Sara Giacalone

Racconti


La panchina dei ricordi

La nostra storia inizia proprio parlando di una panchina che tutto sapeva, visto e sentito. Quella panchina era quasi diventato un punto di incontro tra me e Mia, la mia cara amica, conosciuta quasi per caso un’estate in vacanza. Infatti ogni estate ci incontravamo per raccontarci le nostre cose.
Mi ha sempre incuriosito quel suo modo di fare e di vivere, a dire la verità negli anni era diventata più solitaria del solito e più precisamente aveva deciso di vivere la sua vita serenamente, fregandosene della gente che tanto giudica e nulla sa; si fidava di pochi e raccontava quasi a nessuno. Però di me si fidava e ogni volta era un leggere un libro infinito, tutto questo raccontato da lei.
Mia negli anni era stata delusa molto dalla vita ma ad un certo punto era riuscita a trovare un equilibrio, in fondo chi è che non è mai stato deluso. La sua delusione era altro. Aveva vissuto cose che lei stessa faceva fatica a raccontare e descrivere.
Lei mi raccontava di lui e ogni vicenda vissuta ne dava un significato, tutto tornava.
Mi raccontò in che modo lo conobbe, un giorno d’estate era seduta su di una panchina con la sua vecchiettina e si avvicinò un signore, tanto per bene che si mise a parlare con l’anziana signora che conosceva, poi si salutarono e andarono via.
Tutte le volte che Mia portava a passeggiare la sua signora anziana si incontravano con quel signore e così per molto tempo.
Per un po’ di tempo non si videro, poi lo rincontrò ma con una ferita sul piede, gli avevano amputato alcune dita, però lui era molto sereno e quel giorno parlarono tanto. Dopo tante chiacchierate su di quella panchina non si incontrarono per molto tempo e lei nei giorni successivi si preoccupò molto di questo. Si era affezionata molto a quell’uomo anche se non lo conosceva bene.
Dopo molto tempo lo rivide e in quel momento rimase distrutta, spiazzata; verso di lei si avvicinò un uomo su di una carrozzina, era lui, gli avevano amputato questa volta una gamba, ma la cosa che stupì lei fu la sua serenità, forse, nel frattempo aveva elaborato questa sua nuova condizione. Mia mi raccontò che lui dovette risollevare lei per il dispiacere.
Da qui fu un crescere insieme, un qualcosa che sa dell’incredibile. Su di quella panchina si incontrarono molto, spesso, sempre e ogni volta avevano una cosa da raccontarsi, una cosa da risolvere, una cosa da sorridere e una cosa da piangere.
Divennero amici ma non di uscite ma amici di vita, la spalla di entrambi era pronta per sorreggere le delusioni dell’altro, gli occhi per dare una speranza, le braccia per darsi forza e altro, altro ancora.
Lei disse che furono gli anni di stravolgimento per entrambi, distruzione di una vita e ricostruzione di un’altra, anni meravigliosamente pieni di cambiamenti e soprattutto il riscoprire la vita, quella nuova.
Non tutti hanno la fortuna di vivere tutto questo, anche se non so se effettivamente si può dire fortuna, ma da come lei adesso racconta tutto questo, si.
Lei custodisce con molta cura quella storia, o più vite, come da lei definite.
Lei vinse, non un trofeo, non una medaglia ma vinse l’essenziale, quell’essenziale che spesso la gente non vede e non sente ma lei si.
A pensarci bene adesso su quella panchina lei sorride, sorride quando pensa di quel periodo così intenso, fatto di emozioni e disperazioni.
Forse un giorno quella panchina potrà raccontare ciò che vide e sentì.
Lei si fida di pochi per raccontare, ha paura perché spesso gli uomini fanno fatica a capire.
Tra pochi giorni ci rincontreremo e chissà se vorrà raccontarmi ciò che ancora non so e se vorrà dirmi quella sua grande delusione.
Nel frattempo posso solo assaporare quei frammenti di “essenziale” che sto scoprendo grazie a lei, grazie a lui.

 


 

Un tempo incomprensibile

Vorrei raccontarti di un tempo, un tempo incomprensibile, fatto di silenzi e tempeste,
dove tutto era così intenso ed eccessivamente forte.
Lei era così piccola e indifesa, così timida che, insomma, dove la mettevi stava.
Nulla gli mancò tranne una cosa, gli mancò la forza di oltrepassare quel muro che tanto voleva, nel suo inconscio, distruggere, spaccare, fare a pezzi, ma in fondo era solo una bambina, non ci sarebbe mai riuscita.
Malgrado tutto lei cresceva serenamente in quel silenzio che aveva un nome ed un ruolo nella sua vita.
Lei viveva dentro quella sfera di cristallo per non farsi del male; creata dalla sua grande fortezza, la sua mamma.
Negli anni aveva imparato a conviverci, si era creata una favola immaginaria dove quel silenzio era un uomo fantastico e lei
Ne era orgogliosissima, in fondo doveva essere così.
Aveva imparato a stare zitta e a non chiedere, tanto non avrebbe avuto risposta.
Nei suoi pensieri infantili cercava di avere quelle risposte, per trovare una spiegazione a tutto questo, ma ci volle tempo.
Lui non lo sa e non lo saprà mai che ogni qualvolta stava con lui, lei era felicissima, eppure “due più due fa quattro” non altro.
Siamo così strani a volte, amare qualcuno pur facendoci male, ma questa è un’altra storia; in fondo lei aveva ragione, lui era il suo orgoglio immaginario, l’uomo perfetto.
Lei osservava i suoi gesti, movimenti e sospiri, e nessun discorso, nessun sapere; tutto il resto era silenzio ma lei era contenta così.
Negli anni successivi quei silenzi venivano spesso interrotti da gran frastuoni, bombe pronte ad esplodere, per questo lei adorava quei silenzi, che in realtà la salvarono dalle “bombe”.
Quei silenzi con il passare del tempo diventarono rari e furono sostituiti da gran “rumori”.
Nonostante si cercò di salvare quel castello e quella sfera di cristallo, non ci fu nulla da fare, bisognò distruggere tutto per salvarsi.
Lei diventò grande ma non ancora tanto per darsi pace e giustificazione a tutto questo.
Ogni sua delusione ne dava colpa a lui e a quel suo silenzio; non capiva, perché?
Oggi ho capito, non c’è un perché, lui era così, fatto male, con le sue eccessive impulsività.
Ringrazio quell’uomo perché oggi so molte cose, so che i bimbi devono giocare sui prati, i figli tenuti per mano e le donne accarezzate con dolcezza.

