmen ne ha scelta una delle tante fatte nel viaggio in Marocco con Andrea.

Erano andati a trovare Amina, la ragazza che avevano ospitato quando era una bimba ed era venuta in Italia, con il papà Adil.

In questa foto compaiono Carmen, Andrea circondati da tanti bambini.

Sono i nipotini di Adil.

Uno di questi bimbi è una bimba e si chiama Fatima ha quattro anni è la figlia di Amina.

Tiene stretta stretta una bambolina che le hanno regalato Carmen e Andrea.

Non la lascia mai.

Che emozione riprova Carmen ricordando quando glie l’ha data.

La bimba era felicissima.

Il giorno che Carmen e Andrea sono andati a salutarli, perché rientravano in Italia, i bimbi gli sono corsi tutti attorno, c’era chi li baciava, chi voleva essere preso in braccio, Fatima NO.

Se ne stava in un angolo con la sua bambolina, che continuava a vestire e svestire come se fosse un bimbo, e quando Carmen e Andrea le si sono avvicinati per salutarla lei si è messa a piangere e ad urlare.

Nessuno degli adulti, sua mamma, suo nonno e quanti erano presenti riuscivano a capire cosa era successo, il perché di questo comportamento.

Poi Amina, la mamma, con calma, ha capito che Fatima non voleva salutarli perché non voleva che se ne andassero, aveva paura che con loro se ne andasse anche la sua bambolina.


 

Pillole

 

All’entrata del cinema domandò: “Mi scusi, vorrei sapere se, essendo cieco, ho una riduzione sul costo del biglietto d’ingresso?”

Gli rispose: “No, signore, lei ha il biglietto completamente gratuito”

“Oh, bene, – replicò – sono proprio fortunato”

Un collega si lamentava del fatto di non essere autonomo come un tempo e lui gli disse: “Ok, non avrai più l’autonomia di prima, ma puoi ancora girare da solo, io invece ho sempre necessità di qualcuno che mi affianchi”. Il collega obbiettò: “Mi rendo conto, ma comunque faccio una gran fatica a deambulare”, e l’altro: “Senza contare che hai un’altra fortuna rispetto a me.”

“Quale?” gli chiese. “Avendo un occhio di vetro, basta che lo butti dietro l’angolo e vedi in anticipo chi arriva”.

 

Due sorelle stavano guardando un film trasmesso in televisione.

Avevano rapito una ragazza e le ricerche degli inquirenti non approdavano a nulla.

Nel momento della scena più drammatica, quando inquadrano il rapitore intento a spogliare la fanciulla che imbavagliata e legata cerca, con indicibile fatica e paura negli occhi, a sottrarsi all’uomo, e le due sorelle erano al massimo della suspense, la più piccola disse alzando la voce: “Ecco, ora ho capito!” “Cosa?” chiese l’altra e lei: “Ho capito perché la mamma insiste per farci lavare e cambiare tutte le mattine”.

Dopo anni di sacrifici e rinunce per poter tirare avanti, lei, accompagnato a scuola il bimbo che frequentava la terza elementare, andò dalla parrucchiera.

Voleva farsi un taglio un po’ più moderno e togliersi la coda di cavallo che era costretta a fare per avere la testa in ordine.

Entrata nel negozio, un po’ titubante e in imbarazzo, si sentiva a disagio, espose il suo desiderio e la parrucchiera, una signora cordiale, capita la situazione la tranquillizzò e anzi le descrisse tutte le possibilità a sua disposizione per cambiare look e tra queste le propose qualche “colpo di sole”.

Lei era entusiasta, finalmente si rinnovava un po’.

Uscì dalla parrucchiera veramente soddisfatta, le sembrava di essere un’altra persona.

Andò all’uscita della scuola a prendere il bambino.

Quando la vide, il bimbo non disse nulla.

Allora lei gli disse: “Lu, non dici niente alla mamma?” e lui con un faccino corrugato e gli occhi seri, seri rispose: “Non lo sai che tu sei una mamma?”.

 

Andando a scuola volle fermarsi a guardare un’Ape, il mezzo con cui gli spazzini trasportavano le cose raccolte in strada.

Chiese il permesso di salire, toccare il manubrio, vedere come si alzava il cassonetto posteriore.

L’operatore lo accontentò, divertito nel vedere la curiosità di quel bambino e gli disse: “Ti piace?” e il bimbo: “Si”, lo spazzino continuò: “Che classe fai?” – “La terza elementare” – e l’uomo: “Eh, allora ne hai di anni da studiare”. Il ragazzino sospirò: ”Lo so, devo finire le elementari, poi le medie, il liceo e l’università”. Lo spazzino chiese ancora: “Cosa vuoi diventare dopo tanti studi, un dottore?” e il ragazzino: “No, voglio fare lo spazzino come te”.


 

L’Ombrellino

 

Era il 1990, l’anno del trasloco. Finalmente erano riusciti a comprare casa, ovviamente accendendo un mutuo ultraventennale; Rosa iniziò a predisporre capienti scatole con scritto in evidenza quello che contenevano, così gli uomini di fatica che avevano contattato per il trasloco potevano essere agevolati nel loro compito.

Svuotando cassetti, ante di armadi e comò, le capitò in mano una specie di tubo, fasciato con una carta di giornale oramai ingiallito e legato con uno spago.

Non ricordava, Rosa, cosa contenesse, così lo sfasciò: un ombrellino.

Era un ombrellino di quelli pieghevoli, in nailon dai disegni geometrici con i colori che si intersecavano dal beige al marrone all’arancione. Lo allungò e lo aprì e vide che il tessuto era un po’ rovinato, bucherellato in alcuni punti, aveva due stecche rotte e il terminale era arrugginito.

