Sandra Vezzani - Poesie e Racconti

Diversi

Vento giallo di roccia
arrivi profondo
irriti l’onda
sbatti furioso
nel grembo
di sabbia
calda di luna

Là dove il sole
sbiadisce
dietro la montagna

Odori di finocchio selvatico
di carne
di colori diversi
trascini brandelli
di vita

Conosci la morte
infrangi la riva
dipinta è la notte
respiri l’arrivo
di un alba risorta
in un letto di pace

 


 

 

Il viaggio

Arriva tiepido sulle spalle
le riscalda
si siede
mi conforta
cammino adagio
per non cadere
mi guardo intorno
senza sentiero
trovo la strada
di un altro
vero
scoperchio vasi di terracotta
annuso fiori di marmellata
dipingo carte da regalare
ogni mio viaggio
mi porta in cielo
salgo per vivere
ogni mio viaggio è un grattacelo
finestre piene
di voci e grida
maggio di lucciole
non più vedute
dov’è l’estate che tutto brucia
dov’è la stanza
che porto in grembo
passano gli anni dal mio cervello
stanche le membra
ma dritto il petto

 


 

 

Infanzia

Certo
giocavo
con nient’altro che
pezzi di stoffa

Solitaria
nell’umidità
delle grigie pareti

la lingua
era quella
luminescente
dei bambini
già lacerata

dalla stoffa
cadeva
una trama di rose

luce di festa

e sulla brocca della sera
in frantumi
ancora splendeva
l’umidità
come ripiena di luna

 


 

 

La libertà

Campagna
meraviglioso silenzio
trafitto di sole
sfreccia
un
nero uccello
di ritrovata libertà
tra i passi
di un giorno qualunque

 


 

 

Morte

Amore che torna
a dorare la terra
giovane e stanco
ultima scia di luce che
pari
alla colomba lamentosa
sulla strada
beve
Amore, salute dell’anima
di te non vedo traccia ora
mi pesano gli anni che verranno
scivolerò nell’acqua buia,
senza rimpianto
annegherò
l’aridità sarà compagna
camminerò coi tuoi passi
andrò
mi darai un cuore
immobile
sarò innocente
non avrò più nulla
da mostrare

 


 

 

L’alba

Ho abbracciato l’alba
non si muoveva ancora
nulla
nel giardino

Ho alzato il velo
ho agitato le braccia nel vento
ho respirato forte

ho visto la strada della città
deserta

ho corso come un mendicante
e mi sono seduta
sulla panchina
visitata dal clochard
con una birra in mano

mi sono avvolta in un cumulo di veli
ho sentito il mio corpo

l’alba, il cane, gli uccelli
hanno cambiato il loro canto

al risveglio era mezzogiorno

 


 

 

Portami con te

Portami con te
in una nuvola di fumo di sigaretta
sorridimi fatti leggera
convincimi
che non esistono certezze
tu testarda e sorda al cuore
tu per me madre e sorella
cullami
nell’odore dell’erba di campagna
a tarda sera fatti cuscino
su una coperta
in una notte di stelle
il vento muoverà
i colori delle foglie tremule
sulla grande betulla
di te
ricorderò ogni cosa
le mani
I sorrisi,
le gonne
I cappotti
e
tutto quello che
insieme
abbiamo toccato
portami con te
per sempre

 


 

Questo volevo dirti

Ti guardo
mi guardi
abbassi il giallo becco
che spunta tra nere piume
nel primo mattino
questo ti voglio dire
dovevamo fermarci
dovevo fermarmi
per vederti
per sentire il tuo canto
per stare dentro le cose
mentre il tutto
era fuori di noi
Ho aperto la finestra
vorrei che entrassi
adesso siamo qui
io e te tutte le mattine
e tu mi regali il tuo canto
io, il mio sguardo pieno di doni
pieno del senso della terra viva per davvero
siamo ora, tutti, parte di un universo intero
sento una voce sola di potenza
senza parole
non ci sono baci, carezze
ognuno è dentro la frenata
che ci riporta indietro
alle antiche e primitive madri
odo campane di Pasqua

 


 

 

Una donna

Il mio corpo
è diventato un’altro
L’ultimo ricordo è la tua voce
prima che tutto si confonda

