Sean Checchia - Poesie

La Sciamana
(a Hildegard Von Bingen)

…Silenzio…
Rumore a te percepibile
Sentivi ciò che sentiva il vento
Tra tutte eri la più sensibile
Trasformando la natura in sentimento

…Sussurro
Vedevi la verità dentro la bugia
Ma cos’è la bugia se non una maschera vera
E maschera è uomo, perso nella via
E te scrutavi lui come il sole della sera

Canto
Donna vissuta ancor prima di vivere
Hai assimilato la sapienza degli spiriti
E come loro la musica era il tuo essere
Il ponte dei mondi, oltre i mortali limiti

Ora, spiriti e natura cantano in tuo onore
Perché con passione facevi tu per loro
E uomini e donne ricordano il tuo amore
E tutti insieme trasformano il canto in Coro!

“LODE ALLA SCIAMANA”

 

 

 

Il Fiore di un poeta

Odo un rumore silenzioso
nudo, come passi sulla strada

Ancora una volta sento
la notte, calma e muta

Cosa c’è oltre me stesso?
Il mondo grida dentro,
dentro percepisco nausea.
Navigo nell’ubriaca notte
ma il cuore sobrio sospira

Una nuvoletta esce dalla bocca.
Consapevole d’essere vivo,
di creare fumo non nocivo

Fiore, vieni al più presto,
il tuo profumo mi manca.
Manca a questo freddo,
a questa notte gelida.
Mi manchi come sempre,
come ogni inverno mio

Torno in questa buia casa,
buia, nessuno mi aspetta.
Troppo sono stato
a passeggiare fuori
nell’immenso io, oscuro

Sii lanterna per noi stessi.

Ricorda l’affetto immenso
che tutti proviamo nella notte

Perché la notte è l’individuo
fuso con il cosmo

Alza lo sguardo, Fiore
e guarda le stelle con me.
Appoggiati incantato
sulla spalla del conforto
che porta sollievo ai petali

Dormo, riposo gli occhi,
che stanchi hanno visto
troppe belle e troppe brutte notti

Ma il fiore non manca mai
nel cuore di un poeta

 

 

A tutti i padri

Tu che dicesti promesse possibili ma impossibili,
guarda ora il bimbo cresciuto a cui hai mentito
Tu che eri l’appiglio, ridente figura modello
Tu che gli hai falsamente sorriso invece di sgridarlo
Hai creato caos tra il legame assoluto di padre e figlio
Hai confuso un giovane uomo coi tuoi freddi, caldi abbracci
E quello stesso giovane non sa se odiarti o amarti
Non sa se curarti o ferirti…

La colpa è del sangue che ci lega come filo rosso
E rosse sono le lacrime di un viso tumefatto
L’orrendo riflesso di un’anima spezzata e affranta
che trova la luce solo nelle ore più buie della notte
E notte è il cuore di ogni figlio stuprato psicologicamente
Mente come la menzogna di un uomo che ha vissuto mentendo
Nella notte grido in silenzio l’ingiustizia di una vita serena
Nel buio viaggio nella zona più nera che non avvelena
Della mente che mente nella menzogna di un uomo
Un uomo che nella menzogna mente alle mente
Al figlio che nella mente affannosamente cerca verità
Cerca un litigio fatto con amore, fatto per rafforzare
Amare, non fingere di amare, non belle parole
Parole, parole, soltanto belle parole, sole

A tutti i padri, sentite la predica di un figlio senza figli
Non fate gli sciocchi, siate più maturi, ma non troppo
Dosate le parole ai fatti, quelli che lasciano il segno
Un pegno che è fiducia, un gesto che è rapporto

A tutti i figli, ascoltate la predica di un figlio senza padre
Non fate i cocciuti, siate più pazienti dei padri ottusi
Pazienti e consci di essere diversi

Di essere due menti; Due cuori; Due persone

 

 

Pensieri leopardiani

Perché vita?
Perché uomo?
Perché bramo la felicità illusa?

Ho visto un precoce Leopardi nello specchio,
dal bagno di casa che non m’appartiene
Mi ha guardato con occhi d’uomo stanco e vecchio,
che comprende le domande sul male e il bene

Sulla vita e sulla morte, lasciano solchi sulla carne
Mi sbranano come cani famelici, quasi euforici
E le risposte a domande fatte non possono che non dare
Perché se la vita è poco e nulla, non ne siamo anemici

Questo sangue che sgorga scopre la passione a fiotti. A fiotti
ogni pensiero uno schizzo rosso sul telo bianco della vita
Formano un quadro di natura morta carico di succosi frutti
il cui succo bagna i corpi percossi da una spina di rosa appassita

Tu che vedesti l’oltre la siepe, guardi il nudo me stesso
Io vedo te, come un gemello separato dalla nascita
e piango felice, perché hai sofferto le stesse soffocanti sofferenze

M’illudo nel masochismo come inconscio scopo di vita
Perché sono poeta come tutti i poeti senza più un nesso
E desidero una via per non fare sparire le mistiche credenze

Perché vita
Perché uomo
Perché amo l’infelicità sadica

 

 

 

Portiere notturno

Cos’è l’esistenza?
È una serie di eventi
Concatenati
Legati dal flusso
di legami sconosciuti

L’acqua della laguna
piatta
Mostra il riflesso
di un uomo sognante
che sogna di essere
una persona che vuol
vivere
Osservare
saggio e sensibile