Quanti ricordi le riaffiorarono alla mente. Tornò indietro di più di vent’anni, al suo diciottesimo compleanno, l’anno della sua maggiore età.

Aveva aspettato con ansia quel giorno, perché i suoi genitori le avevano promesso una bella festa, una super festa.

Non aveva mai avuto una festa tutta dedicata a lei.

Anche la festa della prima Comunione, Rosa l’aveva condivisa con sua sorella.

Ai compleanni precedenti aveva avuto delle festicciole, carine, ma solo con i famigliari, quella invece prevedeva l’invito di amici e parenti.

Insomma un ricevimento in grande. Naturalmente la location era la sala da pranzo addobbata per l’occasione; torte salate e di verdura, pizze, salatini, pasticcini, tutto doveva essere rigorosamente preparato in casa per una questione di budget familiare, solo la torta millefoglie o crostata di frutta si poteva prenotare in pasticceria.

Il fermento dei giorni precedenti l’evento era stato tanto, la preparazione dei cibi richiedeva tempo e, per confezionare gli addobbi, ci voleva fantasia e lei era eccitatissima.

Aveva preparato la tavola con la tovaglia bianca di fiandra, quella elegante del corredo della mamma, i tovaglioli di carta elegantemente abbinati, i piattini e i bicchieri di un colore rosso vivo; aveva anche predisposto dei segnaposto dello stesso colore, per dare un po’ di brio all’ambiente.

I mobili stile inglese davano un aspetto severo alla sala da pranzo, ma un grande specchio illuminava il buffet nell’angolo. Vi aveva sistemato il giradischi Lesa, avuto in regalo per la prima Comunione, ma usato da tutta la famiglia. A lato, una pila di dischi: Morandi, Little Tony, Pavone, Villa…

Il giorno della festa aveva disposto sul tavolo tanti vassoi, piatti e piattini contenenti i vari stuzzichini in modo che gli invitati potessero servirsi da soli.

Le tornò alla mente la caffettiera, una grande caffettiera Bialetti da dodici tazze.

Erano arrivati i nonni, gli zii, gli amici di famiglia dei genitori, alcune sue amiche di allora e la sua vicina di casa, la sua futura suocera, il fidanzato e naturalmente le sue sorelle.

Tanti regali per lei: oggetti che andavano ad arricchire il suo corredo.

Il fidanzato le aveva regalato una borsa fantastica, acquistata in un negozio di pelletteria prestigioso del centro!

Ma vi fu anche un regalo inaspettato.

Al termine della festa, quasi tutti gli invitati si erano congedati un po’ alla volta; infine, in casa rimasero solo gli amici dei genitori. Fu allora che il papà si assentò un attimo e ricomparve in sala da pranzo con un pacchetto, a forma di tubo, glielo porse e disse: “Questo è per i tuoi diciotto anni”.

Rosa era rimasta confusa, il “magone” le impediva di parlare, lì con quel pacchetto in mano senza aprirlo. Infine, lo sfasciò e… apparve un ombrellino, pieghevole, da mettere in borsetta. Un regalo di papà! non dei genitori ma solo di papà!

Rosa, vinto l’imbarazzo, gli aveva gettato le braccia al collo, felice.

Quello fu l’ultimo compleanno che Rosa festeggiò con tutta la famiglia perché l’anno successivo, inaspettatamente, papà, nel pieno degli anni, la lasciò; dopo un difficile intervento chirurgico e cinque mesi di atroci dolori e cure antidolorifiche che lo rendevano incapace degli atti quotidiani e non più padrone della sua mente, si spense, lasciando un enorme vuoto.

Quel giorno, il giorno del trasloco, anche quello ormai lontano, rifasciò il suo ombrellino oramai vetusto, con una carta colorata e gli fece un bel fiocco, lo ripose in una scatola insieme ad altri oggetti, con la scritta “FRAGILISSIMO”.


 

L’imprevisto

 

Vi siete mai trovati in mezzo ad una mandria di mucche?

Noi sì.

Volevamo trascorrere una giornata in montagna, dove abbiamo la casa, con degli amici che non avevano ancora visto il nostro alloggio e quel giorno, era il ventinove di settembre, San Michele, decidemmo di fare un giro e pranzare in terra piemontese.

Ci saremmo visti là, sul posto.

Noi partimmo all’incirca alle otto del mattino calcolando che verso le dieci avremmo raggiunto l’appartamento, loro sarebbero arrivati verso mezzogiorno; avrei avuto il tempo di rendere accogliente la casa, disabitata da circa un anno, preparare una caffettiera e un piccolo vassoio con dei dolci da offrire alle due coppie di amici che venivano a trovarci.

Lasciato l’ultimo centro abitato, iniziammo la salita. Eravamo circondati dal verde delle montagne e sul lato sinistro della strada scrosciava l’acqua del torrente.

L’aria era fresca e frizzante, tipica del periodo e del luogo, il profumo dell’erba e dei prati entrava nell’abitacolo; il cielo era limpido. Prometteva essere una giornata perfetta e il posto sarebbe di certo piaciuto alla piccola comitiva che di lì a poche ore l’avrebbe raggiunto.

Giunti a circa venti minuti dalla meta, ecco l’inghippo.

C’era una fila di macchine; strano, una coda così non si era mai vista nemmeno nei fine settimana invernali, quando molti genovesi si trasferivano per un week-end sulla neve.

Si marciava lentamente; non si capiva quale fosse l’impedimento.

Piano, piano la coda di macchine defluiva ingoiata da …  una mandria di mucche.