E poi sbiadisco
in controluce
mentre ogni cosa rimbomba

Nel silenzio e nell’assenza
slacciata di ogni appartenenza

Altro il corpo
semplicemente sono

ramo allungato
contro un crepuscolo
spoglio

sul punto di svanire
chiusa nel silenzio
e nell’assenza

ormai slacciata
da ogni appartenenza

Tutta strappi e buchi
unici sentieri i rami caduti
perduti all’abbraccio col cielo

 


 

 

Vita

É accaduto d’improvviso
e per ciò
degno del ricordo

C’era l’inferno e
trovai l’ingresso

una dimora
che devastò
ridusse I giorni

In mezzo al petto
un campo di battaglia

là stavo distesa

Quali sconfitte

Udivo parole di scherno
da quella perdita

mi sollevai
rinata

 


 

 

Sera

Fiori bianchi…pedalo…
Ci sei tu…anima
mia…odo un pallone
in un cortile dove un
bambino ha ricominciato
a giocare…lontano..
vicino…attraverso…dentro
In lontananza l’odore
dell’aria, sobbalza
e si muove la tenda della finestra
ed è subito sera.

 


 

Nostalgia

Tra le foglie…nascosta
nel vento
mi accogli
plagi il mio tramonto
tormenti la mia anima
carezza
cercherò quel bacio
mi avvicinerò
ne sentirò il sapore
mi nutrirò del suo stupore
per custodirne l’amore

 


 

Movimenti

Gratterò ricordi, di musiche mai sentite
li accoglierò tra le dita
ne tesserò la trama
scompiglierò gli spartiti
forse vivrò
la bramosia di averti mi strapperà il cervello
non verserò una lacrima,
se non dentro al mio cuore
il tempo suonerà la tua notte
ti siederai
volteggeranno gli orologi e tu sarai
trasformerò il tuo corpo
in un ricordo…

 


 

Gente

Corpi di carta
distratti dal vento

camminano in fretta
lenti a pensare

A capire
che i tempi sono dentro

anime nascoste
sconosciute tra loro

che imbrattano le strade
parole di pezza

che non si cuciono
e restano frammenti

paura
di odorare il nuovo
quello che di ognuno resta

 


FRAMMENTI

Stanze di carta,
pezzi di ricordi,
frammenti di luce,
neve che scende..
pioggia nella mente,
sole sulla pelle,
vivrò
e la mia prigione
ti apparterrà..
volerò..
come una farfalla,
nel vento


A mio padre

Di te odo i passi, lenti,
prossimi alla fine, scalini vuoti
che riempiono la mente
e si accartocciano…
sei sempre lì a quella porta,
fragilmente sospinto dalla
voglia di vivere…entri finalmente e
ti rivedo, ti stringo forte le mani e tu…
scompari….


FOGLIE

Guarderò le strade
Porterò i ricordi
Illuminerò pozzanghere
Di acqua,
farò risplendere
ilvento freddo
del cuore
vorrò
piangere e ridere
e annegare
per risalire e comprendere
e ricominciare


Scalini

Scalini
Li salirò ad ad uno
Con la calma della mente
Saranno di pietra
Macchiati di muschio
Arriverò sulla cima
Abbraccerò l’orizzonte
I tetti rossi
Il verde delle foglie mi porterà ricordi
Vorrò immaginare
Di esistere
Tra quei gialli sbiaditi di polvere
Lì mi fermerò
Per imparare
A scegliere


TRANSITO

Le ore, gli amori, le strade,
le vesti, tutto accoglierai di me,
girerò le spalle e non mi volterò
mi coprirò di ricordi
ti difenderò ma non vorrò mai più
possederti….


Le stesse zebre, gli stessi elefanti

 

Era Aprile, nel mio abitino a fiori, un po’ rigida, me ne stavo seduta, con allacciate le cinture di sicurezza.

Quando un aereo decolla provo sempre la stessa sensazione, un misto di eccitazione, di abbandono, perdo la percezione del corpo, la mente si rilassa, godo lo stacco da terra e salgo al cielo.

Era il mio primo viaggio , quel volo mi regalava la consapevolezza leggera di avere il mondo “ ai miei piedi”.

Col tempo mi sono accorta, che quella sensazione  un po’ vuota, di ritrovata libertà, mi avrebbe accompagnata tutte le volte che, per qualche ragione, nella mia vita ho dovuto prendere una decisione importante.

