Rossella Macchiarola - Poesie

Pane e amore

Fermenta il lievito
come il seno gonfio di latte
del suo morbido candore.
Mani calde e laboriose
avvolgono, battono
e modellano l’impasto
delizia dell’anima
caldo benessere della materia,
il tempo è l’essenza
che matura e dà vita
al suo miracolo.
è il racconto di una storia
che nasce tra l’uomo e la terra
dei semi che spande
col sudore della fatica
nel tiepido ventre accogliente.
Giorni di gelo e vento
si alternano al sereno
protetti al caldo, i semi
si sveglieranno in primavera
e tutto sarà verde
infuocato dal rosso papavero.
Dorate saranno le spighe
benedette dall’acqua e dal sole
mistero della vita che si ripete
Miscela di elementi unici,
abbracciati tra loro
che al fuoco scoppiettante
incrosterà, sarà il pane
col suo profumo fragrante
cibo dei popoli, saggezza dell’anima
tramandato nei secoli, tra le nazioni
legame di fratellanza, compagno di vita
un viaggio di gusto e d’amore infinito.

 

 

 

Stelle cadenti

Si parla tanto di immigrazione, soprattutto in modo sprezzante, irrispettoso verso alcune popolazioni, così dette da terzo mondo, di intere famiglie che, con gran dolore, sradicano loro stesse da territori d’origine, di ogni appartenenza senza alcuna prospettiva, né certezze, solo tanta forza di volontà, cosi inizia il viaggio.
Desiderio di vivere, di ricominciare, questo è ciò che spinge il carico di vite umane tra la furia delle acque che separa un lembo di terra all’altro. Dalla sofferenza all’illusione, il sogno si trasforma in incubo, uomini e donne di ogni età cadono prede di mercenari ignoti ed è così che inizia la loro odissea. Quel mare, meta di viaggi e di avventure, spesso si dichiara nemico, gonfia la sua pancia, mostra tutta la sua forza in un presagio funesto, sotto un cielo tetro squarciato da lampi. Nulla può fermarlo.
Gli sventurati che decidono di tentare la sorte per approdare sulla nuova terra nella speranza di essere accolti, si ritrovano aggrappati ai gommoni fatiscenti, sbattuti dalle onde, urlando il proprio dolore per i figli strappati alle loro braccia dalla furia che si è scatenata. Nessun Dio s’appresta in soccorso. Nello strazio si consuma il dramma. Corpicini freddi giacciono inermi a pelo d’acqua, ignari del mostro che li ha rapiti, occhi chiusi e labbra serrate, senza più la leggerezza di un sorriso. Il tempo si ferma per loro, in tenera età, nessun futuro è oltre l’orizzonte, giace lì, poi tutto si placa. Altre mani, spuntano tra la schiuma dell’acqua, unico atto di presenza che invoca la vita, desiderio d’aria, di respiro, di calore umano … si odono sirene in lontananza, qualcuno si avvicina, tra il gorgoglio delle acque e i lamenti disumani, si soccorre il salvabile e ad un tratto, cala il pesante silenzio che come un macigno opprime.
Sono sogni infranti, volati in cielo tra le stelle lucenti di lacrime, vite spezzate di cui non sapremo più nulla, quali poesie avrebbero scritto dei loro amori? Chi di loro avrebbe potuto essere un medico, un architetto, un operaio instancabile, una persona speciale, pronta a donare il suo cuore per il bene dell’umanità o semplicemente un sorriso da cogliere e condividere? Nessuno mai lo saprà. Si consuma la tragedia senza un senso, si sceglie la vita, ma si trova la morte, resta la malvagità che infierisce sui deboli e gli innocenti e questi a loro volta chiederanno conto alla nostra coscienza che giace assopita in effimere sicurezze. Ci sarà sempre chi si chiederà del perché sia toccato a loro, quest’inutile sacrificio, l’inganno dell’uomo contro l’uomo, il biblico tradimento di scambio della vita per denaro.
Nessuno si salva da solo, nessuno ha pace se non dona misericordia. Come nel cielo cadono meteore di stelle, fasci di luce che attraversano per attimi di secondo il firmamento, così si spezza un sorriso sulla terra, triste epilogo della follia e dell’indifferenza.

 

 

 