Gli animali avanzavano scendendo dall’alpeggio; non sapevamo che il giorno di San Michele era il giorno del rientro delle mandrie dalla transumanza.

Il giorno d’inizio della transumanza è il ventiquattro giugno, San Giovanni Battista, quando le mandrie vengono portate ai pascoli alti per trovare erba fresca.

Le mandrie scendevano dall’alpeggio e noi salivamo. Ci trovammo circondati dalle mucche.

Procedevo a passo lento, lentissimo, con la paura che mi faceva tremare.

Dai finestrini i musi delle vacche che incuriosite sembravano voler entrare.

Riuscii a mantenere la calma e condurre l’auto senza spaventare le bestie; i cani saltavano, abbaiando, tutt’intorno all’auto e davanti alla mandria, con il muso spingevano le vacche che fuoruscivano dalla strada per andare nei prati circostanti.

I pastori, uomini e donne, ragazzi e bambini, indirizzavano gli animali toccandoli con lunghi bastoni; noi in auto sempre lì in mezzo.

Il suono dei campanacci appesi al collo delle vacche e i loro muggiti riecheggiavano nella vallata.

L’odore di stalla aveva pervaso tutto l’abitacolo.

Durò circa un’ora, un’eternità; gradatamente riuscimmo a farci il passaggio tra le mucche e arrivammo, finalmente, a casa.

Dopo aver posteggiato, scesi dall’auto e vidi che … era piena di sterco.

Ruote, parafanghi, portiere: un macello.

Non sapevo come fare a toccare le maniglie per chiudere le portiere.

Povera auto, bella, nuova, color “grigio arte” simile al caffè-latte conciata in quel modo; come avremmo fatto ad andare in giro con gli amici senza prima riuscire a pulirla?

Andammo in casa pensando di prendere stracci e secchio per provare a pulire un po’ l’auto ma per prima cosa mi dedicai alla casa, gli amici stavano salendo e non volevo farmi cogliere impreparata all’accoglienza.

Sistemata casa, mentre mi preparavo all’imprevista operazione di pulitura, armata di stracci, secchio, guanti, mi giunse una telefonata piuttosto concitata.

Erano loro, si trovavano in mezzo alla mandria, che continuava la sua discesa a valle, non sapevano come uscirne né a che ora sarebbero riusciti ad arrivare.

Risposi di stare il più tranquilli possibile, andare lentamente e piano piano le mucche sarebbero defluite e loro avrebbero ripreso la via tranquillamente.

Decisi di attenderli, immaginai che anche la loro auto sarebbe stata nelle condizioni della nostra.

Arrivarono che era l’una passata, ed erano nella nostra stessa condizione.

Macchina impresentabile, odore di stalla impregnato negli abiti.

Scesero e, osservando la loro auto, poi guardando la nostra, incominciarono a ridere a crepapelle.

Io gli ero andata incontro, fui contagiata dalle loro risa e cominciai a ridere.

La giornata trascorse serena, ogni tanto si evocava l’episodio avvenuto in mattinata e ridevamo di cuore.

A sera ci salutammo e riflettemmo che era stata comunque una “bella” esperienza, nonostante l’ansia di trovarsi in mezzo a mandrie di mucche e il disagio per le auto imbrattate di sterco.



La scarpetta di ceramica

 

Se ne sta lì da anni, in bella mostra, assieme a tanti altri oggetti, nella vetrina antica fine ‘800, a due ante, con vetri dai ricami sabbiati rappresentanti cesti di natura morta, piedi a cipolla e una serie di colonnine interrotte al centro da un intarsio a forma di una valva di conchiglia, sembra la conchiglia da dove Botticelli fece uscire la sua Venere, che ne rifiniscono la cima; era appartenuta a sua nonna, acquistata da una famiglia che se ne liberava.

Alla sua morte era passata a sua mamma, dopo una penosa divisione, delle povere cose rimaste dei suoi genitori, tra lei e i suoi fratelli.

Dopo la sua morte, la vetrina era toccata alla figlia primogenita e, assieme alla vetrina, tanti oggetti poco interessanti dal lato economico ma molto cari dal lato affettivo.

Ogni oggetto raccontava una storia, un momento della sua vita famigliare nella famiglia d’origine.

La storia della scarpetta di ceramica non era la più antica ma senza dubbio la più commovente.

Per la forma ricordava la scarpetta di Cenerentola: la tomaia dal fondo nero, bordata di oro zecchino, aveva pennellate dai tenui colori incrociati con pennellate di colore oro che la rendevano elegante; l’interno era bianco, la punta arrotondata, il tacco (tacco dodici!) color nero rifinito in oro zecchino.

Quella scarpetta fu l’ultimo regalo del marito, prima di andarsene, dopo una malattia improvvisa ma tanto dolorosa.

Era la festa della Befana del 1974, e le ragazzine, oramai grandi, come ogni anno, misero la tradizionale calza appesa ad un filo di spago sistemato sotto la cappa per ricevere i doni della “Vecchina che viene di notte …”

La mattina seguente, le tre calze erano piene di dolciumi vari; vicino alle loro calze ne videro una che la sera prima non c’era.

Fecero l’atto di staccarla dal filo ma una voce alle loro spalle le fermò.

Era il papà; prevedendo quello che sarebbe successo, si era svegliato per tempo in modo da fermarle.  “Quella non è per voi”- spiegò.

Intanto si avvicinò la mamma. Alzatasi, come al solito, per prima, non si era accorta della calza che aveva preso posto sul filo.

L’uomo le disse: “Penso ti appartenga” indicandole la calza, lei stupita e contenta della sorpresa la staccò dal filo e ne tirò fuori una scatola trasparente da dove si intravedeva un meraviglioso oggetto pieno di caramelle e fiocchi di carta colorati.