Dodici ore, ricordo ancora con lucidità quella notte, sola, tra le stelle, con le luci gialle abbassate  all’interno; fuori, i vuoti d’aria dovuti alla turbolenza atmosferica .

Accanto a me, i  compagni di viaggio di un altro colore mi facevano sentire la diversa, per la prima volta.

Stavo bene in mezzo a tutta quella gente che non mi chiedeva nulla.

Per me,  abituata com’ero ad obbedire, rispettare, raggiungere traguardi, era un vero sollievo.

Avevo l’incoscienza dei vent’anni, la curiosità di conoscere il mondo, poi,   per non perdermi proprio  nulla,  tenevo, stretto stretto tra le mani, un vocabolarietto in lingua portoghese che mi venne particolarmente utile quando , in preda al sonno, mi accorsi di aver bisogno di un cuscino e di quanto fosse difficile farsi capire, per averlo.

Miracolo, cuscino in portoghese si dice “alfandega”, non ci sarei mai arrivata senza il prezioso, piccolo vocabolario.

Era il primo, vero ostacolo, fondamentale da risolvere, per andare avanti.

L’aereo atterrò alle ore diecietrenta, all’areoporto di Maputo, a terra mi raggiunse una folata di aria calda mista a odore di escrementi.

Mi riportò alla campagna romagnola, quando, in estate, mi trasferivo dagli zii materni e li aiutavo a portare da mangiare agli animali nella stalla.

L’Africa mi accoglieva con i suoi odori, mi restituiva il mio mondo di bambina, povero, fatto di paure, di freddo, raccolto, come la mia infanzia, quando, trasgredendo, salivo su uno sgabello  a tracciare con il dito , in inverno, sui vetri della finestra della camera da letto le case, le persone, e guardando fuori immaginavo le storie.

Ora ero  grande, potevo fare  quello che volevo.

Il Mozambico dove atterrai, in quella primavera del 1978, era un regime socialista, governato  da Samora’ Machel il suo presidente.

Colonizzato dai portoghesi, ai confini con Tanzania e Sud Africa, era uno degli stati più belli e ricchi dell’Africa sub-equatoriale, con un clima costantemente secco a parte  la stagione delle pioggie.

La storia umana del Mozambico ha inizio con l’arrivo dei cacciatori, poi, nel corso degli anni , si sviluppa accogliendo una quantità di persone di lingua bantù, arrivati dal Nord, che diventeranno i primi agricoltori della zona.

Nel 1948 quando l’esploratore portoghese Vasco De Gama sbarcò sulle coste del Mozambico, i commercianti arabi furono  i primi stranieri ad arrivare in terra mozambicana dove realizzarono imponenti insediamenti commerciali.

Ben presto ebbi modo di conoscere gli effetti della colonizzazione portoghese durata fino al 1975, a cui fece seguito un decennio di guerra che portò, il venticinque giugno sotto il Frelimo, all’indipendenza.

Furono anni difficili, basti pensare che la stragrande maggioranza dei cittadini portoghesi se ne andarono lasciando l’economia e il governo del paese allo sbando.

Il Frelimo traeva la sua ispirazione dal governo dell’Unione Sovietica e fu così che esso riempì rapidamente quel vuoto dando vita a un partito unico socialista che fu la scintilla

che contribuì a scatenare una guerra civile di lunghi quindici anni con Renamo, il partito di opposizione, anch’esso sostenuto dalle forze internazionali, soprattutto del sud Africa.

 

Dal taxi che a gran velocità percorre il lungo viale che conduce dall’aeroporto all’hotel Polana, in pieno centro, incrocio gli occhi delle molte persone, uomini, donne, bambini, anziani che avanzano in strada e sembrano vagare, come anime in pena, verso chissà quale destino.

Il mio sguardo si sofferma in particolare su un vecchio e una bambina, seduti su un muretto, a poca distanza dall’hotel.

Ho come l’impressione che non debbano andare da nessuna parte, come se il percorso l’avessero già compiuto, come in attesa della meta.

Scappano dalla guerra, da quella guerra che li ha allontanati di forza dal loro paese.

Camminano nell’illusione di trovare più avanti un rifugio tranquillo, sono scalzi, con i vestiti dello stesso colore della strada, il vecchio si chiama Manuel, è magro, sembra aver perso tutta la sostanza, la bambina Elisa.

Seduta accanto a lui, ma lontana, li  immagino usciti da un campo profughi.

