Rosarianna Romano - Poesie e Racconti

Duplice Distanza Triplice Alleanza

 

Cresciuta tra le stoffe
le albicocche
e le posture goffe
rifiuto di elargire spiegazioni
sulla nostra segreta attesa
-magica intesa-
che esorcizza la banalità sovrana
e la uccide. 

 

Ma che ne sa
chi tutti i giorni passa il suo 

tempo con l’altra metà
cosa è la pazienza santa 

-triplice alleanza- che spinge

due anime
a decidere di danzare
a distanza?



Panagia mou                                          

 

Hai presente quella sensazione in cui
ti mordi la lingua per la meraviglia che hai visto
e pensi a quanto stupido sei stato se
ti sei innervosito
per un souvlaki mai servito?

 

E nella testa ti ronzano le parole
greche e quei colori
e quei volti e odori.
La salita verso casa,
quella aiuola colorata
e le acque con le rocce 
la fiacchezza
e le docce.

Poi realizzi: l’imperfezione dava carattere al perfetto.

C’era l’umano
nel quesito irrisolto
nella mano sfuggita, nella carezza
ricercata, subito dopo.
C’è dell’umano
nella grandezza davanti a quel mare
che è tutto fuorché
serenità.

È emozione nel silenzio di un’apatia falsa
è ricordo di anime disperse nelle gole di un fiume 
-gelido specchio incantato-.

Sono piedi che si cercano sotto i tavoli insieme ai gatti
sono lacrime che sfuggono sotto cappelli bianchi e occhiali scuri
sono risate che aleggiano in un altrove sperduto dove il tempo serve solo 
per vederlo passare.

Giorni sacrosanti che divorano
il cuore e lo sfiniscono,

del tutto.


 

Sui Treni

 

Chi li ha mai capiti i posti

accanto al finestrino
quando il crepuscolo incede.

Siedo e guardo,
fuori.


Vedo ombre 

rosa nel cielo color del 

vino come Bologna.
Penso a domani, alla terra mia
che m’aspetta.

 

Chi lo ha mai capito il sentimento
che si deve provare:
i colli 
o il mare?



Mediterraneo                                                  

 

Se mi chiedessero cosa vuoi
io risponderei che vederti
vorrei anche solo per un giorno
oppure per fare insieme un viaggio in treno.


Chiederti se posso aprire le caramelle
confidarti che è difficile essere così
pensierosi e amatori e nervosi e accaldati.

 

Se mi chiedessero cosa vuoi
io risponderei che forse un bacio
vorrei tra tanti rami inerpicati su una scogliera 
da dove il mare si vede! E dei corpi
appiccicosi di sudore e elettrizzati.

 

Scritte in greco e in armeno
vorrei sui muri
lettere in persiano e in aramaico e in latino 
vorrei e non in inglese.

 

Vivere quei popoli antichi 
vorrei anche solo per un giorno 
e a noi moderni fare una flebo
di acqua del Mediterraneo.



A mia madre

 

E anelare sempre 

al rispetto della scadenza.

Alla profezia dell’avvenire,

non data.

 

Chiedo all’oracolo la conoscenza del poi

e perdo l’adesso,

per un dopo

tolto a te quell’anno.

 

E la testa perde tempo

a preannunciare il domani 

tolto a te quel giorno.

Gioco triste della mente:

l’organizzazione del tempo in quell’aprile che ti tolse

a me.

 

E dormirci su! Ma 

male fa il mese.

E ti sento, 

da quaggiù. Straziata 

più dal domani che dal dolore 

che è stato. Impossibile!

 

È il tempo di ricordare

della necessità di agire.

Del suono della voce.

Delle vene sulle mani.

Del profumo della gonna.

Della Grecia e il temporale.

Della necessità di agire. 

Ricordare, non rimembrare.

Accordare il cuore,

non sforzar la mente.



Disillusione

 

Confusione sullo schizzo frenetico

di una passione bruciata;

folgori inceneriti dal solletico

di una notte annullata.

