Sara Vladovich - Poesie e Racconti

Primo ottobre

 

Vino nuovo scioglie la lingua per una lieta conversazione.

 

Due ottobre

 

Tiepido si fa il sole lasciando posto ai brividi.

 

Tre ottobre

 

L’odore acre della reticenza, soffoca il respiro della verità.

 

Quattro ottobre

 

Famiglia è anche quell’intimità di essere seduti fianco a fianco, in silenzio.

 

Cinque ottobre

 

Siamo connessi in una rete misteriosa, che ci raccoglie.

 

Sei ottobre

 

Perché penso che tu non ci sia? Perché incastonato nella mia ferita.

 

Sette ottobre

 

Mi hai preceduto e mi hai atteso. Mi hai chiamato. E sono qui.

 

Otto ottobre

 

C’è ancora spazio per un caldo sole, che intiepidisce di baci il viso.

 

Nove ottobre

 

Fuggo in apnea dalle strade trafficate che tentano di afferrarmi gambe e gola.

 

Dieci ottobre

 

Batte il cuore di pioggia, incessante, bussa un sospiro dall’interno. All’esterno un tocco. Sei tu.

 

Undici ottobre

 

Fermati, Illumina Dentro Una Carezza Intima Amica

 

Dodici ottobre

 

Gocce d’acqua sulla parete di un bicchiere disegnano un sentiero di perle.   

 

Tredici ottobre

 

Fiorisce la rosa del tuo desiderio di vita, ancora adesso nel mio giardino.

 

Quattordici ottobre

 

Ti stordisco parlando in fretta per paura di non dirti tutto.

 

Quindici ottobre

 

Un dono immeritato ricevuto è un’occasione per guadagnarlo.

 

Sedici ottobre

 

Ti nascondi tra veli notturni, rossa luna, come ventre di donna che porta la vita.

 

Diciassette ottobre

 

Scoppiettanti risate intorno al tavolo della nostra perenne amicizia.

 

Diciotto ottobre

 

Fragranza di caldarroste s’impossessa della via, corteggiando i passanti.

 

Diciannove ottobre

 

Tipografa dell’anima, mi sei prossima, amica mia.

 

Venti ottobre

 

Confidenza scalda questa mattina che tarda a svegliarsi.

 

Ventuno ottobre

 

Taglio lembi di nebbia per accompagnarti a casa.

 

Ventidue ottobre

 

Respiro l’attesa e mi trovo con te, passanti nella sera.

 

Ventitré ottobre

 

Un sipario denso di nubi scivola come carezza.

 

Ventiquattro ottobre

 

Precipita in un abisso il mio respiro quando non ci capiamo.

 

Venticinque ottobre

 

Occhio di luna, della tua amicizia, della tua presenza.

 

Ventisei ottobre

 

Mi regali il riposo, ascoltando l’affanno del mio cuore.

 

Ventisette ottobre

 

Dove sei quando fai, cosa fai se non sei?

 

Ventotto ottobre

 

Il tuo tempo è la mia ricchezza.

 

Ventinove ottobre

 

Il cielo si appoggia ai tetti, impenetrabile, rigato dal volo di uccelli.

 

Trenta ottobre

 

Un germoglio è spuntato: la certezza del nostro noi.

 

Trentuno ottobre

 

Imbrunisce presto la sera, come un cuore lontano dall’amore.


 

Natale

Non Avere Timore,
se Ami L’umile Eternità…
Navigherai all’alba
trovando amiche Luce e pace.


Al tramonto

 

Il pensiero di poter tornare anche solo per un’estate fra le montagne natie mi dà una carica che non sospettavo potesse più scaturire dalle mie vecchie membra.

Un Alpino come me, trapiantato in città…l’amore si sa ti porta lontano. Ma non sono tipo sdolcinato e ora, dopo tanti anni, ho la possibilità di respirare quell’aria pungente e penetrante che le Dolomiti racchiudono. Queste gite organizzate sono proprio una grande comodità. Chissà perché non ci ho pensato prima! In verità qualcosa mi ha trattenuto dal tornare là dove sono stato partorito, qualcosa che adesso non mi ferma più.

Il viaggio in corriera non è poi il massimo per noi vecchietti, soprattutto quando l’autista ci inebetisce con barzellette nelle quali lui solo trova divertimento. Vorrei dirgli che l’età media del gruppo è già fin troppo avanzata perché lui infierisca. Tuttavia è un buon strumento per conciliare il sonno.

Penso di essere il più eccitato: non manca ancora molto! Ecco finalmente quelle rocce taglienti e quel verde infinito che ti abbraccia ovunque ti volti. Il mio naso comincia a sentire l’odore fresco del bosco. Forza scendiamo, è già sera. Ecco l’albergo, siamo pronti per la cena. Sistemiamo nelle camere le valigie e ci dirigiamo come tanti bambini in gita scolastica al piano terra verso la sala da pranzo.

Sono circa le otto e mezza ed è luglio: e allora quasi spinto da un vecchio ricordo invece di voltare verso la sala apparecchiata prendo la via della porta d’uscita.

Mi volto verso Ovest ed ecco…il Sasso del Signore. Sento la lingua sciogliersi, sento pungermi gli occhi. Quelle rocce aspre e forti si ergono sicure davanti a me baciate dai raggi del sole che tramonta. La pietra si fa porpora e risplende, mentre la brezza della sera mi raffredda le gambe. In quella roccia vedo un arciere vestito di luce che ripone le frecce nella faretra. È stanco ma nelle sue ossa c’è ancora tanto vigore. È il silenzio davanti a questo trono di roccia scarlatta, è la vita che si specchia al tramonto.


 

Fernanda

 

 

Per capire una storia, per viverla, bisogna immergersi nell’ambiente in cui si è consumata, nel quadro di un soffio di vita che una cornice gelosamente racchiude.