Conosco un popolo in guerra, ne sperimento entrambe le facce, quella dell’insicurezza mista all’impeto, ma anche quella di una grande speranza.

Furono anni di morte, basti pensare che, oltre un milione di persone persero la vita, in guerra.

Maputo, la capitale, è una vera città africana, vivace, ricca di edifici ottocenteschi e in stile barocco.

Mi perdo nelle sue vie ad ascoltare i suoni, ad osservare la gente così diversa dal nostro stile di vita.

La cattedrale e il castello con la sua cinta muraria raccontano la sua storia coloniale ma poi basta poco per scoprire che essa ha anche un cuore più fragile fatto di case costruite con materiali poveri dove la vita è più difficile ma anche dove il sorriso della gente abituata ad essere felice con poco cattura ed emoziona.

Nel centro della capitale spiccano la statua del primo presidente mozambicano e il Museo d’Arte Nazionale dove si possono ammirare opere bellissime.

L’Africa autentica è anche questo, e che dire del Giardino Botanico Tunduru con piante tropicali rare e graziosi edifici e poi ancora la casa di Ferro, progettata da Gustave Eiffel.

Mi perdo tra mercati coloratissimi ed è come vivere un sogno, tocco stoffe dai mille colori,

tessuti lavorati a mano minuziosamente che portano l’odore di questa terra.

Mi immaginavo giornate lente, e invece scoprii che l’Africa è una terra impetuosa,  la devi amare o diventa insopportabile.

L’aria è secca, anche gli odori sono esaltati dal caldo, il sole cocente, le distese infinite, senza confini, non ci sono fili o antenne a interromperli, le persone non hanno filtri, sono colorate, proprio come le vesti che si portano addosso, i bambini, splendidi, nella loro solitudine, trasmettono attraverso i grandi occhi neri tutta l’imperscrutabilità di questa terra.

Dalla finestra della mia camera osservo il mare in lontananza e, in un attimo, mi ricordo di mio padre, della sua figura ancora snella per la sua età, il naso dritto, gli occhi velati di una strana malinconia.

Lui ha sempre avuto su di me una particolare influenza, è sempre riuscito a farmi credere, e lo credeva lui stesso, che c’è sempre un avventura nuova, qualcosa che attende di essere scoperto, purchè troviamo il tempo di cercarlo e il coraggio di lanciarci.

La sua vitalità e la sua energia mi han sempre dato la certezza che non vi fossero limiti a ciò che si vuole realizzare.

Volevo seguire le sue orme, ora mi sovviene, di quando, bambina, mi portava con sé in bicicletta e ci fermavamo nei campi appena arati a raccogliere un grappolo d’uva, più in alto le colline ci stavano a guardare.

Quando, ancora oggi, mi chiedono  perché avevo scelto proprio l’Africa, credo che la risposta sia proprio nei giorni della mia infanzia.

Come a primavera si guardano le rondini ritornare e ci si chiede da dove vengono e come tornano, il mio desiderio di andare è forse anche un oscuro bisogno di ritornare, la spinta ereditaria e nostalgica a migrare.

L’Hotel Polana sembra una cattedrale, completamente di colore bianco, in perfetto stile coloniale, quasi una cittadella, punto di incrocio di trattative economiche, intrighi internazionali, povertà e prostituzione.

Poco più in là, nelle strade, si incontrano persone che si vendono sui marciapiedi.

E’ lì che conosco Manuel ed Elisa che porterò con me a Beira, al Nord.

Manuel fa il cuoco, non conosce la sua età, sulla testa, rotonda, i capelli neri che cominciano a incanutire raccontano che sta invecchiando.

Gli parlo in un portoghese stentato ma lui capisce, siamo entrambi sospesi.

E’ un uomo spaventato a morte dal destino, prende la vita alla giornata, nella nostra “mashessa” a Beira mi divertirò a insegnargli a tirare le tagliatelle con la “farigna de

trigo”,e  più volte lo scoprirò chino fino ad immergersi col viso ad ascoltare “per Elisa” di Lucio Battisti  sul mangianastri che mi sono portata dall’Italia.

Il 19 ottobre 1978 decido di seguire i mie amici “trabagliadores” fin nella savana.

Sono un gruppo di topografi , la loro mission sarà formare tecnici mozambicani a fare strade. A me intriga conoscere l’ignoto di questo percorso umano che mi farà scoprire gente, modi di pensare e bisogni completamente diversi dai miei.