Aprì con delicatezza la scatola e ne tirò fuori il contenuto: una scarpetta di ceramica dai mille colori.

Abbracciò il marito e gli diede un bacio, commossa per quel gesto, semplice ma colmo d’amore.

La scarpetta era l’articolo più bello e più costoso che avevano nell’unico negozio del paese, dove vi si trovava un po’ di tutto per ogni occasione e quella scarpetta era l’oggetto giusto da regalare per la festa della Befana.

Trovò subito posto nel mobile a vetrina di stile inglese della sala da pranzo, sistemata assieme alle tazzine e bicchieri che si adoperavano nelle grandi occasioni.

Nella primavera del ’74 lui si ammalò e di lì alla fine dell’anno cambiarono tante cose.

Una tra queste fu il trasloco nella casa con giardino scelta insieme prima della sua malattia.

Lei volle trasferirvisi ugualmente per dargli l’illusione che non era cambiato nulla, avrebbero vissuto in quella nuova casa, lui sarebbe guarito e la vita avrebbe ripreso il suo corso lasciandosi alle spalle quel brutto periodo.

Dopo la morte del marito, lei entrò nel più buio sconforto.

La figlia primogenita, un giorno, ritornando nell’unico negozio del rione dove avevano abitato tanti anni, si fermò a chiacchierare con la negoziante, a suo tempo amica della mamma.

La donna le raccontò questa storia: “Sai, noi tutti abbiamo avuto un gran dispiacere alla morte di tuo papà, e fu una sorpresa per tutti, nessuno si aspettava una conclusione così rapida.

Lo ricordo sempre volentieri, era un uomo all’apparenza burbero, metteva soggezione, ma se ti soffermavi a parlargli traspariva tutta la sua dolcezza e l’amore provato per la moglie e le sue figlie.

L’ultima volta che è entrato qua, in negozio, è stata la vigilia della Befana, veniva sempre alla vigilia della Befana, arrivava sempre quasi all’ora di chiusura e io tacitamente lo aspettavo; voleva sempre oggetti particolari da regalare a tua mamma, ma quella volta cercava qualche cosa di più, di diverso dal solito profumino o collanina.

Gli proposi diversi articoli, sapevo che non navigavate nell’oro, ma lui non era convinto; poi, timidamente, gli feci vedere quella scarpetta, appena la vide ne rimase colpito.

Me la fece riempire di caramelle, tanto da strabordare oltre la capienza, e volle una confezione elegante.

Era proprio contento anche se, per le sue possibilità, gli costò un patrimonio.

Uscì dal negozio dicendo: “Chissà come rimarrà colpita”.

La ragazza, tornata a casa, raccontò la storia alla mamma che commossa si avvicinò alla vetrina e rimase a guardare la scarpetta per interminabili minuti, poi la prese e la mise proprio al centro della vetrina, in bella vista.

Alla morte dei suoi genitori, la vetrina della sala fine ‘800 le capitò in sorte e, quando dopo anni dovette cambiare ancora casa, nella nuova abitazione mise la vetrina antica con all’interno, al posto d’onore, la sua scarpetta che le raccontava dell’attenzione che suo marito nutriva per lei.

Ora, quella scarpetta è sempre esposta in vetrina, nella vetrina antica, al posto d’onore, ma in casa della figlia che, ogni volta che si sofferma a guardarla, pensa alla vita dei suoi genitori, li rivede in quella lontana giornata di festa allegri e abbracciati in uno slancio affettuoso.

Ripensa alle piccole, grandi cose che li rendevano felici.



Il navigatore satellitare

 

Se c’era un pregio che Andrea aveva, era quello di avere uno spiccato senso dell’orientamento e una memoria ferrea, cosa che mancava del tutto a Rosa.

Era una persona curiosa e amava leggere molto, studiare soprattutto la storia e di conseguenza i luoghi di cui trattava; per cui della geografia, che non amava in modo particolare, veniva a conoscenza per induzione.

In gioventù, Andrea, anche se con pochi mezzi economici, riuscì a girare e conoscere Genova e le Riviere liguri, in lungo e in largo.

Soprattutto in primavera quando, invece di frequentare la scuola, con alcuni amici e un cugino, preferiva iniziare la stagione balneare nelle varie zone della riviera ligure. In quegli anni si spostava con i mezzi pubblici, con i treni e a volte, percorrendo chilometri e chilometri a piedi, si recava sulle spiagge delle cittadine rivierasche; nei pomeriggi estivi, sempre in compagnia di amici scolastici prima, di lavoro poi, gironzolava per i vicoli della vecchia Genova, imparando a conoscerli come “le sue tasche”.

Lui non era nato a Genova, vi si trasferì a undici anni, dopo la morte del padre, ma conosceva la città di adozione meglio di Rosa che al contrario vi era nata, ma era rimasta confinata tra il paese in collina, dove era nata e aveva vissuto, e le zone limitrofe; si era spinta oltre solo per frequentare le scuole superiori, ma la sua conoscenza del territorio si fermava lì.

Quando si fidanzarono, e Andrea in seguito prese la patente, allora le fece conoscere la sua città e le Riviere.

Negli anni, lui perse la vista ma non il senso d’orientamento, né l’attenzione che metteva nell’ascoltare tutto ciò che Rosa gli raccontava e descriveva di quello che vedevano.

Nel 1994 fecero un miniviaggio di quattro giorni in Francia, a Euro Disneyland e Parigi, con il loro bambino e una coppia di amici.

L’amico volle fare il viaggio in treno e loro si adeguarono.

Visitato Euro Disneyland proseguirono per trascorrere gli altri due giorni a Parigi.