Bisogna poter respirare dei profumi e sentire sotto i propri piedi la strada che scorre. La storia deve prendere corpo proprio perché è materia, polvere che il tempo spazza, ma non cancella. Ora, per raccontare una vita, aggiungo a queste righe il profumo della frutta, la polvere della strada bianca che attraversa la campagna.

Una casa signorile nella pianura ferrarese, il cortile col pozzo. La signora Morelli è costretta a letto e il consorte, farmacista in Ferrara, ha bisogno di una mano. La vicina di casa, la sarta Amelia, non dice di no alla richiesta di dare un aiuto al marito della “cara signora Giordana”; tanto più che può vantare l’appoggio anche della figlia Fernanda.

Dal letto, la padrona di casa non ha parole per esprimere la gratitudine verso Amelia e il suo “bel fiore”, e il farmacista non sa dir altro se non: “Ma che bella figlia che ha, signora Amelia”, la quale, inesorabilmente, risponde, in un sorriso: “Ma a lei non gliene tocca”.

Nell’aria non vi è che il profumo della primavera che apre le braccia all’estate e nel cortile di ghiaia non vi è che Fernanda che attinge l’acqua al pozzo.

Si sente qualche rondine garrire. Il farmacista esce dal portone di legno e si avvicina a Fernanda la quale accenna un sorriso senza pensieri, mentre sta già trasportando il secchio verso l’abbeveratoio. Scricchiola la ghiaia sotto i piedi furtivi del farmacista che insegue Fernanda. La afferra per un braccio e la stringe a sé. La confusione non lascia un tempo di fiato al “bel fiore della signora Amelia”. Sente le labbra strette dalle labbra di lui che continua a premersi su di lei; si sente trasportare, i piedi che appena sfiorano terra in un triste ballo. Le mani sulla sua schiena sono un vincolo dal quale non trova scampo. Non c’è voce nella sua gola, un groppo muto di singhiozzi. È stesa sulla paglia, e sente ancor di più le proprie membra premute e schiave. Un dolore la pervade, mentre d’improvviso si trova libera e spoglia.

Non c’è voce per Fernanda, solo il suo sguardo urla dolore, mentre il farmacista si allontana. D’improvviso, si sciolgono le lacrime e riprendono forza le gambe. Fernanda si alza e corre verso casa. Ha paura di parlare alla madre, ma non riesce a trattenere il pianto. “Cosa, cosa è successo?”, interroga Amelia vedendosi correre incontro la figlia. “Il signor Morelli…il signor Mo…mi ha…”, ma non riusciva a parlare. “Fernanda, cosa è successo?”, chiese nuovamente la sarta scotendo la figlia, mentre un lontano pensiero la terrorizzava già. “Non è possibile, no, no!”, gridò Amelia, già persuasa dell’orribile verità. La quale non si fece troppo attendere.

Era impossibile ciò che era accaduto a Fernanda, tranne che per lei. Tuttavia, bastarono due mesi: era incinta.

Mentre la signora Morelli moriva, il marito veniva denunciato per violenza. Nondimeno venne assolto prima del processo: un infarto lo stroncò.

La creatura che nacque, un maschio, era moro e robusto e, sebbene fosse venuto alla luce il giorno del santo Valentino, Fernanda lo fece battezzare Destino.

Una ragazza madre non è ben vista, neanche, inconsciamente, dai propri genitori. Destino non abitò mai con i nonni: Fernanda affidò il figlio a una famiglia di Ferrara, la quale accolse il bambino con una sollecitudine che trovava la sua fonte nella tragica perdita di un figlio in guerra. Fernanda cominciò a lavorare in un maglificio, a Firenze. Non doveva mantenere solo se stessa, ma anche contribuire alle spese che la famiglia affidataria sosteneva per Destino. Ogni volta che la giovane madre veniva a prendere il figlio per passare qualche giorno con lui iniziavano le lacrime: il bambino non voleva andarsene via, la famiglia faceva fatica a lasciarlo andare e Fernanda soffriva nel vedere che Destino non veniva volentieri via con lei.

Il grande affetto che Destino trovò nella famiglia di Ferrara fu lo stesso che riuscì a scoprire nella madre quando, crescendo, cominciò a capire il comportamento di Fernanda. Era giovane e bella, ma vedeva nei suoi occhi qualcosa di diverso, che spesso faceva a pugni con il suo sorriso.

Il lavoro portò Fernanda a Bologna. Ormai le sue narici non erano più pervase dagli odori della campagna. Tuttavia, nella “dotta” Bologna Fernanda riuscì a trovare la pace. Si sposò con un semplice impiegato, nel quale riuscì a trovare quella fiducia che tanto aveva penato per trovare. Destino non lo considerò mai un padre, ma un amico, che stimava e al quale voleva bene.

La felicità, non è fatta per durare a lungo, finché si vive. Un intervento chirurgico strappò a un figlio, e a un marito, la figura preziosa di una madre e di una moglie: Fernanda se ne andò, duramente come aveva vissuto, sotto i ferri. Non c’è più profumo né strada quando si arriva a questo punto: solo destino.


 

Osvaldo

 

Quando mi siedo davanti al camino acceso, fra le scintille di fuoco e il fumo della mia pipa, prendono vita i ricordi. Cominciano ad aprirsi davanti a me i sentieri che ho percorso, i boschi che ho attraversato; la montagna che mi ha partorito e che mi ha sempre accolto benigna fra le sue viscere.

È facile, forse, amare il luogo natio ma ho conosciuto tanta gente che dalla montagna è fuggita per cercare il piano e dal mare si è allontanata per non respirare più il sale. Io invece sono un montanaro che dalla roccia ha preso la forza e dalle alture il desiderio d’infinito. Sono soggiogato dalla maestà delle mie montagne, senza paura. Queste sensazioni le ho condivise per anni con i miei compagni e con il mio…mulo. Ogni alpino che abbia una certa età, può vantare di aver condiviso con un tenace e orgoglioso animale, qual è il mulo, la vita di montagna.