Con la cravatta
avvolta nel collo esile
Ti copri converso
Parlando con sconosciuti
Scambiando pensieri
Ricevendo consigli

E non c’è minuto più
bello e importante
che sentire

Parole nel vento
nella tarda calma
della Laguna

Cos’è allora l’esistenza?
Un’anima?
Un ego?
Niente di tutto ciò

Non è che
parole pregne
di sentimenti legati
dal filo invisibile
della vita

 

 

 

Maturazione d’amore

Il calore del nonno
La quiete della mamma
L’amore della famiglia

Non sono mai stato così
Vivo, pensieroso
Poeta nell’animo

Uno strano torpore
Invade piano il mio cuore

Che sia il me del passato?
Mi sta bussando
Nella porta della mia anima
Mi sta chiamando
Vagito di un neonato

La nascita, o la crescita
Lo sviluppo del mio essere

Stanotte la Luna è tutta per me
La musa della mia fantasia più pura
Possa cullarmi in un sonno dolce
Di sognare di nuovo quel calore
Che forza mi dà nel mio cuore

E giorno e notte mi guiderà nel mio viaggio
Il viaggio della mia vita

 

 

 

Nevica immenso

Con morbosa fretta scendi
Ma leggiadra ti posi su di me
Toccandomi nel profondo
Nell’animo innamorato nella notte

Osservo il tuo modo di fare

Copri, inondi, poi ricopri ancora
Dando alla terra un vergine pallore
Come due vergini ingenui, bramosi,
alla prima notte nuziale
Intrecciamo l’amore per il mondo
Uniamo i nudi corpi di terra e cielo
Lasciando il bianco del lenzuolo
sul letto del fiume che scorre
silenziosa, nella notte tinta di neve

Lungo il cammino scorgo un albero
L’albero della vita culla i fiocchi
Osserva il fiume, guardingo, attento
Possa mai un’oca spiccare il volo da lui
e trovare riparo in quegli spogli rami
Quei rami robusti, ricoperti di bianco
Candore che illumina il nostro giardino
Il giardino personale, unico e il solo, per noi
Ora ricoperto di vergine e casta neve

Un resettare della vita
Carta bianca, da qui si inizia a scrivere
Scriviamo solo i momenti salienti

Della vita fatta di incontri
Fatta di amore, un amore puro

Che ti scalda
In questa notte di fredda neve

Orsù, scriviamo. Sogniamo quell’amore

Ricorda la notte ricoperta
d’oro bianco zecchino
Ornamento del nostro giardino

Immenso

 

 

 

La notte celata di Salamacis

Ore 23:00, città di Salamacis.

Una leggera brezza primaverile accompagnava con il suo canto le strade deserte della cittadina, celebre
per la sua ricchezza di ciliegi e di fiori splendidi come stelle in un cielo verde.

La leggenda narra che avessero la capacità di comunicare con il cuore degli esseri umani e con gli spiriti,
e fu per questo motivo che la gente del luogo denominò Salamacis, “la città parallela”. Un luogo che
fungeva da ponte tra i vari mondi. Ma, con il passare dei secoli, l’umanità, avida di potere e gloria, aveva
dimenticato tutto. Della magia, degli spiriti e della bellezza che offriva la natura. Aveva abbandonato da
tempo la via spirituale, attaccandosi di più su valori effimeri come il potere, il denaro, la bramosia e i
conflitti per uno scopo egoista. Per secoli distrussero e costruirono, demolirono e crearono, e tutto ciò
che rimase dei ciliegi e degli splendidi fiori della città fu solo uno piccolo spazio dedicato per scopo
turistico. Erano divenute solo leggenda, nulla di più. Solamente delle semplici attrattive. Ma non per
questo hanno perso il loro potere, solo gli esseri umani hanno perduto la capacità di vedere oltre il
razionale, oltre la materia.

Le strade di Salamacis, come pure la natura circostante, sembravano dormire in un sonno profondo e
senza sogni, tranne per una coppia di giovani, le quali fievoli voci armonizzavano il lieve vento di
primavera.

Bisbigli e risate soffocate permeavano l’ambiente. La città era tutta per loro. Erano due ragazzi prossimi
alla vita adulta e il giovane stava accompagnando la sua compagna a casa, parlando della bellissima serata
passata insieme.

«Ma dovevi proprio metterti a cantare davanti a tutti?» disse lei, ridendo.

«E ti lamenti? Una scommessa è pur sempre una scommessa! E ho vinto io. La prossima volta scelgo io
dove andare a mangiare. Comunque, sono stato bravissimo!»

«Se lo dici tu. Ancora un po’ e la gente sarebbe uscita dal locale.»

Il ragazzo, in risposta, roteò gli occhi seccato e si torturò con la mano i capelli spettinati, fino a che non
arrivarono davanti la casa di lei, poi entrambi si guardarono in silenzio per qualche minuto. Non servivano
parole per esprimere ciò che stavano provando in quel momento, mentre i loro occhi si incontrarono,
come piccoli meteoriti in rotta di collisione. Un semplice sguardo era più che sufficiente per esprimere il
loro amore reciproco.

Improvvisamente, lui si avvicinò al viso di lei. Le labbra quasi si sfioravano, i battiti del loro cuore si
accelerarono e dei loro respiri non vi era più traccia, erano intrappolati dal momento.

Ma proprio mentre tutto si era fermato, un fievole vento solleticò le calde orecchie della ragazza.