 

Fede sull’anulare posata

discinta sul sudicio dito,

ricordo di una madre anelata

scambiato per connubio sbiadito.

(Ma è sulla destra! «Dico»).

 

È corda attaccata 

al rimorchio di un carro 

(sulle corde, dell’illusione)

è carrozza collegata alla morte?

(alla corte dell’invenzione).

 

Invece lega la pelle all’asfalto bagnato.

Mai desta e fredda

nonostante il vomito di aliti ansimanti 

sull’anulare spezzato.

 

Posso solo anelare

la madre e il suo 

di anulare che era legato

al padre:

nel vero connubio spezzato,

irritualmente.

 

Vedi una madre lontana,

e una donna sola.



Il Laureato

 

Gocce di alloro per capelli,

musica per la stanza:

rosa verde 

nera gialla 

cruda nuda.

 

Fiocco d’alloro nel collo,

la carnagione del miele.

La corona sulle vele

d’una nave spiegata;

la corona sulle corde

d’una chitarra mai suonata,

voce mia contro la pelle;

la corona sul calice della 

giornata della vita tua.

 

Come la droga come la bellezza

come le canzoni come l’amore

come le stagioni come i concerti.

Meglio della droga meglio della bellezza

meglio delle canzoni meglio dell’amore

meglio dei concerti.


 

Triviality Fair

 

La diversità, le vaghe certezze, i distruttivi fulgenti tempi.
Spazi, mancanze, consigli nel turbinio di un involucro di corpo, oppresso dalla psiche infagottata dal pensiero sovraccarico.
Amici, non so se questo potrà dirsi un sito; ma se la storia la scrive l’anima, è come se a dettare i caratteri sia la naturalezza.
Ascoltavo consigli, che davvero avvertivo banali. Sentivo l’incomunicabile esigenza di un corpo palpitante, curiosamente avvolto nella curvatura perturbante di un immenso punto di domanda.
Mi sembrava scontato l’enfatizzare il discrimine tra il dolore funerario e l’effimero quotidiano.
Compatiamo solo il nostro dolore come tale, totalizzante, centripeto; quello altrui è opposto, centrifugo, relativo.
Non capivo se l’indole dettava l’atto o questo derivava dal consiglio; siamo animali dotati di pensiero che va educato, certo: questo va detto.
Mi chiedevo: la mancata indignazione è dettato dal livello superiore di maturità raggiunta oppure dall’assuefazione o, addirittura, dal cinismo?
Questi erano i miei pensieri in una serata come tante, -forse- di una vita come tutte. Eppure, proprio per questo, magnifica. Quante esperienze, potenzialmente, potrei raccontare. Potenzialmente.
Mi limiterò a tentare di far percepire l’esperienza dal punto di vista di chi –forse sopravvalutandosi con mera tracotanza- sente di aver provato un dolore tale da poter guardare da uno spazio diverso. E non per questo sempre giusto. Una sofferenza esemplare, nella quale ognuno potrà rivedere la propria, grande, distruggente, privazione.
Ma un dolore ricco, sorgente generativa del carattere. Non oppressivo e stagnante, ma funzionale al futuro essere. Mancanza che fa sviluppare, elevare, arricchire. E tuttavia resta inserita in un corpo umano e vizioso.
Quindi, non esiste sofferenza che annulli la quotidianità, perché essa è succo innato dell’uomo, della donna, del bambino, dell’anziano, del greco, del persiano, del marocchino, del musicista, dell’operaio, del comunista, del liberale.
L’uomo, la donna, il bambino, il greco, il persiano, il marocchino, il musicista, l’operaio, il comunista, il liberale si alimentano del piccolo giorno illudendosi di un futuro che non sarà altro che il passato di un altro giorno banale.
Ma la ormai remota sofferenza (la più grande, dico) resta immobile. Ed è Lei che prova a ricordarci la nostra capacità di reazione: questo va capito.
E noi, tragicamente, sempre inglobati nel quotidiano.