Partiamo da Maputo per recarci nel Nord del Mozambico, destinazione Beira.

Carichiamo sul Toyota i pochi mobili che siamo riusciti a recuperare nei fatiscenti negozi della capitale, un tavolo, alcune sedie, spaiate, qualche rete abbastanza intatta per costruirci i letti.

Ci attende un lungo viaggio nella notte, l’auto è vecchia e malandata, i finestrini non si alzano, sono costretta a tenerli amorevolmente alzati con la mia mano, rimane un apertura in alto, entrano  l’aria e la luna, insieme.

Maputo- Beira, un viaggio di diciannove ore, vediamo il paesaggio modificarsi di continuo.

Il Mozambico è attraversato da un’unica strada principale, dritta, le diramazioni interne non sono asfaltate.

Attraversiamo tutto il Tropico del Capricorno con la vegetazione che cambia.

Nel Tropico è florida, verde, soleggiata, papaie e cocco ovunque.

E’ un sole dolce ci accarezza, il sole dell’estate italiana quando sta per finire.

Qui è inverno ma la stagione calda, insieme alle pioggie, sta per arrivare.

Oltrepassato il Tropico, ci accoglie un paesaggio arido, secco, con poche piante.

Sabbia bruciata e il sole sembra già più caldo.

Tra poche ore raggiungeremo Nhamatanda, una piccola comunità nei pressi di Beira in cui troveremo alloggio.

Ci arriviamo in piena notte, troppo stanchi per mangiare, andiamo a letto tutti, l’indomani sarà un giorno dalle mille sorprese.

Nhamatanda è una piccola comunità rurale che vive prevalentemente di agricoltura, le case sono di fango e i tetti di paglia, la gente ci addita e ci chiama per salutarci “muzungo”!

Muzungo: qui si chiamano così quelli di razza bianca.

Nonostante la presenza di Manuel ed Elisa attiriamo la curiosità, vogliono sapere chi siamo, da dove veniamo, non hanno la più pallida idea di dove si trovi l’Italia.

Sto bene tra quella gente, le persone mi sembrano felici, soddisfatte di ciò che hanno, gioiose, sorridenti, semplici.

La comunità è piena di bambini che non piangono perché non ne hanno motivo, sono bambini felici, danzano e suonano, hanno la musica nel sangue e negli occhi.

E sono sporchi!

Sporchi in ogni centimetro dei loro piccoli corpi, di una terra che gli è penetrata dentro e che non riescono a togliersi di dosso.

Anch’io sono sporca, polvere e sudore mi rendono appiccicosa, impossibile pretendere che qualcuno sia pulito in questa parte dell’Africa.

Mi scopro  in un mercatino locale e mi sento un peso alle mani, minuscole creaturine le hanno abbrancate e i loro corpi si stringono alle mie vesti come se volessero entrarci per non uscirci mai più.

Spingono tra loro per avere le nostre mani, ognuno di loro ha quell’istinto materno che gli fa prendere cura dei fratellini minori.

Tra due ore scarse raggiungeremo Beira, la seconda città del Mozambico.

Auto e bus la rendono caotica, è una città povera e trascurata, le antiche costruzioni coloniali sono fatiscenti e, pur rimanendo intatto il fascino e l’eleganza, mi danno l’impressione che la città assomigli a una donna ormai sfatta.

Osservo il mercato e non posso che avvicinarmi a guardare la spiaggia dei pescatori.

I pescherecci stanno rientrando lentamente e assisto con attenzione all’allestimento della vendita del pesce.

E uno spettacolo di euforia, di gentilezza, di socievolezza.

Poco più in là c’è il Cafè Riviera in Praca de Municipio, un caffè dove fanno ottimi “pastais de nata”, dolcetti di ottima qualità. Scopro che gli africani sono molto golosi, quasi come me.

Passiamo la notte a Rio Savane, a trentadue chilometri dalla città in un posto solitario e incantato raggiungibile solo via mare.

I chilometri che separano Rio Savane da Beira costeggiano un paesaggio paludoso popolato di mangrovie, scorrono colori incantevoli, si incrociano bambini e ragazzi a piedi o in bicicletta che ci salutano.

Arriviamo che è quasi buio al resort, una specie di campeggio, la stanza è una “casita” in cemento con zanzariere al posto delle finestre.