Una sera, decisero di andare a cenare sulla Torre Eiffel.

Dopo aver fatto un po’ di coda per salire sull’ascensore, arrivarono a destinazione.

Li accolse una vista notturna fantastica su Parigi e la Senna illuminate.

L’ambiente accogliente, i lumi sui tavoli conferivano al locale un’atmosfera sobria e romantica.

Erano felici, appagati da quella scelta.

Alla fine della cena si apprestarono ad avvicinarsi all’ascensore per la discesa; c’era una coda lunghissima ma d’altronde, per loro, non era proprio possibile scendere a piedi.

Si misero in fila e iniziarono ad aspettare l’arrivo del loro turno.

L’amico, scocciato, dopo circa dieci minuti decise di scendere a piedi, mentre gli altri attesero l’ascensore.

Finalmente, dopo una buona mezzora, riuscirono a scendere dalla Torre Eiffel.

Arrivati a terra furono accolti dalla furia dell’uomo innervosito dall’attesa, e a quel punto Rosa sbottò, lui si offese, e velocemente si allontanò.

La moglie non sapeva cosa fare e Rosa le disse: “Vai, vai con lui, non ti preoccupare”, e lei andò.

A quel punto, Andrea, Rosa e il bambino rimasero ai piedi della Torre Eiffel un po’ sconcertati e Rosa, se non proprio nel panico, senz’altro provò un’ansia indicibile; si trovava “sola” con il marito cieco e il figlio di undici anni, non ricordava più da che parte dovevano dirigersi per tornare in albergo e non conosceva una parola di francese per chiedere indicazioni.

Andrea le disse:” Calmati un attimo e dimmi da che parte della Torre siamo”.

Lei cercò di tranquillizzarsi, si guardò intorno e descrisse al marito cosa avevano intorno.

Lui disse: “Se non sbaglio, prima di salire sulla Torre abbiamo fatto un lungo attraversamento, e ne venivamo da una strada con delle pietre per selciato”, lei vide le strisce pedonali, le percorsero; sempre con le indicazioni di Andrea, percorsero un marciapiede e trovarono la strada con le pietre.

Riuscirono a tornare in albergo, dove li attendeva la moglie dell’amico in pensiero per loro.

In molte occasioni, Andrea dimostrò la sua maestria nel sapersi disimpegnare da situazioni complicate.

Quando andavano in giro per Genova o a trovare i parenti nella Bassa Parmense, Andrea sapeva perfettamente che paesi attraversare, le strade da prendere, dove girare, dove posteggiare e Rosa si affidava completamente a lui, seguendo le sue indicazioni.

In tanti anni, benché fosse lei a guidare l’auto, non è mai riuscita a memorizzare luoghi e vie, nord o sud, lui sì, ovunque si trovasse sapeva orientarsi, diceva con decisione: “Il nord è di là, quindi noi …”

Per la sua situazione di difficoltà, fu assunto in qualità di centralinista presso un Istituto Bancario.

Rimanendo al centralino tutto il giorno, accadde una volta che ricevette una telefonata non proprio di lavoro.

Era un suo cugino, abitante a Parma, che gli annunciava che per motivi di lavoro si sarebbe recato quella mattina a Genova, nella zona dove Andrea lavorava, e lo invitò a prendere un caffè.

Rimasero d’accordo che, quando fosse arrivato nei pressi della Banca, gli avrebbe ritelefonato e Andrea sarebbe sceso.

Erano circa le ore undici quando il cugino gli telefonò: sceso dalla Sopraelevata non riusciva a districarsi nel traffico cittadino e trovare la strada giusta, doveva ancora fare le consegne e girava a vuoto da un’ora!

Andrea si fece spiegare dal cugino dove era e dove doveva andare, che tipo di palazzi vedeva e con sicurezza gli disse: “Ora ti indico io, stai al telefono e ti spiego cosa devi fare, percorri tutto il viale che ti trovi davanti – il cugino perplesso seguì le indicazioni e percorse il viale – … gira a destra poi a sinistra, prendi il ponte … “ Arrivò alla meta.

Dopo quella prima volta, altre ne seguirono; oramai il cugino sapeva di avere una guida su Genova e con parenti ma soprattutto amici amava raccontare: “Ragazzi, quando vado a Genova o nella Riviera ho una guida infallibile”, ovviamente gli rispondevano: “Chi?” e lui: “Mio cugino, pensate che è cieco!”, lo stupore aleggiava e lui proseguiva: “Come dice lui – sono cieco mica scemo “.

Ogni volta, e tante ce ne sono state, che programmavano un viaggio che fosse in Italia o in Europa, lo organizzavano da soli.

Andrea gettava le basi principali del percorso, poi Rosa, seguendo le sue indicazioni, approfondiva, sviluppava con carte geografiche sotto mano e internet a disposizione; capitava che lungo il viaggio Rosa sbagliasse strada o girasse a un incrocio non dovuto, dopo un po’ di nervosismo si calmavano e lui riprendeva le fila del viaggio rimettendola sulla strada giusta.

Solo una volta, in Austria persero del tutto l’orientamento. Continuavano a girare lungo lo stesso viale, a quattro corsie lunghissimo, non riuscivano a venirne a capo, allora Andrea cosa disse?, disse: “Andiamo a una stazione dei taxi, e ci facciamo accompagnare; il taxi davanti e noi dietro”. Perplessa da quella strana idea, Rosa la seguì e arrivarono finalmente all’albergo.

Viaggi fantastici, personalizzati secondo le loro aspirazioni ed esigenze.


 

Anni ‘70

 

Una domenica mattina, tutta la famiglia si incammina per andare a pranzo da un collega amico di Luigi.