Lassù per i monti il mio più fedele alleato è stato Osvaldo. Le salite in montagna sono spesso aspre e quindi si ha bisogno di un animale forte, che resista ai carichi pesanti.

Osvaldo è stato il mio mulo di fiducia; lo curavo personalmente e dove ero io era anche lui, nei dovuti limiti, s’intende. “Il Capitano Osvaldo”, così lo ribattezzarono i miei compagni, era ben piazzato; ci assomigliavamo, quasi.

Devo ammettere che era piuttosto espressivo e quando incrociavo il suo sguardo non mi sarei meravigliato se avesse aperto bocca per parlare; altre volte, invece, pareva che ridesse di qualche umana grossolaneria. Mi chiedo se quella bestia che tutti dicono cocciuta (e non posso smentire), abbia capito che cosa passò fra la primavera del 1915 e l’autunno del 1918. Comprese sicuramente che insieme alla legna che trasportava abitualmente si erano aggiunti materiali più pesanti e che s’intensificavano le salite verso le alture.

Qualcosa però sicuramente turbava Osvaldo: cominciò, durante le salite, a fare numerose soste di protesta; era nervoso come un essere umano. Dovevo presentargli costantemente la carota evitando il bastone, s’intende: con lui la beffa sarebbe valsa la vita!

Quando si cominciò a respirare la polvere da sparo, ogni giorno mi sentivo stringere lo stomaco. Avvertivo la presenza di un’ombra al mio fianco che, quieta come un felino, sembrava aspettasse il momento giusto per colpirmi alle spalle. Non voglio togliere dalla mia memoria gli ardenti desideri patri ma la paura era nostra compagna.

Dove abbiamo combattuto noi, là sulla montagna, dicono sia stata la più aspra tenzone; la storia pone diversi fiori a corona delle imprese che si sono spinte fin sopra i ghiacciai. Io, come testimone, non smentisco; il freddo, il fiato che ti si lacera durante le salite, le gambe dure come tronchi. Eravamo allenati, è vero, e conoscevamo bene quei luoghi ma l’ansia che ti prende ti disorienta, fa furto della tua energia.

Nel duro inverno del 1917 non si riuscì a convincere Osvaldo a stare insieme agli altri muli nelle stalle approntate per loro: voleva stare in trincea al fianco di noi cristiani e dormire con noi, fra i letti da campo. Non so quale istinto lo rendesse così risoluto ma la sua dura cervice ci fu vitale. Era quasi Natale, e a dicembre il pomeriggio imbrunisce presto: eravamo insolitamente tranquilli e vedendo Osvaldo lì con noi era come vivere in un presepe. Non ci aspettavamo altro se non riposare, ingenuamente. Invece, proprio mentre la luce del giorno si dileguava “il Capitano Osvaldo” tese le orecchie e con occhio spaventato cominciò ad agitarsi nel suo corpo massiccio, senza ragliare. Mi venne incontro e batté ripetutamente il muso contro il mio petto. Non capivo che cosa volesse, non volevo capire, ero stanco. Osvaldo continuava a tendere le orecchie, roteando gli occhi. Sentii allora dei rumori sommessi: era un agguato!

Quando ci vide correre verso i nostri appostamenti e organizzare la difesa, Osvaldo trovò pace fra le casse di munizioni. Eravamo pronti: e il silenzio divenne caos!

Gli spari ci assordavano e le grida si mescolavano: i ragli di Osvaldo si unirono a quella confusione, forti e penetranti. Le divise cominciarono ad imporporarsi e i piedi a scivolare. Tuttavia la vita ci fu risparmiata quel giorno: nessun uomo perduto.

Gli austriaci si ritirarono e parevano sollevati. So che in altre parti della montagna, italiani e austriaci hanno bevuto assieme in una sorta di prigionia fraterna e alcune fotografie li ritraggono sorridenti. Sembra un’immagine surreale eppure vera, tangibile: e, pensandoci bene, non poi così assurda.

Oggi fra le scintille di fuoco nel camino e il fumo della mia pipa non scorgo nessun episodio cruento della guerra sulla montagna. Vedo solo i volti dei miei compagni e il muso sagace di Osvaldo.

L’italico mulo, quando la guerra finì, fu presente a molti nostri raduni: rivestito del tricolore, sfoggiava al collo la sua medaglia d’oro.

Il suo vitalizio fu generoso: strigliato e nutrito come un purosangue dal sottoscritto.

In qualsiasi altro posto avere come mascotte un mulo potrebbe essere ridicolo ma non là, sulla montagna dove servono fiato e gambe robuste.

Il fuoco nel camino si è spento: i ricordi, però, continuano ad ardere sotto le ceneri della vita.


La merceria di Piazza

 

La merceria di Piazzetta del Mercato è il perfetto ritrovo per il gentil sesso, lo è stato e lo sarà in futuro. Intere generazioni si sono avvicendate fra quei bottoni e quei fili e molte mani, dalla piccola alla grassoccia, dalla ruvida all’affusolata, sono passate dal cestino dei bon-bon posato sempre pieno sul bancone di legno.

Tanti piedi hanno varcato la soglia di quella porta col vetro: piccoli, grandi, piatti o ben calzati. Nessun uomo c’è mai entrato, neanche per scherzo; non esiste un motivo vero ma è così. Lì si respira profumo di donna: lavanda e pettegolezzi.

La padrona del vapore è la signora Margherita, l’energica e schietta bisnipote della fondatrice, la gloriosa Anna. Asciutta ma dal viso rotondo, Margherita è la degna erede di una stirpe di donne che amano i propri interessi e che sono pronte ad ascoltare, a volte loro malgrado, i guai delle loro simili e a confortarne i tormentati cuori.

“Signora Betta, buongiorno” – salutò Margherita vedendo entrare, come sempre alle dieci in punto, l’ingombrante moglie del Maresciallo Lanzi.