… Non mentire… Non mentire…

Sussultò non appena sentì quelle parole e istintivamente spinse via il ragazzo, lasciandolo sorpreso dalla
strana reazione.

«Ehm… Forse è meglio che rientri in casa. Non vorrei che mio zio ci vedesse.»

Il giovane annuì piano e le sorrise in un saluto. Sapeva che lei stava mentendo, che stava nascondendo
qualcosa, ma mise da parte i tormenti che gli punzecchiavano la testa, seguendo con lo sguardo la sua
amata che rientrava nella sua dimora.

Nel frattempo, la ragazza corse direttamente in camera sua e chiuse la porta a chiave. Appoggiò la testa
sul legno laccato di bianco e il respiro divenne sempre più pesante. Le gambe cedettero dalla frustrazione
e pianse in silenzio con le mani sui suoi capelli rossi, non poteva più sopportare tutto questo. La voce
che aveva sentito aveva ragione, stavano insieme da un anno ormai, non poteva permettersi ulteriori
menzogne.

Con la testa che pulsava di pensieri, si diresse verso il bagno e aprì l’armadietto per prendere lo struccante.
Si sciacquò il viso nel lavandino e si guardò allo specchio. Le sue lunghe ciglia ornavano gli occhi color
nocciola e il suo viso sottile accentuava la sua femminilità. I lunghi capelli scarlatti coronavano tutta la
sua bellezza. Lacrime scesero copiosamente alla vista del suo riflesso e con uno scatto d’ira si tirò i capelli.
Nessuno poteva immaginare che fosse solo una parrucca e che sotto di essa si celavano dei corti capelli
neri.

«Sono uno stupido…» Disse in un sospiro disperato.

Raccolse la finta chioma scarlatta e la lanciò in un angolo della stanza, quasi a voler cancellare il solo
ricordo della sua esistenza.

Nel frattempo, il compagno stava avviandosi verso casa, i pensieri fluivano come una fiumana distruttrice.
Stava ripensando a quello che era accaduto prima. Aveva forse sentito anche lei quella voce? Quindi non
era solo frutto della sua immaginazione? Non poteva saperlo. Forse era il senso di colpa che lo stava
logorando dentro, è impossibile il contrario. Probabilmente lei era stanca e voleva solo andare a dormire.
Scosse improvvisamente la testa. Esatto, erano entrambi stanchi, tutto qua, non serviva tormentarsi per
questo.

Dopo un po’ si rese conto di aver raggiunto il vialetto di casa. Aprì la porta e si diresse in camera da letto
con calma. Fece un respiro profondo e si tolse i vestiti con estrema pigrizia. Non appena si tolse la
maglietta, delle candide fasce le ricoprirono l’addome. Tirò un sospiro di sollievo quando se le tolse, ora
poteva respirare più liberamente. I suoi seni stavano crescendo e sapeva che da lì a poco non sarebbe più
riuscita a nasconderli.

«Sono una stupida…» si disse mentre si buttava nel letto morbido.

… Non mentire…

 

 

 

Il Gatto che voleva essere Volpe

C’era una volta un bosco magico, dove gli animali ragionavano e pensavano come gli esseri umani. E in
questo luogo vi abitava un gatto, tanto bello quanto curioso e ingenuo, di un manto oscuro come la notte.

Sebbene le femmine della sua specie cadessero ai suoi piedi, desiderose di essere loro amanti, il grazioso
felino era follemente innamorato di una bellissima e seducente volpe. Era talmente bella, con la sua
lucente chioma cremisi, che il gatto non ci pensava due volte a corteggiarla coi suoi poetici e melodiosi
miagolii. Ma lei lo ignorava costantemente, troppo spensierata e avventurosa com’era. Preferiva di gran
lunga scorrazzare tra gli alberi e andare a caccia di lepri, o sonnecchiare soddisfatta nella sua umile tana,
sotto il grande pino, piuttosto che cedere alle insistenze di quella palla di pelo. Questo, però, non lo fece
cedere, e continuava audacemente a cantare poesie in suo onore.

«Oh, mia adorata Volpe! I tuoi occhi sono il mio sole. Sei il contrario del mio essere. Io sono la notte,
sono il freddo e il tetro. Te sei il giorno, lo splendido calore del mio cuore. La tua voce (oh, la tua splendida
dannata voce)! Così limpida e cristallina come l’acqua in cui mi vorrei immergere. Come posso, brutto
essere quale sono, essere all’altezza della tua compagnia? Cosa posso fare per farti mia? Oh, mia Volpe!»

Il gatto mise tutta la passione e il suo amore struggente nei suoi miagolii. Solo la mente astuta e calcolatrice
della volpe non poteva cogliere il vero sentimento celato in quelle mielose parole. E proprio in quel
momento, infatti, decise di farla finita e di levarselo di mezzo una volta per tutte.

Così, con verso suadente e disperato, latrò: «Povera la mia vita ingiusta! Vorrei tanto stare con te, ma noi
due apparteniamo a due specie completamente differenti.»

«Il mio amore non ha razza o colore! Stai tranquilla, amore mio. Non sarà certo questo futile motivo a
ostacolare la nostra unione.»

“E’ proprio insistente, la palla di pelo” pensò lei, scocciata. Poi però riprese, più decisa.

«Purtroppo, non saranno i sentimenti a cambiare la situazione. Ma se proprio sei determinato ad avermi,
non ti resta che diventare una volpe proprio come me.»