Non ci sono letti, solo materassi, alle dieci di sera si spengono le luci e si rimane al buio, in balia dei rumori della notte mozambicana, del fragore delle onde dell’Oceano e dei versi degli uccelli notturni, Manuel che conosce bene quei luoghi l’indomani ci dirà che nella notte ha visto una iena in fuga tra le casite.

Ci rimettiamo in viaggio, destinazione Nampula, in piena savana.

Ad accoglierci una casa prefabbricata tra tante case di fango.

Il villaggio è piccolo e raccolto, isolato e formato di capanne povere con i tetti di paglia, c’è però una minuscola zona “commerciale” attorno a cui ruota la microeconomia locale, la nostra presenza è come un avvenimento, in particolare la mia, una donna bianca in un villaggio della savana non è cosa di tutti i giorni.

Osservo gli uccelli colorati e i babbuini che saltano con incredibile agilità di albero in albero, di ramo in ramo fino a toccare terra per poi risalire il lungo tronco.

In lontananza baobad, banani, manghi.

Sono giorni sempre uguali eppur diversi, come lo stupore che mi procura al tramonto l’albero di baobad imbevuto di luce rossa.

Esso trasmette la sua maestosa inerzia piena, contrapposta al nostro fare, vuoto.

Ci diamo da fare e per sfuggire al caldo torrido, costruiamo la nostra “maschessa”, una capanna di pali di legno ricoperta di “capim” che sono gli arbusti secchi che si trovano nella savana.

Questa rudimentale costruzione ci permette di trascorrere all’ombra i momenti più caldi della giornata, di chiacchierare e di guardare il sole alto e luminoso,  di aspettare i repentini tramonti dell’equatore e vedere il cielo che sfuma nel rosso cupo e porpora, come se un fuoco immenso fosse acceso da una grande mano sotto il limite dell’orizzonte.

Le rare nubi si orlano d’oro, mentre il sole, rotondo e arancione come una moneta arroventata scende in fretta e scompare.

Le palme diventano di colpo scure e in breve scende la notte.

Siamo rimasti in quel luogo per tre mesi, e la notte è il ricordo più forte.

Con le finestre aperte alla brezza che agita la zanzariera di velo, ascolto il mio cuore e mi abbandono alle misteriose voci della notte africana, galagani e uccelli notturni, suoni di tamburi in lontananza.

Rimango  in silenzio e mi lascio raggiungere dai ricordi del mondo che ho lasciato, ripercorro con la mente il mio corpo per cercare, in quel letto, in quella spoglia stanza tutto quello che vorrei fare poi.

Rimango  immobile così, per ore, ad ascoltare le iene lontane, il gracchiare delle rane e dei rospi nello stagno, strani fruscii magnificati.

La reale bellezza della vita sta nella condivisione.

Me ne accorgo in un pomeriggio dopo ver lavato i miei lunghi capelli.

Poco distante un bimbo mi osserva incantato.

Lascio che il sole scenda  caldo sulla mia testa, mi abbandono, chiudo gli occhi e quando li riapro, intorno a me ci sono tutti i bambini del villaggio.

Mi salutano timorosi, qualcuno trova il coraggio per avvicinarsi e me li accarezza, i capelli.

In Africa il saluto è come un rito, un momento da sottolineare, un istante in cui smettere di fare qualsiasi altra azione.

Esso consiste nel porgere all’altro le mani, toccarsi.

E’ una regola, attraverso il saluto due vite entrano in contatto tra loro, anche solo per pochi secondi.

Noi occidentali abbiamo perso o forse non abbiamo mai avuto questa considerazione del saluto.

Mi prendono per mano e mi trascinano per mostrarmi il villaggio.

Mi lascio accompagnare e mi accorgo che ogni cosa creata ha un suo particolare motivo di esistere, indugio osservando le timide donne africane, in piedi, di fronte alle loro capanne, a difesa di non so quale destino.

Nei giorni che seguono sperimento come loro la fatica di procurarsi anche solo il cibo per vivere e comprendo che ogni s forzo in questa terra è accompagnato da un pizzico di gioia.

Gli africani ballano sempre, quando meno te lo aspetti cominciano ad ancheggiare, utilizzano qualsiasi cosa capiti loro a tiro, bottiglie, pezzi di ramo, o di latta, cerchioni di bicicletta, li trasformano in strumenti e ballano.