“Salve tesoro” – rispose affannata la dama – “ricamavo… e mi sono accorta che fra le mie spagnolette mancava…il blu, il solito” – e con occhio concupiscente allungò la mano nel cestino dei bon-bon.

“Ecco, pronto – rispose garbata Margherita prelevando da un cassetto che aveva alle spalle, l’articolo richiesto. “Altro?” – “Uhm… sì…ed è forte” – disse piano la Marescialla, mentre impegnava la bocca con un altro zuccherino e poggiava i gomiti sul bancone per allungarsi verso l’amica.

“Salve a tutte” – proruppe la voce sonora della fioraia, la Signora Adelaide, che con fare educato si chiudeva la porta della merceria alle spalle – “È l’ora del notiziario?” disse maliziosa avvicinandosi al bancone mentre la Signora Betta si tirava su in fretta dalla posa stravaccata che aveva assunto. “Beh…niente di particolare…” – cercò di trattenersi la Betta che era lì, lì per scoppiare. “Mi era parso…due metri di raso rosso, per favore – chiese la fioraia continuando a guardare la matrona. “Una bella giornata di sole, finalmente” divagò Margherita mentre srotolava il raso sul metro – “Sembrava che la primavera non dovesse arrivare più” continuò, mentre impugnava le forbici. “Sì, un incanto” rispose Adelaide voltandosi verso la porta e sorridendo alla piazza. “Bene, grazie, pagherò tutto il mese domani” – disse in fretta prendendo il pacchettino che Margherita le porgeva – “Alla prossima, Signora Betta” e uscì.

“È un argomento troppo delicato per parlargliene: un conto è quanto spende la moglie del farmacista in ricostituenti, un altro quale dei due fratelli Morini sposerà la figlia del professore, e ancora chi consolerà la vedova della Rovere ma questa no, non si può” elencò desolata la Marescialla facendo un grosso respiro e tornando a poggiare i gomiti sul tavolo.

Margherita sorrise: “Beh ma non è certo di stomaco debole! Non si è mai tirata indietro davanti alle chiacchiere!”. In quell’istante entrarono le sorelle Bernardi. “Carissime” esclamò Margherita uscendo da dietro il bancone e baciandole entrambe – “Vestito nuovo, vedo” disse mirando le due giovani – “Sì, per non parlare delle scarpe” rise la Betta notando il labbro un po’ sofferente delle nuove venute – “Vi siete messe i cerotti, sì?” chiese tra il materno e l’ironico.

“Certo, Betta” – disse la maggiore “Ma fanno un male!” – “Comunque… siamo qui per la mamma… e per un consiglio.”

La Marescialla gongolò e si sedette sulla sedia di vimini per ascoltare meglio.

“Sì, questo è quello che mi ha ordinato vostra madre” – disse Margherita allungando alla minore una scatola lunga e leggera – “E… sono… siamo tutt’ orecchi”.

“Ecco…” – iniziò Veronica, la maggiore, – “siamo innamorate… ma di due ragazzi che… che non sono adatti a noi!” disse in fretta mentre il suo viso si arrossava.

“Sono per caso delinquenti, dalla quale vostra madre vuole mettervi in guardia? Avrebbe ragione, non trovate?” indagò subito la Marescialla.

“No, sono solo… beh… promessi” – balbettò Vittoria, la minore.

“Promessi felici o infelici? Voglio dire: fidanzati col cuore o col portafogli?” interrogò di nuovo la Betta che non stava nella pelle.

“Non lo sappiamo, ma il grave è che lui mi ha baciata…” disse Veronica – “E lui mi ha scritto una lettera d’amore…” sospirò Vittoria.

La Betta era tanto emozionata che non aveva parole. “Potete dirci chi sono questi giovani?” domandò affabilmente Margherita. Dopo qualche istante di silenzio la più piccola rispose: “Francesco e Alessandro… Morini”. “Ma è meraviglioso!” esplose la Betta alzandosi in piedi. “Ma cosa dici! Si devono sposare con la figlia del professore, Giulietta!” quasi pianse Veronica.

“Bimbe, capite bene che, nel caso, uno solo potrebbe sposarla ma credo che ciò non sarà mai” disse sorridendo teneramente Margherita.

“Sì, insomma, la Giulietta è un po’ uno stoccafisso” – precisò la Marescialla – “e poi farla sposare con uno dei Morini è solo un’idea di suo padre; il suo cuore in realtà batte per il figlio del fornaio, Giuseppe”.

“Il nostro amore è quindi onesto! Sentito Veronica?” disse con gioia Vittoria.

“Sì, è meraviglioso… ma la povera Giulietta riuscirà a coronare il suo sogno d’amore?” domandò Veronica con un po’ di tristezza negli occhi.

“Certo, di cosa ti preoccupi! Il professore se ne farà una ragione!” disse la Betta. “Mi tiene molto in considerazione; metterò io una parola buona per Giuseppe.”

Le due giovani erano raggianti. Dopo un affettuoso saluto uscirono senza sentire quasi più dolore ai piedi.

“Sono due splendide rose” disse piano Margherita, un po’ commossa.

“Sì, due brave ragazze… ma torniamo a noi” disse la matrona non vedendo l’ora di riuscire finalmente a svelare alla merciaia il pettegolezzo per cui era stata così puntuale anche quella mattina. Tuttavia, si sa, spesso il destino sembra esserci avverso. Entrarono infatti in quel mentre alcune signore che venivano da fuori, perché la Betta non ne riconobbe neppure una. E poi dopo che queste se ne furono andate sopraggiunse l’Amelia, la sarta. Parlava già prima di entrare e non smise finché non uscì: ma qualcosa d’interessante dal suo “dialogare” si poté carpire.