Viaggio nei ricordi di una bambina

A volte, affiorano lontani ricordi che mi riconducono alla fanciullezza, gelosamente custodita in me. Prima nipotina di una figlia primogenita, accolta con molte attenzioni, erano gli anni ’60, ancora tanto difficili in cui la povertà dilagava nella maggioranza delle famiglie, un inizio di crescita economica non tangibile, ma l’amore, i giochi e alcune presenze costanti, a me molto care, non mi sono mancate e quella a cui mi affezionai di più, fu il mio caro nonno materno, Luigi. Tutto torna alla mente, come quando si rivede un vecchio film, le scene si susseguono nella loro varietà e vastità. Nonno aveva l’abitudine di condurmi alla scoperta del piccolo mondo in cui ero nata, mi prendeva per mano e passo dopo passo mi conduceva attraverso le strade poco agibili del mio paesello, non esisteva l’asfaltato, mancava quel nastro grigio scuro, liscio che oggi ha ricoperto la maggioranza della viabilità, in quegli anni c’erano invece sassi misti a terra e quando appoggiavi i piedi per camminare, tutto era mobile, serviva fare attenzione per non cadere. Le vie separavano la lunga fila di case a piano terra con tetti spioventi di tegole rosse da cui spuntavano cespugli di fiori selvatici, bocche di lupo, come ciocche di capelli sui canali tra i quali si nascondevano le lucertole dopo la loro esposizione al caldo sole. Ogni casa aveva un comignolo come sentinella e nei giorni freddi, sbuffavano fumo grigio misto al profumo di minestra che si preparava. Mio nonno era una presenza costante, un legame speciale che spesso ha sostituito quella di mio padre, troppo indaffarato nella sua occupazione di bracciante agricolo, andava via la mattina molto presto per il lavoro nei campi, per tornare al calar del sole, non aveva molto tempo per me, ricordo però che era geloso dei miei capelli riccioluti e biondi, tanto da provare una grande amarezza quando mia madre e mia zia mi portarono dal parrucchiere per il primo taglio. Nel vedermi tutta ripulita col taglio corto, ebbe un colpo al cuore, si arrabbiò molto, tanto da ammutolirsi per molto tempo con la speranza che mi sarebbero ricresciuti uguali. Tempi duri per una bimba degli anni ’60, per giunta nata al sud, questo meraviglioso e maledetto Sud, tanto distante dal progresso che avveniva in altre parti d’Italia, soprattutto al nord, un’altra tabella di marcia, più leggerezza, mentre qui vi era una continua ricerca di lavoro e si soffriva la piaga dell’emigrazione, giovani figli lasciavano le famiglie in cerca di fortuna oppure interi nuclei familiari scappavano con poche vettovaglie per destinazioni a loro sconosciute, portando con sé la speranza del cambiamento, la voglia di fortuna, immagini di santi a loro molto cari, simboli di devozione e protezione, legame molto stretto al territorio d’origine in cui erano venerati.
Nonno e la sua famiglia si erano salvati da tutto questo, in un primo momento, poi toccò alle due di tre figlie il destino di emigrare in Piemonte quando misero su famiglia, perché lì vi era una richiesta di operai nelle molteplici fabbriche metallurgiche, cosi cambiarono il loro destino, spezzando per sempre il legame con la loro terra. Egli amava i film western che spesso, proiettavano al cinema oltre a quelli del neorealismo o a quelli che raccontavano la storia dell’antico impero romano. C’erano due sale cinematografiche, oggi nessuna, ed era un vero privilegio che ci fossero, era lo svago che ci si poteva permettere, un vero piacere, l’appuntamento domenicale pomeridiano fisso ed io c’ero sempre. Le storie si somigliavano tutte, era rappresentato il buono, il cattivo, duelli e sparatorie varie in luoghi aspri, deserti con un sole cocente che asciugava la pelle già rugosa, erbacce arrotolate volavano, spinte dal forte vento, proprio uguale al nostro “favogno” (scirocco) vento caldo che spira dall’Africa, attraversa il Mediterraneo fino ad arrivare sull’Adriatico e toglie il respiro nelle ore più centrali del giorno. Il finale del film era sempre lieto, c’era una dama da salvare, da cercare, da amare e si riusciva sempre nell’intento, si uccideva il cattivo e il buono, dopo tanta sofferenza, vestiva i panni dell’eroe, cosi si usciva soddisfatti e vincenti, come se la vittoria sulla scena fosse personale.
Mio nonno, questo signore d’altri tempi, conobbe anche la guerra con i suoi orrori, quella del ‘40/’45, fu un soldato e stette diversi anni lontano da casa, lasciò la moglie con una figlia, mia madre, per servire il Paese. Quando essa finì, i soldati abbandonati a loro stessi, rimasero senza direttive, così senza aspettare ordini, fecero ritorno alle loro case e al danno si unì la beffa. Dichiarati disertori, dovettero di nuovo lasciare i cari e, prigionieri dello Stato che avevano difeso, furono inviati in diverse regioni per sminare il territorio, a nonno Luigi gli toccò la Sardegna. Per un anno intero camminò fianco a fianco, con la morte, metro dopo metro, giorno dopo giorno. A volte ci raccontava qualche accaduto, ma tante altre atrocità, credo le tenne dentro di sé anche per allontanare le amarezze subite. Così, in tempo di pace ha continuato a lavorare duro le sue terre, un vigneto e un uliveto di sua proprietà. Amava ritagliare nel campo un pezzo di terra dove piantava fiori