Come per magia il loro canto diventa tutt’uno con il paesaggio africano.

I mattini incominciano con gli uccelli, poi il cielo, grigio  si colora di un pallido lilla simile all’interno di un ostrica.

L’argento si muta in oro e la rugiada evapora nel calore del nuovo giorno. La luce celeste di un’altra aurora mi trova sveglia e pronta a ricominciare.

A volte non capivo se si trattava di sofferenza, di malinconia, di lontananza ma nel profondo  ciò che avvertivo era sempre il potere risanatore  di quegli spazi imperturbati che mi circondavano.

Camminare nella savana e sentirmene parte, scoprire gradualmente il suo linguaggio segreto e antico, temere di calpestare serpenti, mi abituarono giorno dopo giorno, percorrendo tutti i sentieri che riuscivo a trovare, come fosse una specie di terapia, come se stancando il mio corpo, avessi potuto guarire la mia anima.

I miei amici erano in quel luogo per lavoro, io erò lì per pensare.

Camminavamo insieme ma in modo diverso, nel ritmo e nella cadenza dei miei passi rinnovavo l’antico legame con la mia infanzia, spesso mi scoprivo a ricordare gli anni dello studio, le persone che avevo lasciato, i luoghi.

All’inizio con i sensi offuscati dai ricordi, mi muovevo come in un vuoto.

Non parlavo, la mente piena di pensieri e ricordi, procedevo brancolando nel labirinto tortuoso dei miei interrogativi irrisolti.

Poi, a poco a poco, un silenzio discese, e la mia mente diventò quieta e rilassata, i suoni esterni e l’essenza della natura mi raggiunsero e divenni vigile e percettiva.

Uscivo al levar del sole, nella fresca promessa d’un altro mattino, lasciavo la macchina dove capitava, chiedevo a Manuel che era il cuoco ma spesso si trasformava in autista di venirmi a prendere a una data ora e in un dato posto, e camminavo per decine di chilometri, con Chico, una scimmietta che avevo raccolta sperduta nel villaggio.

Spesso incontravamo rinoceronti o bufali addormentati.

Gli odori della boscaglia erano freschi, all’inizio, ma poi il sole asciugava la rugiada e li faceva maturare negli aromi inebrianti della salvia e dei frutti esotici.

L’odore della polvere, del letame e delle piume perdute, diventavano con il caldo un odore di fuoco.

Dal levar del sole al tramonto, salivo sulle colline e scendevo le ripide valli.

I paesaggi intoccati non sono esigenti: e in essi ogni finzione e ogni commento cessa.

Nella loro esistenza armoniosa ritrovavo la mia identità e il mio posto.

Compresì così che nella determinazione  di andarmene per un po’ dall’Italia potevo trovare la chiave dell’essenza della mia vita.

Mille volte tornavo a ripensare ciò che avevo lasciato e scoprivo che l’unico modo per uscire da quella sofferenza era attraversarla.

Potevo accogliere l’inquietudine e il malessere dei problemi irrisolti in me stessa, ma mi avrebbero menomata.

Scelsi di affrontare direttamente ciò che mi procurava vivere, da sola, in una terra così diversa e povera.

Scoprii il senso dell’amicizia e della solidarietà.

Nel silenzio e nella solitudine della mia anima l’Africa mi ha reso possibile armonizzare la mia vita sui ritmi antichi della natura.

Sono trascorsi quasi quarant’anni, in questi ultimi tempi, ho come la sensazione che il nostro paese abbia perso e fatichi a ritrovare una sua identità.

E’ così che, alla sera, canti potenti si alzano al cielo in diversi stili, provengono da gente diversa, la pelle è di un altro colore, e tutti cantano in lingue differenti allo stesso Dio, a cui danno nomi diversi.

E’ questa una visione del passato oppure del futuro?

Immagino il luogo, i sedili, gli alberi, il palcoscenico, la gente.

Sento i canti, i tamburi, i flauti.

Guardo le zebre che si inseguono abbaiando, le code incessanti che frustano l’aria cacciando invisibili insetti, elefanti che dondolano il piede anteriore avanti e indietro ritmicamente, tagliando l’erba con la grossa unghia affilata, avvolgendo velocemente il fascio d’erba intorno alla proposcide in un solo movimento e depositandolo nelle grandi bocche gentili.

Le stesse zebre, gli stessi elefanti di quarant’anni fa.