“Devo fare un vestito per la moglie del sindaco, e vuole per forza delle roselline sulla gonna… ma non è più una bambina dico io!  – “E poi, vuole che le spalle rimangano ben scoperte, per chi dico io” – “suo marito non è uomo per cogliere queste civetterie… ma il consigliere sì, però!” finì pensierosa e seria la sarta in quel vortice di parole senza fiato.

“La signora Rosa è civettuola ma non cerca avventure: penso che desideri solo essere un po’ guardata. In fondo fa piacere…” disse con semplicità Margherita celando in viso un po’ d’imbarazzo. La Betta non aveva mai visto l’amica così ma non riuscì a farci caso perché l’Amelia continuava imperterrita: “Sapete di Maria, la perpetua: si sposa ed è venuta da me in gran segreto per farsi confezionare l’abito, sobrio dice lei. Chi sarà poi il cavaliere che la toglie dalla canonica?” chiese, quasi cercando una risposta. Era tempo di andare, però: “Arrivederci!” salutò la sarta e uscì.

“Se non fosse per la moglie del sindaco non avrei mai venduto tante roselline!” disse gaia Margherita riponendo le scatole dei fiori di stoffa sotto il bancone.

“Bene. Te lo dico ora o mai più: l’ingegnere, quel vecchio scapolo burbero, è innamorato” disse di un fiato la Betta. “Esce sempre tutto elegante e profumato, sorride, saluta: che sia proprio la perpetua che gli ha sciolto il cuore?” continuò investigativa ma poco convinta della sua soluzione la Marescialla.

Margherita abbassò gli occhi e questo non sfuggì all’amica: “Sai forse qualcosa che io non so? Qui in merceria, sarà una magia, vengo sempre a scoprire più cose di quante non ne sappia già”. Non era tempo però che quel mistero fosse svelato: la pendola suonò il mezzodì e la Betta era già in ritardo. “Tesoro, devo andare” – disse – “A domani, mia cara” e uscì dondolando. Margherita si trovò stranamente sola, a pensare. Era stata proprio una bella mattina: le due sorelle Bernardi andavano incontro a un futuro roseo, la perpetua, nessuno l’avrebbe mai detto, si sarebbe sposata e la Giulietta poteva sperare in un matrimonio d’amore. La pioggia che aveva lasciato posto al sole sembrava aver toccato anche l’ingegnere; e di questo, lo sapeva, avrebbe dovuto render conto l’indomani, alla Betta.

 


 

 

Il salice del ricordo

 

Era arrivata. Il treno non si era opposto alla sua impazienza e l’aveva condotta in orario alla sua fermata: Desenzano. Era balzata in piedi già alla vista della Torre di San Martino-Solferino perché era per lei simbolo della meta vicina. Il vagone che l’ospitava sola le permise di affacciarsi a tutti i suoi finestrini e di provare tutti i suoi sedili. La natura verde e rigogliosa di tanto in tanto faceva scudo all’orizzonte ma lei sapeva che sarebbe arrivato il momento; lo spettacolo sarebbe iniziato, le fronde si sarebbero aperte come un sipario e sarebbe apparso: il lago. Eccolo, striato di sole in quel caldo mattino di giugno. Non appena il convoglio si fermò lei balzò leggera a terra e cominciò a correre come se stesse facendo tardi ad un appuntamento. Era serena e svuotata da ogni peso e quando fu giunta alla meta si arrestò come se si fosse trovata davanti un ostacolo imprevisto. Il lago era là: posò la borsa da viaggio e allargò le braccia per meglio respirare. Il suo volto non aveva nessun cruccio e le sue labbra cominciarono a sorridere: barche e cigni scivolavano sull’acqua mentre un gruppo di folaghe chiacchierava sulla riva. Era a casa, al suo paese, e non chiedeva altro. Si avvicinò all’acqua e mise i piedi a bagno così da rinfrescarsi un po’. In quel momento vide un sasso balzellare un poco più avanti, si voltò: un signore anziano, asciutto e dalle spalle un po’ curve era chino, alcuni passi dietro a lei nell’atteggiamento di chi aveva appena lanciato di “piatto”. Si alzò lento e il sole gli fece brillare gli occhi: “Mi scusi signorina, non volevo certo disturbarla ma avevo proprio una gran voglia di fare un tiro; certo potevo stare più attento, avrei potuto colpirle una gamba.” Giulia non si sentì infastidita, né irritata anzi, quel signore entrava in punta di piedi nella sua contemplazione del lago e partecipava come lei all’incanto. “No… non si preoccupi, non pretendo la solitudine, né la cerco. Ero talmente presa che non l’ho neppure sentita arrivare; tutto questo mi rapisce, va al di là della mia ragione”. “Oh, sono d’accordo; lei potrebbe essere mia nipote ed avere in comune l’amore per il lago e per questo angolo, fa sì che lei un po’ lo sia. Giulia abbassò gli occhi e arrossì: “Il papà del papà… il nonno, era un Alpino ma non l’ho conosciuto; è morto, prigioniero di guerra. Il suo ricordo è vivo anche per me che l’ho visto solo in fotografia: ed è qui che lo incontro, quando scappo dalla città, dove la mia famiglia e io ci siamo trasferiti, per tornare qua dove sono nata. I miei non hanno nostalgia quanto me; si viene a fare un giro, sì, ma non ci si ferma qui, così. Allora, maggiore età permettendo, prendo su e passo una giornata al lago”. Era emozionata e tacque. L’anziano signore perse lo sguardo all’orizzonte: “Vedi, io e tuo nonno abbiamo qualcosa in comune. Io sono Alpino come Lui e volutamente uso il presente. L’appartenenza, la comunione non muoiono mai; purtroppo ciò in cui credo spesso è passato al vaglio e finisce fra la retorica. Eppure è stato per me sempre un punto di riferimento e anche se siamo polvere, e in quanto tale spogliati di tutto, ci aiuta fare delle scelte precise e non vaghe. Quando guardo il lago trovo riposo: il mio e quello dei miei compagni che hanno già raggiunto l’altra riva. Non posso pensare che siano nel tormento, in mezzo alla polvere che i loro corpi hanno sollevato cadendo e in mezzo al rumore degli ordigni. Desidero che siano nella pace, nell’armonia che questo lago ci regala.” Giulia non distolse un attimo gli occhi dall’Alpino mentre le parlava: sentiva il cuore allargarsi e stringersi e un po’ di fuoco le accendeva il viso. Il caldo del sole allo zenit era stemperato dal vento che alternava soffi sgarbati e lievi. Alcune folaghe attirarono l’attenzione di Giulia e dell’anziano signore: bisticciavano, e quella che gridò più forte ne fece scappare due a pelo d’acqua. Entrambi risero di gusto. “Come ci assomigliano” disse l’Alpino “chissà cosa si sono dette ma quella lì deve essere davvero arrogante!” Giulia sorrise divertita: “Sì, ha fatto “la grossa”… e non hanno potuto resisterle!” Risero ancora e poi contemporaneamente volsero lo sguardo verso l’orizzonte. “Non si può davvero resistere a questo incanto e possiamo goderne ogni volta che lo desideriamo” disse con un filo di voce l’Alpino. Giulia come ogni anno stava gustando il suo ritorno a casa ma ora c’era qualcosa di più; lo condivideva con chi meno si poteva aspettare e con chi più desiderava trovare là; il nonno con baffi e capelli di platino che le stava al fianco. “Io…non so nulla della guerra e non ho mai avuto difficoltà; eppure qui mi sento più in pace, più libera. Non ho mai dovuto scacciare pensieri angosciosi, eppure ho trovato qui ancor più sollievo di quanto già non senta dentro. Io ho tutto ma, qui più che altrove, posso contemplare l’infinità di cui siamo stati fatti partecipi.” Gerolamo non si meravigliò che la ragazza parlasse di sentimenti così intimi perché lui avrebbe fatto lo stesso. Davvero aveva trovato la nipote che non aveva mai avuto. “Non ci siamo neppure presentati… io mi chiamo Gerolamo” e tese la mano un po’ ruvida alla ragazza. “Io sono Giulia…Giulia Merlini” e strinse energicamente la mano dell’Alpino. Gerolamo sussultò un attimo: quel cognome gli era noto, l’aveva pur sentito. Andò con lo sguardo verso la riva di Sirmione. “Ma… tuo nonno è Guido Merlini?” “Sì, l’avete conosciuto?” “Sì, era l’Alpino di Sirmione, Guidone. Beh, se l’hai visto in fotografia forse ti sarai accorta che era piuttosto alto ed è per questo che lo chiamavamo così. Siamo entrati negli Alpini lo stesso anno e abbiamo girato il lago in lungo e in largo…” smise di parlare perché la sua mente si aggrappò a un ricordo che gli fece tremare la gola. “Se vuoi seguirmi, andiamo a Sirmione in barca; là, sotto un salice, c’è un ricordo di tuo nonno”. Giulia non riuscì a rispondere, perché era emozionantissima. Fece un cenno energico col capo. Raggiunsero insieme l’attracco di alcune barche: la più piccola, “La penna”, era di proprietà di Gerolamo. Salirono per raggiungere Sirmione.