Il gatto la interruppe e rise, incredulo. «Ma questa è pura fantasia! Non è possibile trasformarmi da gatto
in volpe. Come si può fare? No, è totalmente impossibile.»

Ma la volpe non faceva caso alla sua titubanza, e continuò il discorso. «Invece è possibile. Esiste un luogo,
oltre le montagne, dove i desideri si avverano e prendono forma! Ti basterà bere l’acqua miracolosa nella
fonte magica che si trova proprio là, dove nessuno è mai osato andare. È un viaggio che solo gli impavidi
possono fare. Se mi ami per davvero, dovrai affrontare pericoli di ogni genere. Sei disposto a fare così
tanto per me?»

Al gatto non serviva rispondere. La guardò un’ultima volta e poi, spinto dalla curiosità e dai sentimenti,
corse verso le montagne.

Passarono giorni, mesi, anni. Aveva affrontato parecchi pericoli, scalato pareti rocciose, superato con
fatica il freddo dell’inverno e il caldo asfissiante dell’estate. Aveva visto terre che nemmeno le parole più
comuni all’uomo possono descrivere a pieno. Ma, del luogo magico, nemmeno l’ombra. Ciononostante,
si rifiutava di ammettere che la volpe l’aveva ingannato e il suo spirito non vacillò. Avrebbe trovato a tutti
i costi la fonte miracolosa.

Dopo altre settimane, aveva superato le montagne e davanti a lui si estendeva una immensa pianura. E
fiori di ogni tipo e colore dipingevano il telo d’erba. Nessun albero, anzi no, ce ne era solo uno, grande
quanto cento alberi messi insieme e molto antico. I suoi enormi rami erano fitti di foglie opache, in
contrasto con il colore luminoso dei suoi frutti, che in lontananza parevano mele. “Di certo non passa
inosservato”, pensò il gatto.

Non se ne era ancora reso conto ma, mentre abbassava lo sguardo verso le radici, un grosso e maestoso
lupo grigio stava dormendo sotto l’ombra dell’albero. Ma non fece in tempo a fare un solo passo, perché
in un lampo due grandi occhi gialli lo stavano trapassando di parte in parte. E un possente latrato lo prese
di soprassalto. «Chi sei? Come osi entrare in questo luogo sacro? E non ti azzardare a dire menzogne, ne
percepisco la puzza. Se non vuoi che ti sbrani, dammi una motivazione valida abbastanza per non farlo.»

Il gatto era spaventato, ma non fuggì. Di certo non poteva scappare dopo tutto quello che aveva visto e
passato. “Non devo cedere alla paura”, si disse.

«Non voglio arrecare danno a nessuno. Sono solo di passaggio.» Il lupo inarcò il sopracciglio. «E che ci
fa un cucciolo tutto solo così tanto lontano da casa?»

“Non sono un cucciolo!” voleva dirgli, ma si trattenne. «Sono qui per trovare la fonte miracolosa che
trasforma i desideri in realtà.»

«Perché?»

«Per amore. Sono innamorato di una volpe.»

D’un tratto, lo sguardo severo del lupo si addolcì, e una risata esplosiva fece posto al ringhio minaccioso
di poco fa. Si calmò subito dopo e lo guardava come se dovesse scrutarlo fino in fondo. Voleva capire se
lo stava prendendo in giro o meno. E quando si accorse che il gatto era serio al riguardo, fece un guaito
sommesso e gli parlò quasi divertito. «Era da parecchio tempo che non ridevo così. Ora che ci penso è
anche parecchio tempo che non parlavo con qualcuno.»

Il lupo si stiracchiò e, dopo aver scrollato la chioma argentata, si alzò a quattro zampe e continuò a parlare.
«Mi dispiace distruggere le tue speranze, mio ingenuo cucciolo, ma conosco ogni centimetro di queste
terre. Non esiste nessuna fonte con poteri simili.»

Mentre lo ascoltava, il gatto per la prima volta era affranto. Non ci poteva credere. “Sicuramente non era
sua intenzione! Qualcuno le avrà detto una bugia.”, si convinse. Ma non ebbe tempo di reagire, perché il
lupo non aveva finito di parlare.

«Piuttosto, raccontami del tuo viaggio. Sono solo un umile lupo stanco e vecchio che ha solo voglia di
una bella storia per far passare il tempo. Sono tutto orecchie, cucciolo. Puoi sederti accanto a me, se ti
va.» E il gatto non si fece pregare, stanco com’era. Entrambi di adagiarono sul manto erboso rinfrancati
e il piccolo felino raccontò del suo viaggio molto volentieri, senza trascurare i momenti belli e quelli
brutti. Gli raccontò della sua amata e di come ci teneva a lei. Al fatto che avrebbe fatto qualsiasi cosa e
sarebbe andato in lungo e in largo per amor suo. E il lupo lo ascoltava come un bimbo ascolta un
cantastorie. Non si era distratto un attimo e non si faceva sfuggire qualche risata, quando sentiva le parole
mielose di quel gatto innamorato. E, finito il racconto, il giorno era diventato notte.

«Non so se ammirarti per la tua audacia o schernirti per la tua ingenuità. Ma una cosa mi è chiara. Sei una
creatura con una grande forza di volontà.»

Quelle parole erano calde e accoglienti per il gatto. Cominciava a piacergli quel vecchio lupo solitario.