 


 

La formichina

Ricordo bene quella sera, lei aveva perso completamente il controllo, era fuori di se, aveva “sbroccato” tutto, e non era solito farlo.
Raccontò certe “cose” che potevano sembrare inverosimili, ma era tutto realtà; cose che ti fanno pensare come sia facile giudicare una persona a prima vista, non è sempre oro ciò che luccica. All’epoca si iniziava a parlare di tutela ma nella pratica le cose non erano cosi, c’era solo “stai zitta e buona”.
Lei aveva provato a denunciare ma con la conseguenza di ritrovarsi tutte le volte con i lividi sul corpo.
Dicevano loro, proprio loro, che si sa le “cose burocratiche” vanno a rilento, ci voleva tempo.
Ma lei non ne aveva più di tempo, doveva salvarsi e salvarli.
Quella sera disse che stava combattendo da anni una guerra, una guerra non equa, dove il potere e la forza di uno non equiparava con quella dell’altro; non poteva esserci confronto.
Per questo tutte le volte lei gettava la spugna.
Ma come si può in una società moderna in cui si difendono certi valori e diritti non esserci tutela, dicevano loro: “ci vuole tempo, si tempo”, ma nel frattempo?
Lei aveva chiesto per anni aiuto ma ognuno aveva le sue cose, ognuno diceva la sua: “abbi pazienza, cambierà, ci vuole tempo” ma di concreto c’era il nulla e la burocrazia che stava lì nei fogli scritti a fare polvere.
Allora cercava di viaggiare con la sua mente, come una formichina laboriosa; nel suo viaggio viveva e sopravviveva.
Lei non sapeva che il suo pensare da formichina l’avrebbe salvata.
Ricordo bene quella sera, lei dopo aver “buttato tutto fuori”, si alzò, chiese scusa per il suo sfogo e andò a via.
Mi preoccupai molto nei giorni avvenire ma si sa la vita continua e ognuno ha le sue cose.
Passarono anni e per molto tempo non seppi più nulla di lei.
Finché un giorno chiesi a lui, proprio lui, il suo grande amore, l’amore del liceo; nonostante era finita la storia tra loro erano rimasti molto amici. Lui fu uno dei pochi in cui lei si raccontò.
A volte la vita è un destino, ci credo molto in questo e credo anche alle nostre capacità di ribaltare tutto, anche l’impossibile.
Lei un giorno, quasi per caso, tramite altre persone conobbe un tizio dall’aspetto un po’ trasandato ma di bella presenza; dal suo modo di vestirsi tutto poteva pensare ma non che fosse un avvocato.
Nei giorni successivi, e come sempre, lei continuava il suo lavoro da formichina, ma c’erano dei pensieri che non riusciva a togliersi dalla mente.
Aveva visto in quell’uomo la forza di reagire, un’ancora di salvezza, si fidava.
Così decise, un giorno all’oscuro di tutti, di recarsi nel suo studio, lui la ricevette, anche se rimase un po’ sconcertato, non avrebbe mai immaginato cosa potesse trapelare nella sua vita, in fondo sembrava così serena, anche se aveva negli occhi tanta tristezza;ma lei era brava a fingere.
Stesero ore ed ore a parlare in quello studio, si cercò di trovare una soluzione senza subire “quei soliti colpi”.
In fondo lui gli disse le stesse cose che già sapeva: “ci voleva tempo”.
Quell’uomo gli diede il coraggio e forza di reagire.
Quella mattina, una mattina come tutte le altre, prese tutto il necessario e andò via; lei non voleva scappare perché è una cosa da codardi ma non c’era altro da fare.
Seppi che fece mille mestieri per tirare su tutto, e lui, quel suo calvario, continuò per molto tempo a fare ciò che riusciva bene a fare cioè del male su altre vittime; alla fine lui rimase solo ma sereno perché in fondo la gente così non si rende conto, per loro è tutto normale quel loro modo anormale.
Lei era diventata forte, non aveva più peli sulla lingua, non tenne mai nascosta quella storia, che le valse da insegnamento. Si era fatta anche una certa posizione lavorativa ma rimanendo umile e buona come sempre.
So che quell’avvocato così trasandato si era preso una cotta per lei ma aveva bisogno di tempo lei.
Quella donna iniziò a respirava la sua nuova vita, fatta di piccole cose che per lei erano meravigliosamente grandi.
Per fortuna molte cose cambiarono nella burocrazia anche se c’era ancora molto da fare, ci sarebbe tanto da dire; ma in questo momento sono solo contenta per lei.
Lei, una donna come tante altre, dove tutti sapevano e nessuno faceva nulla.
Lei fu grandiosa, ebbe grande pazienza e grande forza proprio come una formichina laboriosa.
So che un giorno gli passerà anche quella piccola porzione di rabbia verso la giustizia che l’abbandonò.
Ma lei era buona e so che ci crede ancora nella giustizia, e in molte occasioni disse: “denunciate, non abbiate paura”.