Nonostante l’età, il buon Gerolamo remò zelante. Il sole era cocente ma continuava a soffiare un vento ristoratore. Attraccarono: una piccola insenatura deserta che dava su un bosco.

L’Alpino, benché affaticato, fece strada con passo veloce, asciugandosi il sudore che gli coronava la fronte: pochi metri e nell’anonimato si ergeva un salice piangente. Giulia rimase colpita da quelle braccia forti e sinuose che sembravano voler toccare il cielo e invece facevano l’inchino. “Ecco” disse l’Alpino, e indicò una targa di legno fissata al tronco e incisa a fatica:

 

Io, Guido Merlini,

Io, Gerolamo Bianchi

Io Filippo Martelli,

prometto di non tradire mai me stesso

i miei compagni e la mia patria.

Confidiamo di essere uniti anche nella lontananza,

liberi anche nella prigionia,

vivi anche nella sepoltura.

 

Giulia si avvicinò al salice e sfiorò ad una ad una le parole incise nella tavoletta: le lacrime le bagnarono gli occhi. Gerolamo stesso era commosso: “Ecco… il giuramento di Sirmione, ecco tuo nonno!”


Il riscatto

 

 

Spesso è difficile credere a ciò che ci dicono; talvolta facciamo fatica a credere anche a ciò che vediamo anche se poi, in questo caso, dobbiamo arrenderci all’evidenza.

Desidero raccontarvi un fatto vero, forse non poi così incredibile, ma direi storico. Si tratta di una bicicletta e del suo…riscatto.

Correva l’anno 1935 e in un caldo pomeriggio d’agosto, quella che sarebbe diventata mia moglie, ricevette in dono dal padre una bicicletta.

Era un regalo di tutto rispetto, tanto che fece parte della sua dote quando ci sposammo. Passò un matrimonio, passò una guerra e la bicicletta era sempre un mezzo ideale per risparmiare i soldi della corriera. Infatti, dalla campagna di San Bartolomeo in Bosco a Ferrara ci sono 18 chilometri, e subito dopo il secondo conflitto mondiale non si navigava nell’oro come è ovvio, del resto.

Vi parlo di Ferrara perché quasi ogni giorno gli affari mi portavano là. Avevo un socio in città con il quale procacciavo il vino sfuso da imbottigliare e rivendere. Ci davamo appuntamento sempre davanti alla cantina dove svolgevamo l’attività. Quel giorno invece ci saremmo incontrati direttamente in piazza. Là, nello slargo dopo il Duomo, dove si incontra tutto il mondo contadino: allevatori, agricoltori, artigiani.