«Non c’è nessuna fonte miracolosa, è vero. Ma penso di poterti aiutare in qualche modo.» Continuò.

«E come?»

Il lupo alzò il muso verso i rami del grande albero. «Sei fortunato, cucciolo. Li vedi quei frutti?» Il gatto,
in risposta, guardò tra le foglie. Grazie ai suoi occhi da felino, riuscì a scorgere dei frutti che da lontano
sembravano mele, ma non lo erano. Erano più piccoli e tondi, quasi a formare un cerchio perfetto. E
brillanti, come se la luce provenisse dall’interno.

«Quando la luna si mostrerà per intero, questi frutti acquisiranno il potere di esaudire un solo desiderio a
chi vorrà mangiarli. Se attenderai altri tre giorni, tutti i tuoi problemi si risolveranno. In cambio, ti chiedo
solo di fare compagnia a questa povera vecchia carcassa. Che ne dici?» Ma il lupo sapeva già cosa avrebbe
risposto il suo nuovo e piccolo amico. Quest’ultimo, infatti, fece le fusa per la contentezza e accettò di
buon grado la proposta.

Nonostante il poco tempo passato insieme, in quei tre giorni il gatto imparò tante cose dal vecchio lupo
e ascoltò, affascinato e curioso, le storie della sua vita passata. Una storia fatta di amori, di delusioni, di
rinascite e crescite. Raccontò di come fosse diventato guardiano dell’albero e delle terre di confine e della
grande responsabilità nel proteggere tutto dai pericoli esterni.

«Non ho rimorsi o rancore. Ho vissuto una bella vita. La natura è stata la mia compagna e la mia amante.
Mi ha protetto e io ho protetto lei. Questo, per me, è amore. Ho avuto tante delusioni, ho sbattuto molto
la testa e ho sofferto inutilmente, ma alla fine ho trovato un equilibrio e passo le giornate a gioire per le
piccole cose.» disse il lupo, schioccando la lingua, soddisfatto di quelle parole.

Alla sera del terzo giorno, la luna piena illuminava la distesa floreale e i frutti erano più luminosi di prima.
Il lupo e il gatto guardavano il cielo, illuminati da quella luce magica e candida.

«Il momento è giunto. Attento, cucciolo.»

Un possente ululato uscì dal muso innalzato del lupo e permeava l’aria facendola tremolare. E alcuni
frutti caddero per terra con un piccolo tonfo. Brillavano sempre di più.

«Che cosa aspetti? Mangiane uno.» Incitò il lupo. Il gatto annuì. Prese con la zampa il frutto magico e lo
mangiò, Un’esplosione di sapori indescrivibili aveva inondato il suo palato e una forte energia lo invadeva
su tutto il corpo. “Finalmente, è arrivato il momento”, pensò. Chiuse gli occhi. La mente aveva focalizzato
il suo desiderio e fu come se il suo pelo iniziasse a prendere fuoco, inondandolo. Ma non sentiva dolore,
al contrario. Era un caldo molto piacevole. E, finito l’effetto, il desiderio si avverò. Il lupo, al posto del
gatto nero, vedeva una bellissima volpe con il colore del sole al mattino. Una volpe che saltava di gioia
immensa.

«Evviva! Evviva! Sono una volpe! Grazie, Lupo. Grazie.»

«La tua è stata una scelta importante. Mi rallegra vederti felice, ma ricordati che non puoi più tornare
indietro. Adesso devi tornare a casa. Vai avanti e sii felice.»

Si guardarono a lungo. Ormai avevano legato e sapeva che non si sarebbero mai dimenticati. La volpe,
quindi, leccò affettuosamente il muso del vecchio lupo. Poi si girò di scatto e corse verso la via di casa,
mosso dalla voglia di rivedere la sua amata. Non vedeva l’ora di mostrarle le sue nuove sembianze. Corse
senza sosta, come se un grande potere gli permettesse di essere più veloce e più forte di qualsiasi altro
gatto e di qualsiasi altra volpe. E, nel giro di poche settimane, raggiunse il bosco dove era nato e cresciuto.

Rivedere casa lo fece gioire, ma non si fermò. Voleva andare a vedere il suo amore. Quindi si diresse
verso la sua tana, sotto le radici del grande pino, e latrò: «Volpe! Volpe! Sono tornato!»

«Chi sei?» disse qualcuno da dentro la dimora. Ma non era una voce suadente e giovane, era una più stanca
e matura. E seguivano dei guaiti capricciosi di cuccioli. «Chi è, mamma?»

«Nessuno, tesoro. Torna a dentro.» La volpe adulta squadrò il nuovo arrivato, allarmata. «Allora, chi sei?»

«Sono io, Gatto. Ho viaggiato molto, ma alla fine sono diventato una volpe. Ma a
quanto pare sei diventata mamma, nel frattempo. Congratulazioni.»

Non capiva cosa provasse per l’esattezza in quel momento, ma su una cosa ne era certo. Si sentiva deluso.
Dannatamente deluso. “Fa male, maledizione.”

«Ma cosa dici? Stai mentendo. Conoscevo, sì, un gatto, tanto tempo fa. Lo imbrogliai, inventandomi una
storiella per levarmelo di dosso. Ero una giovane volpe arrogante e stupida, in quei tempi, e non sono
orgogliosa di ciò che ho fatto. Quindi, se è uno scherzo, non è divertente.»