Come iniziare

 

Ma voi, non avete paura di impazzire? Prendo tempo per riflettere. Perché esiste un grossa dicotomia biologica nell’essere umano: lottare per vivere o essere gli artefici di una battaglia contro se stessi.
Mi fa paura anche chiamare per nome la Morte e la Malattia. Non riesco a elaborare queste parole senza sobbalzare. Eppure. Eppure, l’ho vista. Diciamo che me l’hanno aggirata e raggirata facendomela vedere di lontano, strappandomi mia madre poco a poco, fino a non farmela vedere mai più. Chissà se fecero bene. Chissà se fu la scelta giusta quella del cunctator che aspetta il -come chiamarlo- kairòs, il momento opportuno? E per dire:
«La mamma è andata via. »
Questa frase la ricordo bene: Bari, pane e pomodoro, qualche giorno dopo il 20 aprile 2006. Età: 8 anni. Tutto questo mi rende me.
Eppure, mi fa male vedere i bambini senza una madre. Mi chiedo: ma come faranno? Mi viene da piangere, forse. Senza pensarci che anche io ho trascorso 13 anni su 21 senza una mamma. E come ho fatto? Inerzia a vivere; amore paterno; forza interiore che non sai nemmeno tu dove l’hai presa.
Mia madre se n’è andata per una malattia chiamiamola pure incurabile. Non voleva, lei. Non voleva morire.
E poi, mi sono anche laureata. Pochi, in verità, hanno speso una parola per Lei, la grande e la vera madre, la sineddoche dell’abbraccio primordiale dell’amore.
Molti, hanno ricordato chi per mano mi ha preso. Ma io ho preso la mano di mio padre e le mie manine le ho strette in un pugno. Ero proprio una surfista che scavalcava un’onda troppo grossa. Ma il paragone mi viene meglio pensando alla Grecia e mi sentivo probabilmente come una bambina -ciò che ero, pur non sapendolo (perché nessuno me lo ricordava)-  scaraventata dal Meltemi su un letto di sabbia, in riva al mare. Dovevo sostenere l’onda d’urto della perdita e pretendevano -anche- che io avessi la nobiltà d’animo e la maturità di comprendere (ma come dovevo fare? Avevo o non avevo 8 anni?) che mio padre avesse bisogno di ricostruire il suo cuore facendosi prendere per mano -lui, non io- da una donna.
A me, per mano -anzi sulle spalle- quel giorno, ha preso mio padre e nessun altro. E mia nonna -la mamma di mamma- è stata mia madre.
Ma tutti pretendevano che io capissi senza spiegarmi niente.
E adesso vedo le bambine di otto anni e mi sembrano così piccole. E così viziate bonariamente dalle loro mamme, così coccolate, così amate.
Io vivo ancora un platonico amore a distanza -storia della mia vita- con Lei che non smette di amarmi, con Lei alla quale devo ogni mia molecola del corpo, ogni briciola del mio carattere singolare, ogni mia ansia e ogni mia fretta.

Perché chi ce lo dice che abbiamo la vita davanti?
Per chi mi chiede chi mi dia tutta questa fretta. Per chi mi dice che mio padre metterà la buona parola di turno per il mio futuro. Per chi dice che la strada che intraprenderò sarà difficile.
Per chiunque mettesse muso e becco: io, quello che sono, lo devo a questo.
Perché nessuno mi ha mai insegnato come si fa -a (sopra)vivere- e da quando Lei non è vicino, da quando Lei non è in questa casa, ho capito che si deve sudare, sudare e ancora sudare.
Ottenere con il succo delle tue cazzo di goccioline. Ecco tutto.