Non avevo il lucchetto per la bicicletta e portarmela dietro non mi era comodo; quando si fanno affari bisogna essere liberi!

Pensai allora di metterla dentro l’Arcivescovado: il portone era aperto e dalla piazza potevo buttarci sempre l’occhio semmai avessi visto entrare qualcuno di sospetto. E poi non c’erano entrate secondarie su Via Canonica, affianco al Duomo; potevo stare tranquillo, nessuno me l’avrebbe rubata.

Ad un tratto mentre parlavo con il mio socio scorsi con la coda dell’occhio due uomini dall’aria sinistra: quei tipi un po’ grigi che non promettono niente di buono. Tuttavia ero tranquillo, l’entrata dell’Arcivescovado non sfuggiva al mio sguardo.

Fu una giornata abbastanza proficua: eravamo riusciti a comprare un’ottima partita di rosso ad un prezzo veramente appetibile.

Dovevamo raggiungere la cantina. Mi allungai verso l’Arcivescovado per recuperare la bicicletta. Il sapore di vino che rallegrava il mio palato divenne fiele: la bicicletta non c’era. Fu allora che mi accorsi che il passaggio su Via Canonica c’era, eccome!

Corsi incontro al mio socio:” Mi hanno rubato la biga: bisogna che faccia la denuncia”.

Mi aspettavo un “Andiamo, allora” ma il mio socio replicò:” Tino, meglio di no: non la ritroveresti mai più”. Io rimasi interdetto: il cuore fece un palpito e deglutii. Sembrava che il mio socio fosse connivente di qualcosa di losco ma sapevo in realtà che era un uomo onesto.

“Lascia fare a me” mi disse vedendo il mio cruccio, “ci penso io”.

Sapevo che Giordano abitava al quartiere San Luca, noto posto di ladri, ma questo non mi dava indizi. Spesso di “corti dei malandrini” se ne nominano tante solo per diffamare dei poveretti e per nascondere le magagne di qualcuno che vuole salvare la rispettabilità. San Luca, però, credo che fosse un quartiere poco “nobile” comunque.

Quel giorno mi toccò tornare a casa in corriera. Ero sconsolato e non poi così convinto di aver fatto bene a non denunciare il furto.

A casa mi aspettava la dolce metà pronta a dirmi, ne ero sicuro, che avrei dovuto tenere la bicicletta con me. Non sono tipo da sopportare le ramanzine ma ne fui inspiegabilmente risparmiato: “Ecco” disse e niente più. Era sicuramente molto dispiaciuta perché gliela aveva regalata il “popà” per i suoi diciassette anni. Anche se erano passati diversi anni si sa, alle cose ci si affeziona e poi… insomma, era utile e nostra, soprattutto!

Adriana non ebbe neanche una replica a scoppio ritardato. Il lume si spense.

 

Il mattino dopo la corriera mi portò a Ferrara; il lavoro mi aspettava. Quando arrivai alla cantina, Giordano mi disse subito: “Vieni con me”.

Mi condusse a casa sua. Ci infilammo nel portone e nel sottoscala mi indicò una bicicletta: era la mia!

“Grazie, ma… – “Sono mille lire” mi interruppe Giordano. “Beh, è vero che al giorno d’oggi non si fa niente per niente ma siamo pur sempre soci e buoni amici… – “È il prezzo del riscatto” mi interruppe nuovamente.

Non sapevo proprio cosa dire: mi toccava pagare la mia bicicletta come se fosse nuova. “E sia” dissi e snocciolai diverse monete in mano a Giordano. “Ora, torniamo al lavoro” mi disse bonariamente e con il sorriso sulle labbra. Ci incamminammo verso la cantina: e con le tasche più leggere spingevo la mia bicicletta, riscattata.


 

Villa Vespa

Ricordi di una governante

 

I miei canarini sono come ospiti che bussano alla porta: il loro richiamo è dolce per me che vivo sola in una casina di Via de’ Serragli, in Firenze.

Amano ascoltare la mia voce mentre tra una foglia di lattuga e l’altra, ricordo a voce alta il mio passato. Il mio passato è Villa Vespa.

È situata in Scandicci, nella morbida campagna fiorentina dove le colline si vestono di cipressi e olivi.

È situata in trenta anni della mia vita passata alle dipendenze di un generale, come governante.

Solitamente il termine governante non è di buon auspicio: zitella e acida, non è vero? Tuttavia mi posso considerare semplicemente… severa, sì, poco disposta ai compromessi. Voi capite che dirigere una casa non è poi un piacevole passatempo. E i figli, sì, i pargoli del generale Rossi non avevano certo bisogno di addolcirsi troppo col miele del “tutto è permesso”: veramente indigesto! Inoltre, capirete, un uomo di comando, un uomo d’armi, non avrebbe mai permesso troppi “picci picci”; in me aveva sicuramente trovato una buona alleata. Non dovete pensare che i ragazzi fossero messi in riga con il letto da campo sotto il braccio, no questo no, ma penso che conobbero il vero bene che consiste anche nelle rinunce. Loro avevano una vera e propria predilezione per me e questo mi fu davvero vitale.

Sicuramente devo il mio caratterino a tutto ciò che ha preceduto il mio approdo a Villa Vespa: la mia famiglia aveva bisogno che io lavorassi ed essendo la maggiore di tanti figli dovevo provvedere forse prima del tempo al suo sostentamento. Infatti il mio ruolo di governante me lo sono guadagnato sul campo; ho iniziato che ero una bambina e quindi non potevo certo mettere in riga nessuno ma un anno dopo l’altro mi sono diciamo… distinta e insomma… anch’io ho accumulato i miei gradi.

Mi mancava la famiglia, mi sentivo anche un po’ abbandonata; tuttavia mi posso considerare fortunata perché ho trovato calore a Villa Vespa. Sono cresciuta forte, trattenendo spesso le lacrime.