Non poteva crederci. Era assurdo. Non rispose nemmeno. Si girò e corse via, ferito. Scappò di casa,
conscio di non poterci più vivere. Tanto nessuno lo avrebbe riconosciuto. Si sentiva così stupido. “Devo
andare da Lupo.” Pensò, speranzoso e disperato.

Aveva corso come un matto e come tale latrava di rabbia e delusione. Non poteva tornare indietro. Non
poteva fare niente. Voleva solo andare dal suo amico. Arrivato a destinazione, però, del lupo non vi era
traccia. Nemmeno dell’albero. «Vecchio lupo!» Latrò, senza ricevere risposta.

Le lacrime gli rigarono il muso e si mise a piangere sommessamente, si sentiva totalmente solo. Perso nel
suo dolore. Una lacrima cadde nel terreno dove c’era una volta il grande albero e non poteva credere a
ciò stava vedendo. Da dove era caduta la lacrima, spuntò un piccolo germoglio. La Volpe smise di
piangere e ricordò le parole dell’amico. “Vai avanti e sii felice.”

Esatto. Doveva andare avanti. Non serviva covare odio e servare rancore. Doveva rialzarsi e gioire per le
piccole cose. Piccole come il germoglio che aveva davanti, che si sarebbe preso cura e che lo avrebbe
protetto da tutti i pericoli. “Vai avanti e sii felice”, si ripeté.

Fu così che decise di restare in quella pianura, rannicchiato vicino a quello che sarebbe divenuto il nuovo
albero. Che gli avrebbe fatto da ombra e protetto insieme a questa splendida terra, divenendo il nuovo
guardiano. E visse felice e senza rancore.

 

 

 

La ragazza senza passato

Una luce. Poi buio. Infine, silenzio.

La ragazza aprì delicatamente gli occhi dopo un lungo e indeterminato sonno. «D-dove mi trovo?»
Questa è la sola cosa che uscì dalle sue labbra, in un sospiro mozzato. Intorno a lei c’era il buio,
un’immensa e spaventosa oscurità, e solamente una fresca brezza l’accarezzava in viso, mentre l’erba
l’accoglieva in un morbido appoggio, come per rassicurarla che sarebbe andato tutto bene.

Chiuse gli occhi, cercando qualcosa nei meandri della sua mente. Un frammento di memoria, un semplice
ricordo del passato, ma per quanto si sforzasse non ne ricavò nulla. “Io sono… Io sono… Chi sono?”
Continuò a ripetersi col pensiero, mentre porgeva lo sguardo verso il cielo, vuoto e senza luce.

Poi, con il cuore che le batteva forte, lentamente cominciò ad alzarsi da terra e si guardò intorno. Tutto
ciò che riusciva a scorgere era il nulla più totale. Dopo poco tempo, però, la vista cominciò ad abituarsi
all’ambiente circostante e riuscì a vedere gli alberi intorno a lei. Solo che gli unici che erano integri erano
più in là, mentre quelli più vicini erano bruciati, o proprio spariti, con solo le radici che testimoniavano
la loro esistenza. Aloni di fumo avvolgevano la ragazza spaventata e confusa, non poteva sapere cosa
fosse accaduto, mentre era in stato d’incoscienza.

Raccolse tutto il coraggio che aveva in corpo e decise, comunque, di procedere a tentoni, sperando che,
prima o poi, avrebbe raggiunto un luogo più sicuro. Non sapeva nulla di quel posto, non sapeva nemmeno
come ci fosse finita. Ma, soprattutto, chi era lei? Non lo sapeva.

Andò avanti, di albero in albero, fino a che non si arrese e cadde in lacrime. Strappò l’erba con rabbia e
frustrazione, e gli occhi si gonfiarono per il troppo piangere. “Non è giusto! Come diavolo ci sono finita
qua? Perché non ricordo nulla?” Continuò a rimuginare, senza, ovviamente, trovare risposta.

D’un tratto, un brivido la percosse e l’istinto le disse di guardare in alto. Un lampo lucente tagliò il cielo
e la ragazza sussultò dalla sorpresa. Seguì la luce con lo sguardo e, al di sotto di essa, riuscì a scorgere un
sentiero, tra gli alberi. Sorrise, come non aveva mai fatto. Aveva trovato una via verso la speranza e non
ci pensò due volte che si avviò per quella strada, con passo deciso. Ormai il fascio luminoso era sparito,
ma nella sua testa aveva focalizzato tutto, non si sentiva più così disorientata. Ma, proprio mentre
camminava lungo il percorso, cominciò a percepire la netta sensazione di essere osservata. Accelerò il
passo, autoconvincendosi che fosse solo frutto della sua paura, che la sua immaginazione l’avesse
concretizzata. Però la sensazione non sparì e divenne sempre più intensa, quasi a trapassarla di parte in
parte. E fu in quel preciso momento che sopraggiunse un mormorio, quasi percettibile.

«Finalmente! È qui!» disse una voce lugubre, di una malizia velata, in un gorgoglio famelico. E la ragazza
si raggelò, non riuscì nemmeno a proferire parola, per quanto spaventata era in quel momento. Poteva
solo correre. E lo fece, mentre altre gelide voci si unirono alla prima che aveva sentito. «L’aspettavamo
da tempo, finalmente!» mugolavano, sogghignando come animali. «È lei! È lei! È giunto il momento!»
Sapeva per certo che non avevano buone intenzioni. Non si guardò nemmeno indietro, anche se, in
fondo, la tentazione di scoprire chi fossero era molto forte.