Cristo si è fermato a Metaponto

 

Un sud arso e riarso da un sole cocente che anima i corpi e fa vibrare la mente di corde diverse dal centro del mondo, da una Milano ordinata e da una Bologna fricchettona.
Un sud che ha colori solo suoi mi porta costantemente per le strade della mia natia Gioia, di Bari -vecchia- e della Lucania tra Policoro e Metaponto, Metaponto e Policoro. 
A Metaponto ho visto una casa in campagna isolata dal mondo comune e un centro di accoglienza di neri-immigrati-extracomunitari-richiedenti asilo echipiùnehapiùnemetta.
A Metaponto ho visto un campeggio e dei ragazzi divertirsi e a qualche kilometro terre e terre arse dal sole e immigrati riarsi dal calore che stendevano panni, accendevano fuochi, ci finivano dentro.
Mia zia mi fece guidare la sua macchina barcollante e vidi i neri, neri come quei piccoli cocomeri neri, che forse a vederli sembrano strani, ma nascondono un ancora più dubbioso segreto: non avere fastidiosi semi. Ed essere dolci ed ancora più rossi, forse come i cuori di quei neri, lontani dalle terre loro e esuli in un mondo intero. 
In un mondo che è stato sempre pronto all’imperialismo, al colonialismo, al ku klux klan. In un mondo che sembrava cambiato dopo la Seconda Guerra Mondiale e dopo la Guerra Fredda. E dopo la stretta di mano tra Reagan e Gorbačëv sembrava cambiato, davvero. In un mondo che fondò l’Unione Europea e che era pronto alla Pace. E che la pace la rincorse e la possedette, davvero (fatto salvo tra Kosovo e Serbia, ahimè). 
Che incredibile desiderio di conoscere la loro vita -dei neri-, di fare loro anche solo qualche domanda:
«Ehy ragazzi, guys, extracomunitari, negri -chiamiamoli come vi pare- da dove venite? Da quale male scappate? Da quale vigliacca guerra cercate un rifugio?»
Vi hanno sbarcati a Metaponto accanto ai miei zii soli e spaventati ed ai loro cugini leghisti e accaniti sostenitori del Capitano: perché hanno sistemato accanto al loro idilliaco -e fuori dal mondo- rifugio campagnolo/marittimo un gruppo di ragazzi di colore che rubano-trenta-euro-al-giorno-allo-stato! (e chiacchiere simili).
Mia zia -del Partito Democratico- mi ha detto che quelli che lavorano nei campi vanno bene. Quelli che non fanno niente dalla mattina alla sera no, perdio! 
Mi ha detto che li capisce, i suoi cugini che votano la lega, loro sì, perché da quattro anni vivono affianco ai negri a e hanno paura.
Ma fino a prova contraria Loro non hanno mai fatto niente ai cugini.
Mia zia mi ha detto che in palestra incontra donne (di lei più vecchie) che dicono che Salvini-è-un-bell’uomo, dicono.
Contente, loro.
E noi guardiamo allo schermo un Paese che brancola nel buio di una stagione riarsa dal sole e di ventenni scontenti o indifferenti o credenti in un’utopica generalizzazione di un antifascismo che porta solo slogan e falsi miti che sfociano in estremismi comunque cattivi, di qualsiasi colore essi si tingano.
In un Paese bianco anche nel sud più abbronzato, sud che si Lega, sud che schiatta. 
In un Paese che vuole tingere di candeggina l’animata patina nera che resiste. E si sa, la candeggina fa schifo a tutti, perché macchia, perché sporca e il più delle volte rovina, non pulisce.
Ed è vero che gli eroi sono altri e sono quelli che salvano le anime che poi vengono portate a Metaponto ad ardere al sole. 
Ed è vero che un giorno di due anni fa io camminavo lungo quella via sterrata di Metaponto e mi trovai faccia a faccia con un brutto uomo nero che giocava a pallone, sudato e malconcio che mi guardava e io avevo paura.
Ed è vero che ho avuto paura e ho cominciato a correre verso la campagna e la zia. 
Avrei comunque corso anche se fosse stato biondo, bianco e con il costume di Roy Roger’s e le Havaianas?
Forse sarebbe sembrato ancora più losco un soggetto del genere -bianco, con il costume Roy Roger’s e con le Havaianas, s’intende- in una strada sterrata a Metaponto dove quello che vedi è solo sole e pietre ed un fiume coperto da piante che nascondono il pericolo di cascarci dentro.