che portava con orgoglio a mia nonna, una volta sbocciati e alberi da frutta, pesche, ciliegie, albicocche, fichi, pere, ogni ben di dio che arricchiva la tavola e il gusto, tutto aggiustata nel paniere con il massimo ordine, separata e coperta da grandi foglie di fico. Nei giorni di festa si trasformava, tutto acchittato, nel suo abito elegante, blu scuro, camicia bianca e panciotto, era un tipo esile, occhi azzurri, incarnato bruno, indossava la sua coppola nuova che lo distingueva, così raggiungeva i suoi compagni alla “casina” (dei comunisti, partigiani) oppure passeggiava lungo il corso del paese denominato “rettifilo” affollato di uomini, donne, bambini e ragazzi che si riversavano lì per lo struscio. La passeggiata non serviva solo al piacere, questa era occasione di incontri e di contatto per ricercare nuovi lavori, l’Agorà paesana, intreccio di energie e di amori annunciati. Ero molto affascinata dalla sua presenza, non mi staccavo mai da lui, mi allietava con giochi semplici, racconti fantasiosi, nelle sere d’inverno, attorno al braciere o vicino al camino, quando era acceso, felice di abbrustolire le fette di pane che poi condiva con il suo sacro olio d’oliva del nuovo raccolto. Caldo e croccante la fetta di bruschetta sprigionava un intenso profumo di olio che saliva fino alle narici e quando lo masticavi, pizzicava in gola, una goduria per il palato.
Era uno spasso, si divertiva come un ragazzo, dimenticando ogni fatica giornaliera, così noi riuscivamo a stare buoni e controllati senza aspirare ad alcun capriccio.
Il calore della famiglia, di avere una casa, l’ho appreso dai nonni materni, di quelli paterni ne era sopravvissuto uno, ma viveva a Milano con uno zio, fratello maggiore di mio padre.
Nonna impastava il pane in casa due volte la settimana, si alzava alle 3,00 di notte per preparare tutto e permettere la lievitazione all’impasto e quando arrivava il venerdì, si aggiungeva anche la preparazione della pizza al pomodoro e con la cipolla, il tutto poi si portava al forno di quartiere che bruciava fasci di ceppi per preparare la brace di cottura. Un lavoro faticoso, di molte ore, si vedevano le fiamme alte uscire dalla bocca del forno con lo scoppiettio di scintille che volavano in tutte le direzioni e la gente in coda per depositare le ceste di pasta morbida, gonfia con un segno distintivo di appartenenza, coperta da teli bianchi o quadrettati, non dimenticherò mai l’odore intenso e appetitoso del pane appena sfornato, una fragranza sacra e familiare che ci univa tutti.
In inverno, dopo le feste natalizie, arrivava il momento di uccidere il maiale, proprio nelle giornate più fredde e con i suoi tagli, si faceva ogni scorta di carne per i mesi a venire, soprattutto per il periodo pasquale. Salsicce, soppressate, capocollo ed ogni altro tipo di insaccato arricchivano le tavole a festa di ogni famiglia insieme ad altre golosità pasquali, i pranzi includevano altri commensali e la famiglia si allargava e gioiva.
Era una festa, non avevamo bisogno di nulla di costoso o sofisticato, io avevo loro, i miei nonni, la mia famiglia, un amore profuso in ogni loro gesto di sacrificio e duro lavoro senza elargizioni di moine o coccole, eravamo abituati all’essenziale.
Guardavo ed ammiravo ogni piccolo gesto con gli occhi pieni di stupore e curiosità, si tratta di una vita fa, realmente finita con la loro scomparsa e con le nuove tecnologie e abitudini del tutto fatto ed incartato, nessun profumo del preparato in casa che si spande lungo le strade, né il vocio che usciva dalle porte aperte, sembrava si abitasse in un’unica casa, l’amicizia del vicinato e la reciproca collaborazione era rituale, oggi siamo presi dalla fretta, dalla velocità del tempo che fugge, da un senso di egoismo, viviamo a volte senza conoscere il nostro vicino, chiusi nelle nostre faccende, abitudini e tristezze. Non riusciamo a fermarci, a riflettere, a capire chi siamo, cosa facciamo e perché lo facciamo, dimenticando le nostre radici.
Il passato è il nostro bagaglio personale, ci ha formati, resta tutto nella memoria, nei nostri pensieri, nei gesti che ripetiamo inconsapevolmente, le persone che ci hanno preceduto, ci hanno forgiato, hanno lasciato parte del loro patrimonio genetico e culturale, noi siamo il loro prodotto e faremo lo stesso, quindi essere migliori è nostro compito.
I ricordi sono un diario fantastico che ogni tanto riapro, sfoglio, rileggo, attraverso il tempo e lo spazio per tornare bambina, con la mente si può fare, chiudo gli occhi e sento la mia mano stretta a quella di nonno Luigi che ebbe una vita longeva, ci abbandonò che aveva 97 anni, come pure penso all’amore di nonna Rosa, dal carattere forte e determinata, mi riempì di regali utili che ancora oggi uso quotidianamente e ai suoi giusti consigli. Lei morì poco più che settantenne.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

I fiori come la bellezza
inondano di profumo
nel loro effimero tempo
il miracolo è alla radice.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il vento spinge le vele
le acque dondolano
la vita scorre

 

 

 

 

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Sofferenza, fame, guerra
schiavitù, indifferenza, morte
U M A N I T A'
Libertà, Rispetto,
Fratellanza, Amore
P A C E