Continuò a correre, conscia del pericolo in vista, fino a che, a mano a mano che avanzava, riuscì a
intravedere davanti a lei una struttura indefinita. I suoi occhi brillarono per la contentezza. “Un rifugio!”
Pensò, vittoriosa. Con gli occhi ormai abituati a vedere al buio, notò che l’edificio era una torre in pietra,
con una piccola porta di solido legno che fungeva da entrata. Con il cuore alla gola, non appena ci si
trovò davanti, aprì la porta e la richiuse con ferocia, così tanta da poter sentire il rumore assordante che
aveva provocato dietro di sé. Ma poco importava, perché le voci non si fecero più sentire. “Sono al sicuro,
per il momento” Si rassicurò, respirando profondamente per ristabilirsi dalla corsa. Non appena si riprese
un poco, si guardò intorno, curiosa. Purtroppo, l’oscurità all’interno della torre ingannava la sua vista, ma
poteva intuire che era circondata da strane incisioni, le bastò tastare la parete per confermare la sua teoria.
Non poteva leggerli anche se, molto probabilmente, non ci sarebbe comunque riuscita, visto che non
sapeva nemmeno se sapesse farlo. Scosse la testa e proseguì oltre, col desiderio di comprendere di più
quel luogo. La sala era molto ampia, ma non riusciva a scorgere le scale per andare in cima. Non sapeva
bene il motivo, ma dentro di sé percepiva quel luogo come un posto conosciuto, come se dei ricordi
profondi volessero riaffiorare nella sua testa. Sentiva come un tepore in tutto il corpo, come se stesse per
uscire una risposta. “Questo posto…” Ma non poté continuare, perché delle risate animalesche avevano
preso il sopravvento, e intorno a lei tantissimi occhi color cremisi la stavano squadrando da cima a piedi,
come a voler capire quale parte del suo esile corpo volevano appropriarsi. Le mancò il respiro, dal terrore.

«Non puoi scappare! Non puoi scappare!» Urlarono in coro. «Ormai sei nostra! Non puoi fuggire!»
Continuarono. Tutte quelle ombre stavano esultando vittoriosi, ma la ragazza notò che uno era silenzioso
e la stava fissando in profondità, dritto negli occhi. Non erano minacciosi, anzi, erano come rassicuranti.
Anche se in cuor suo pensò fosse solo un inganno della sua mente, un modo futile per trovare una minima
speranza di salvezza. Sapeva benissimo che era spacciata, oramai.

No, non poteva accettare quella fine, non senza aver avuto delle risposte. Ritrovò quel poco di coraggio
che le era rimasto, e urlò con tono deciso: «Chi siete? Che cosa volete da me?» In risposta, solo risate di
scherno. Nient’altro. Allora la ragazza chiuse gli occhi, in segno di resa. Ma, d’un tratto, uno strano calore
la pervase e, sempre tenendo gli occhi chiusi, socchiuse le labbra come per intonare una sorta di preghiera,
ma dalla sua bocca non uscì parola. Il calore, però, si fece più intenso e, non appena riaprì gli occhi,
intorno a lei una luce accecante la stava proteggendo. Le ombre, che nonostante la luce rimanevano tali,
non ridevano più. Al loro posto vi erano solo urla di terrore e sgomento. I più vicini si erano quasi
ustionati per aver solo provato a sfiorare quel fascio luminoso. Nessuno di loro osò riavvicinarsi.

Nonostante quel misterioso potere la stesse proteggendo, la ragazza sentiva comunque che le forze
stavano cedendo pian piano. Sapeva che prima o poi non sarebbe riuscita a tenere intatta la barriera,
altrimenti sarebbe svenuta di lì a poco per la troppa mancanza d’energia vitale. Era troppo debole, e non
passò troppo tempo, infatti, che il raggio di luce si stava restringendo verso di lei, dando la possibilità alle
ombre di avvicinarsi. E loro lo sapevano, perché al posto di urlare stavano gioendo come bimbi. «Sei
nostra! Sei finalmente nostra!»

L’ombra silenziosa che la ragazza aveva notato, però, non si unì al coro. Si diresse verso la luce, invece.
E, a una spanna da essa, tese quella che sembrava una mano e disse, sottovoce, in modo che solo lei
potesse sentire: «Non preoccuparti, sono qui per salvarti. Afferra la mia mano.» Lei fece cenno di non
volerlo fare, troppo spaventata. «Fidati di me.» E come prova della sua fiducia, allungò il braccio verso la
luce e, inondato da essa, la ragazza notò che era un comune braccio umano, con una carnagione di un
rosa pallido. Non poteva credere ai suoi occhi, e trattene le lacrime per la gioia. Era un essere umano. La
luce illumino la misteriosa figura e scoprì che era un giovane ragazzo pallido dai capelli corvini, ma con
uno sguardo segnato che, a guardarlo da vicino, sembrava dimostrare più anni

Annuì lentamente e tese la mano verso di lui, in risposta. Improvvisamente, si ritrovò stretta fra le sue
braccia. Poteva sentire il calore del suo corpo esile e un odore di pino che, non sapeva il perché, sembrava
a lei familiare. Per qualche secondo si abbandonò a quella piacevole stretta e il giovane uomo, senza
esitare, disse a denti stretti: «Tieniti forte.» La ragazza lo fece, senza replicare, e il suo salvatore fece un
grande balzo. Un forte vento cacciò via le ombre, che urlarono scioccate, e due ali nere spuntarono dalla
schiena del ragazzo. Spiccò il volo verso l’alto, dove la ragazza notò uno squarcio che portava in cima alla
torre. In quel breve attimo sentiva il vuoto sotto di sé, una sensazione d’angoscia che si tramutava subito
in eccitazione. Non aveva mai volato in vita sua. Almeno, non lo poteva ricordare. Ma era un’esperienza
incredibile. Sembrava che il pericolo fosse svanito e, al suo posto, vi era solo il desiderio di libertà.