Ogni lavoro ha le sue difficoltà e quindi spesso si cerca di non strafare ma quando si pensa che le avventure siano solo per chi le cerca posso smentire: ho avuto più a che fare io con qualche accidente che non Garibaldi durante le sue spedizioni!

Garibaldi suona bene nella mia vita: non per niente sono stata battezzata Annita; naturalmente non faccio paragoni.

 

Bibelò. Che nome buffo, non trovate? Dolce, direi. Probabilmente il nome adatto per… una scimmia, sì, la scimmia del generale. Era un tipino allegro, dispettoso, ma anche affettuoso e forse più umano di quanto non si possa pensare.

Fuori della villa c’era una splendida fontana in pietra, grande e rotonda. Bibelò si avventurava spesso sui bordi della vasca puntando i pesci come se fosse un felino. Era fredda l’acqua, gelata; quando tentava di immergere una zampa si ritraeva subito e scappava via. Un giorno, si vede che la tentazione fu forte, la povera bestia ci cadde dentro. Ero in villa che svolgevo le mie faccende quando cominciai a sentire versi disperati che provenivano da fuori; ero allarmatissima. Lasciai andare un paio di forbici e corsi fuori. Vedevo qualcosa che si divincolava, là, nella vasca. Era Bibelò, che non riusciva a risalire sul bordo della fontana. Quando le fui vicina non si muoveva più. Con coraggio la estrassi da quella ghiacciaia e tenendola fra le braccia come un bambino la portai in casa. Presi un panno e cominciai a sfregarla energicamente perché il pelo si asciugasse e il suo corpo si scaldasse. Poi mi balenò un’idea: corsi nel salone e presi la bottiglia di grappa del generale. Ne versai abbondantemente in un bicchiere e la feci trangugiare a Bibelò. Dopo alcuni secondi la scimmia cominciò a muoversi, tremando. Aprì gli occhi e mi guardò: sentiva l’istinto di fuggire ma era troppo debole per farlo. Sembrava capire, anzi ne sono convinta, che le avevo salvato la vita. Quando si fu ripresa la lasciai andare: barcollava come chi ha bevuto un po’ troppo.

 

Non potete immaginare quante persone lavorassero a Villa Vespa: penso la si potesse considerare una città in miniatura. Contadini, giardinieri, artigiani, camerieri e… governante. Posso assicurarvi che nessuno si è mai annoiato!

In tanti ettari di terreno credo che non vi stupirete se vi dico che ci scappò di mezzo anche una… faina. Non sapevo neanche cosa fosse una faina ma lo scoprii ben presto sempre grazie al mio spirito da crocerossina.

Era sabato e stavo dedicando un’ora al ricamo per terminare il centrotavola che avrebbe fatto bella mostra nel salone della villa. A un tratto sentii qualcosa cadere nell’acqua della fontana e pensai che Bibelò non fosse paga della precedente immersione; corsi verso la vasca e vidi una strana bestiola lunga con il muso da topo divincolarsi nell’acqua. La scena era penosa: con uno slancio presi a due mani l’animale e corsi in casa. Un panno fu subito pronto e naturalmente anche la grappa del generale: sembravano avere effetti miracolosi! Fatto sta che la bestia si scosse un po’, scese dal mio grembo e scappò via. Tornai fuori e vidi corrermi incontro Gerolamo, il giardiniere. “Signorina, non l’ha mica vista, lei, una bestiola, che la sarebbe una faina? Sì… caccia i polli, morde ma la sua pelliccia l’è proprio bona!”

“Non sarà mica quel tipo di bestiola un po’ affusolata, col muso da topo e dal pelo folto e bruno?” – “Sì, sì. L’ha vista?” – “No! Di qui non l’è proprio passata!”

Gerolamo se ne andò un po’ deluso e io scoprii che quel giorno avevo salvato una faina, un po’ carogna forse, ma con una pelliccia…

Ne avrei da dire: in quella vasca un giorno cadde anche il figlio del contadino e il povero Bibelò rischiò la pelle una seconda volta punto da uno sciame di vespe, ma non vorrei annoiarvi. Anche allora, ne sono testimone diretta, tutto andò per il meglio. Forse non sono avventure poi così straordinarie ma vi assicuro che lì lì, sul momento, non sono così male!

Sono ricordi di una vita, una vita che mi ha portato via da Villa Vespa solo quando mi sono sposata con Sandro. Povero Sandrino mio! Devo ammettere che ho diretto la mia casa come quando ero a servizio: e la mia esistenza ha continuato a essere scandita dall’orologio da tasca che il generale Rossi volle donarmi… povero Sandrino mio!


 

 

Riposo

 

L’erba mi faceva da giaciglio in quel fresco tramonto. Le nuvole spruzzavano di panna il cielo azzurro, mentre a Ovest il sole striava di rosso la volta che si perdeva dietro le montagne.

Ero lì, sola, a contemplare colori e forme del creato e mi sentivo totalmente avvolta, leggera, viva.

Ci sono pochi momenti in cui davvero ci si ferma e si sta in silenzio davanti al mondo. Avevo deciso che quell’istante fosse proprio una di quelle rare volte. Era stato forse un caso ma la natura aveva deciso di rapirmi e io non avevo intenzione di fuggire.

Riposavo come i soldati seppelliti nel cimitero del bosco. Pensavo ai loro corpi inermi e straziati che non soffrivano più perché avevano lasciato cadere le armi e tornavano a casa; là fra le montagne rivestite di verdi pini, là nella terra morbida e scura. I loro nomi sulle croci sono strofe di in canto che passa come il vento nel dedalo dei sentieri del bosco; non è inquietante ma dolce, invita al silenzio, all’ascolto della natura, al sentore dei suoi profumi. È una preghiera corale a cui si sono uniti i prigionieri che non hanno potuto fare ritorno alla loro terra natia ma che sono stati accolti nella Valle: “Franz, Ivan, Jacob…Boris, Elia, Hans…pace.