Si incammina, sì, a piedi giù per la discesa; autobus ce ne erano pochi nei giorni festivi e poi il biglietto per tutti e cinque sarebbe stato molto costoso, così i genitori pensarono di andare a piedi, sarebbe stata una mezz’oretta di strada e semmai risalire in corriera.

Appena usciti di casa e iniziato il percorso, arriva in senso contrario una cinquecento nera, a bordo Nicola.

In quel periodo, Nicola e la moglie erano i vicini di casa di Luigi.

Si ferma, saluta e la famiglia contraccambia.

L’auto riparte e dopo pochi minuti se la ritrovano dietro di loro.

Nicola accosta l’auto, la famiglia si ferma incuriosita e il ragazzo chiede: “Signor Luigi, andate lontano?”, Luigi risponde: “No, arriviamo fino alla chiesa”, Nicola continua: ”Venite, venite vi accompagno io”, Luigi ringrazia ma rifiuta l’invito.

Nicola insiste: “Ma no, venite, ci mettiamo un attimo”.

La famiglia intanto continuava la discesa e la 500 sempre dietro.

Poi li sorpassò e fermatasi davanti al gruppetto di persone, Nicola scese e disse ancora:” Forza, vi do uno strappo”.

Luigi si arrese, ma l’impresa fu ardua.

Nicola spostò i sedili anteriori il più avanti possibile per far posto alle quattro “fanciulle” che si apprestavano a sedersi nel sedile posteriore.

Iniziarono a salire, la moglie Angela prese in braccio una figlia, poi Rosa e ancora in braccio una sorella; davanti, prese posto Luigi, un uomo di grande stazza, pesava circa cento chili. Nicola a fatica chiuse la portiera, poi salì alla guida, aveva il volante quasi tra i denti.

Le ragazze dietro non la finivano di ridere.

Il tragitto fu breve, ci volle più tempo a sistemarsi in auto che ad arrivare a destinazione.

A metà tragitto, tra una risata e l’altra, Nicola constatò: ”Però, come è stabile oggi questa macchina, non lo era mai stata così”.

Risero tanto da star male.

Giunti a destinazione, posteggiò e fece scendere i passeggeri.

Scese per primo Nicola e aprì la portiera a Luigi.

Scese con fatica Luigi, aveva le gambe anchilosate, poi iniziarono a scendere prima una figlia, poi Rosa, quindi l’altra figlia e per ultima la moglie, tutto questo tra gridolini di dolore per districare le gambe e ilarità per la situazione in cui si erano trovate.

Un signore in attesa alla fermata dell’autobus si stupì: “Ma ou belin, ne sciorte ancun?”

Tutta la famiglia salutò ringraziando Nicola, e si avviarono al portone di casa dove erano attesi.

Nicola concluse: “Signor Luigi, ha visto? Abbiamo fatto in un attimo, quando ha necessità mi chiami, buona domenica a tutti”.



Alessandro, Amed e il cammello

 

Alessandro disse: “Se vengo in Marocco, voglio cavalcare un cammello”.

Gli rispose Amed: “… te lo farò montare”.

Andarono in Marocco.

Amed lo accompagnò sulla riva di un fiume dove c’erano tanti cammelli al pascolo in attesa di turisti da scorrazzare; parlò in arabo al cammelliere che ne scelse uno: aveva una sella molto grande, gli copriva fino a metà i fianchi, di color giallo oro contornata da una striscia di fiocchi e fiocchetti di tutti i colori; aveva inserita una maniglia per potersi aiutare a salire e sorreggere lungo il tragitto. Sembrava un vestito elegante, gli fece un gesto e l’animale si sedette.

Avvicinò l’amico al quadrupede, glielo fece toccare e disse: “Qua c’è il cammello, devi riuscire a salire e sederti”.

Lui lo toccò, disse: “Com’è alto … ci vuole una scaletta”, Amed rispose: “No, è già seduto, devi salire, alzi una gamba tipo spaccata, ti tieni alla maniglia e ti tiri su”.

Alessandro alzò una gamba per mettersi a cavallo, però …era girato al contrario, praticamente dalla parte della coda …

Disse: “Come sono messo, non sento la sella”.

L’amico e il ragazzo dei cammelli risero.

Intervenne la moglie: “Devi tirare giù la gamba e …”

Non la lasciò nemmeno finire di parlare e disse: “Ma se non sono ancora salito… sono in una posizione …altro che spaccata, mi sto spaccando tutto, non sono mica un ballerino”.

Lei, alzando la voce, imperiosa disse: “Tira giù la gamba e girati, sei dalla parte del sedere dell’animale.”

Con un po’ di fatica, anche perché cominciò a ridere pure lui, riuscì a tirare giù la gamba, si girò, intanto il cammello si alzò (forse stanco di stare rannicchiato in quella posizione), sembrò sgranchirsi le articolazioni.

Il ragazzo rifece un gesto al cammello, l’animale facendo un verso, una sorta di raglio (bramito), forse di sconforto, si sedette ancora; lui salì aggrappandosi alla maniglia e, aiutato dalla moglie che lo spingeva (ridendo) da sotto il sedere, finalmente riuscì a sedersi in sella.

Subito si lamentò perché la seduta era troppo dura e scomoda; il quadrupede si alzò prima alzando le zampe posteriori, Alessandro si sentì catapultato in avanti e gli sembrò di fare un volo, poi quelle anteriori e a lui sembrava di andare in gondola. Il giovane, tenendo l’animale per le redini, iniziò a fargli fare il suo giro; chi lo guardava, vedeva un omino seduto in alto dondolare a destra e sinistra.