Arrivarono finalmente in cima, e la ragazza inspirò l’aria esterna, che sapeva di natura dormiente. Il
ragazzo lasciò la presa e lei appoggiò di colpo i piedi sul terreno pietroso. Si girò verso di lui, con
l’intenzione di fargli un sacco di domande. Il ragazzo capì subito le sue intenzioni. «Non c’è tempo, presto
loro saranno qui.»

«Voglio delle risposte!» urlò lei, era stanca di tutto questo. Voleva sapere, e subito. «Le avrai, fidati di me.
Seguimi.» E lei lo fece, non poteva fare altrimenti. Arrivarono sul ciglio della torre. Il misterioso salvatore
si staccò una piuma, serrando i denti per il dolore. La ragazza notò che stava sanguinando, copiosamente,
in tutto il corpo. Si preoccupò per lui. Forse era al limite delle sue forze, era per questo che non avevano
tempo. Stava morendo. «S-stai bene? Stai sanguinando!»

«Non preoccuparti, fra poco sarai salva. Abbi fiducia.» E si girò verso di lei. Sorrise, era il più sincero e il
più affettuoso che avesse mai visto. “Mi fido.” Pensò, convinta. Sorrise anche lei, e senza volerlo pianse
per l’emozione. Nel frattempo, il ragazzo lanciò la piuma che si era staccato prima e, improvvisamente,
un forte vento inondò l’ambiente circostante. Un grande vortice comparì sotto il ciglio.

«No, fermatevi! Lei è nostra! Fermatevi!» La ragazza si girò. Le ombre erano riuscite a raggiungerli, e
stavano correndo, pronte ad afferrarla. Si raggelò dal terrore. «No!» Gridò. Il ragazzo, con un colpo d’ali,
fece sobbalzare indietro gli aggressori e, con uno scatto veloce, corse verso di lei e la prese in braccio.
«Tranquilla, non è ancora arrivato il tuo momento. Hai ancora tante cose che devi fare, tanti luoghi che
devi vedere. Non preoccuparti, quando arriverà il momento, riuscirai a sconfiggerle.» Sempre con lei in
braccio, si diresse verso il vortice. Il sangue continuava ad uscire e le forze stavano cedendo. Non c’era
ulteriore tempo, doveva sbrigarsi, altrimenti no ce l’avrebbero fatta. Aveva promesso di salvarla, costi
quel che costi. “Una vita per una vita.” Si disse, sorridendole. Si gettarono nel vortice. La ragazza gridò
spaventata, mentre precipitavano. Il corpo del ragazzo si stava sgretolando, fasci luminosi stavano
fuoriuscendo dalle crepe. Le ali corvine stavano perdendo colore, fino a diventare bianche e luminose.
La ragazza guardò la scena, tra la meraviglia e il timore, mentre il ragazzo sentì il freddo del suo corpo
tramutarsi in calore. Dentro di sé un fuoco stava divampando. Era diventato pura luce. «Piccola mia, devi
vivere. Io sarò sempre con te, in qualsiasi momento. Ti voglio bene, sorella mia.» Le disse, un’ultima
volta. Poi il buio.

Una luce offuscata. Il ritmo costante del battito del cuore. Il rumore della macchina d’ossigeno. La ragazza
aprì lentamente gli occhi, accecata dalla troppa luminosità della stanza d’ospedale. «D-dove mi trovo?»

Accanto a lei, le infermiere la stavano guardando con stupore. «Si è svegliata! Chiamate il medico, subito!
Ditegli che la paziente è uscita dal coma.» Non riusciva a capire. Si guardò intorno e vide dei fiori con
bigliettini, ovunque, nella stanza. “Rimettiti presto. Ti vogliamo bene. – Mamma e Papà” C’era scritto in
uno di essi.

Pianse, improvvisamente. Ricordò tutto, chi fosse, di quando era uscita da scuola, dell’incidente e… Suo
fratello. Ricordò di come aveva cercato di salvarla da quel pirata della strada. Di quel suo profumo di
pino, della sua stretta esile. Ricordò tutto, e lacrime copiose le rigarono il volto sottile. Suo fratello l’aveva
salvata, per ben due volte, non avrebbe mai smesso di ringraziarlo. Non avrebbe mai smesso di pensare
a lui. «Ti voglio bene, fratello mio. Ti prometto che vivrò. Farò tantissime cose e vedrò moltissimi luoghi.
So che mi veglierai, perché me lo hai promesso. Non dimenticherò mai quello che hai fatto per me.
Grazie.»

Guardò verso la finestra della stanza. Fuori c’era la luce del sole, ormai alto, che la stava riscaldando.
Sorrise, si asciugò le lacrime. Il futuro la stava aspettando.