Per scendere altro patema. Quando il cammello si abbassò piegando le zampe anteriori, Alessandro si sentì spinto un po’ da tutte le parti e gli sembrò di cadere, quindi l’animale piegò le zampe posteriori e si sedette.

Lui, con una gamba, scavalcò la sella, si fece scivolare lungo il fianco e scese. Missione compiuta.


 

Mary

magia dei mercati

 

L’Intercity 505 sarebbe partito da Genova-Brignole alle 9,00; Mary arrivò in stazione alle 7,50 carica di borse e pacchi, arrovellata e già stanca.

Una donna di mezza età, capelli corti, neri con mèches, un po’ rotondetta, non troppo curata nell’aspetto, ma sempre truccata. Non era più la ragazza allegra e spensierata di un tempo, la vita le aveva riservato un percorso accidentato, alla quale lei aveva saputo reagire assumendosi tutte le responsabilità, ma perdendo parte del suo innato buonumore.

Quel sabato di maggio il tempo non era splendido ma l’aria era tiepida.

Mary si accodò alla biglietteria ed attese il suo turno.

Come tutti i sabati doveva raggiungere Pisa, dove l’aspettava la sua amica Carla che a quell’ora stava di certo montando il banco al mercato sulla piazza principale della città; lei avrebbe aggiunto i suoi oggetti da mettere in vendita. Quella mattina portava alcune borse in pelle, oggetti di alta bigiotteria, quadri dipinti a olio su tela raffiguranti diversi soggetti, sopramobili vari e una serie di servizi di tazze da caffè e da the, oggetti regalatigli da una signora della Genova bene.

Temeva di perdere il treno, invece era in anticipo di venti minuti. Non aveva mai avuto un buon rapporto con l’orologio!

Fatto il biglietto, scese ai binari dove si sedette e aspettò l’arrivo del treno, assorta nei suoi pensieri.

Quando annunciarono l’arrivo del treno, l’intercity 505 diretto a Roma, si preparò, e quando il treno arrivò lei salì aiutata da alcuni passeggeri e cercò un posto dove potersi mettere, con tutte quelle borse.

Il treno, intanto, cominciò a muoversi, il viaggio per raggiungere Pisa era di circa due ore.

Mary non aveva voglia di parlare; a chi provava un approccio, una mezza parola, lei rispondeva a monosillabi; così, trovato un posto in un vagone di seconda classe, ringraziò chi l’aveva aiutata, si sistemò e si voltò verso il finestrino per guardare il paesaggio che scorreva veloce e potersi isolare da tutto il resto.

Le voci degli altri passeggeri e lo sferragliare del treno, facevano da sottofondo e il pensiero vagò; ritornò alla sua gioventù, al suo matrimonio ormai finito, ai figli.

Ripercorse la scia che l’aveva condotta a fare quel genere di lavoro: “i mercati”

All’epoca aveva già un lavoro, il così detto posto fisso, che certamente era una sicurezza, ma erano arrivati i problemi, causati da un figlio in particolare, e le vicissitudini della sua vita tribolata. Si era sposata giovanissima, ma la vita coniugale, invece di iniziare come una favola, fin dall’inizio si era rivelata difficile: anche se innamorati, lei e Fulvio non erano fatti l’uno per l’altra. Anche l’arrivo dei figli, che lei credeva una benedizione, fu un’ulteriore causa di litigi, così dopo anni di tribolazioni, nel periodo dell’adolescenza dei ragazzi, periodo di ribellione, il marito se ne andò lasciandola sola con i figli; lo stipendio di quel lavoro non le bastava. Per questo aveva cercato altre occupazioni, da poter svolgere dopo l’orario d’ufficio e nei fine settimana.

Colf… badante … non aveva rifiutato mai nessuna offerta e aveva conosciuto tante persone finché qualcuno l’aveva introdotta nel giro di chi vende e compra cose vecchie o semplicemente usate.

La fatica era tanta, soprattutto perché Mary non era più giovanissima, ma a lei piaceva, perché era un lavoro dinamico che la portava a contatto con la gente.

Il pensiero correva a quando, con il passaparola, qualcuno la contattava perché aveva necessità di svuotare un appartamento. Allora lei andava, osservava gli oggetti che le venivano mostrati, sceglieva quelli più adatti alla vendita.

Momenti che le facevano incrociare la vita di tante persone e storie, che davano senso e forza pure alla sua, di vita.

Intanto il treno, continuando la sua corsa, in un batter d’occhio arrivò a Rapallo dove fece una breve tappa.

Mary sussultò alla frenata del treno e si distolse dai suoi pensieri, ebbe una sorta di risveglio.

Si affacciò al finestrino: sul marciapiedi, in coda in attesa di salire sul treno, la colpì la figura snella di una giovane, alta, bionda, grandi occhiali da sole, davvero una ragazza ben curata, portava con molta eleganza un paio di jeans, un taglio molto particolare, si vedeva che era una griffe, non quei soliti jeans da mercatino che le passavano per le mani, aveva una borsa bellissima a tracolla, anche quella di marca.

Lei sapeva riconoscere le griffe dai falsi, proprio grazie al lavoro che faceva.

Mary la seguì con lo sguardo e pensò: “Guarda questa ragazza così giovane e bella, chissà che famiglia facoltosa ha alle spalle per potersi permettere un abbigliamento così costoso; io, solo con la vendita della sua borsa, potrei viverci almeno quindici o venti giorni”.

Continuò ad osservarla, finché la ragazza sparì all’interno del vagone.

Allora Mary si alzò dal suo posto e raggiunse il corridoio; voleva vedere ancora quella ragazza che aveva un certo non so che e l’aveva incuriosita.

Non riuscì a rivederla; evidentemente, salita sul treno, la giovane donna si era diretta verso un altro scompartimento.

Mary tornò al suo posto e, riprendendo quella postazione, i pensieri ripresero il loro corso.

In poco tempo, almeno così sperava, sarebbe arrivata alla stazione di Pisa e di lì avrebbe raggiunto la piazza del mercato, dove Carla la stava aspettando.

In una giornata così bella, la piazza del mercato era certo già affollata di persone e colori che avrebbero rallegrato la sua giornata.


 

Scrittura sensoriale

 

Ieri ho partecipato ad una lezione di “scrittura sensoriale”.

Pensavo si trattasse di trasformare in scrittura le sensazioni provate, in effetti poi è stato così, ma l’approccio è risultato completamente inaspettato.

Ci siamo trovate in sei persone, cinque donne e un uomo, più l’insegnante, una giovane ragazza laureata in lettere moderne e prossima a discutere una seconda tesi, in un’aula della Pro Loco.

Ci avevano detto in precedenza, all’atto dell’iscrizione al corso, di non portare nulla, né fogli né penne, e già questo pareva strano trattandosi di un corso di scrittura.

Ci siamo presentati e seduti in cerchio, e l’insegnante, Francesca, ha spiegato che cosa ci apprestavamo a fare.

La ragazza ha iniziato a leggere dapprima una poesia intitolata “Lettura”, ha proseguito spiegando la magia dell’incontro e leggendo un brano tratto da un libro di Erri De Luca.

Primo step:

con sottofondo una musica delicata abbiamo iniziato a passeggiare per la stanza e, all’incontro dell’altro, dovevamo fermarci e guardarci negli occhi.

Per me, all’inizio, è stato un po’ imbarazzante, soprattutto quando ho incontrato l’uomo, non riuscivo a sostenere il suo sguardo.

Secondo step:

sempre con sottofondo musicale, ancora passeggiata nell’aula, incrocio di sguardi, ma questa volta aggiungendo un gesto, scegliendo tra: una stretta di mano, una carezza, una leggera sberla.

Prevalsero le strette di mano.

Terzo step:

stavamo ancora passeggiando per la classe quando l’insegnante ha dato uno stop, ci siamo fermati, e da quella posizione abbiamo formato due file, di tre persone per fila, una di fronte all’altra; tra le due file uno spazio abbastanza largo.

Io era di fronte all’uomo!

La fila di fronte, a quel punto, doveva muoversi, a piccoli passi e lentamente, verso di noi che eravamo ferme, e raggiungere la distanza che desideravano, fermandosi se lo volevano o avvicinandosi alla persona di fronte, potevano abbracciarla, salutarla, guardarla; noi che eravamo ferme potevamo bloccare l’avvicinamento, alzando una mano, quando volevamo.

Iniziò questo nuovo step, sempre con sottofondo musicale.

Ci furono tre reazioni diverse: la ragazza davanti a una signora lentamente le si avvicinò e alla fine si abbracciarono e rimasero abbracciate un po’ (penso si conoscessero), le altre due donne rimasero a una distanza non troppo lontana, si diedero la mano e rimasero a fissarsi sorridendo; l’uomo, molto lentamente, si avvicinò a me ma io a un certo punto lo bloccai, alzando la mano. Lui si fermò (penso lo avrebbe fatto da solo) e restammo a guardarci anche se da parte mia non riuscii a sostenerne lo sguardo.

Finita la musica ci sedemmo ancora in cerchio, l’insegnante lesse un altro brano, poi ci distribuì tre foglietti, dovevamo scrivere una parola, una frase, quello che volevamo sull’emozione provata nell’incontro di sguardi e di contatti avuti.

Poi abbiamo piegato i foglietti e li abbiamo inseriti in un sacchetto, mescolati e quindi la professoressa ci ha invitato a pescare tre foglietti ciascuno.

Ovviamente a ognuno di noi sono capitate frasi diverse da quelle scritte.

A me sono capitate queste: Arcobaleno, Emozione, Una leggera pioggia d’estate.

A questo punto dovevamo formare un pensiero, un elaborato sull’”incontro”, un racconto che racchiudesse le frasi o le parole scritte nei foglietti. Ci fu data mezz’ora di tempo, potevamo anche uscire dall’aula.

Il mio elaborato fu questo:

Era una giornata di giugno, piovigginava una leggera pioggia d’estate che voleva rinfrescare l’aria.

Uscì per una passeggiata con il suo cagnolino coperto da una mantellina, lei con l’ombrello aperto.

Non si accorse di una signora che correva in senso opposto.

Arrivate alla stessa altezza si scontrarono, pronte a scusarsi reciprocamente, ma si resero conto di conoscersi.

Erano state amiche, nell’ ormai lontana adolescenza.

Provarono una forte emozione nel rivedersi, dopo tanti anni.

Iniziarono a chiacchierare, e i ricordi riaffioravano prepotenti, in poco tempo ritrovarono l’antica complicità.

Intanto la pioggerellina smise di cadere e all’orizzonte, nel cielo oramai rasserenato, si disegnò un arcobaleno.

Le parole che avevo scritto io sui tre foglietti erano: Soggezione, L’incontro dovrebbe regalare un’emozione, non ricordo la terza.

Ognuno di noi, poi, ha letto il proprio racconto mentre l’insegnante sembrava prendere appunti.

Al termine delle varie letture, Francesca lesse quello che aveva scritto lei, aveva da ogni racconto preso una parte e scritto un ulteriore elaborato, che, una volta letto, ha toccato le corde di tutti noi.

Il tutto è durato circa due ore.