Simona Antonazzo - Poesie

Sono Volti

Sono volti.

Mappe sdrucite

che indicano vie lontane.

Sono pieghe di colore

ove occhieggiano segni

di un trascorrere lento,

di umori malsani

del ligio dovere.

 

Se negli occhi

scruti

vedi oltre.

 

Un’attesa che scioglie lacrime,

che imbratta anime di malinconia dolciastra.

 

Così attende alle acque salmastre,

in un quartiere che s’addormentato

come una vecchia bagascia discinta.

Conosce, si capisce.

Vede. Guarda.

Imbarazza.

Evito.

 

Voce al di là del rumore.

E’ lì all’angolo

in mezzo al vivido colore

di un’attività

che colma spazi di solitudine.

Viso che parla.

Viso che urla.

Penetra.

Stordisce.

Illumina.

Acceca.

E il buio oltre l’angolo

s’impigrisce sulla pelle

rancida

di sempre.

 

Macchia nera,

muro bianco.

Ferita che squarta

un paese dimenticato,

ferita

come un lungimirante

recupero del trascorso vivere.

Ombra che oscilla

su una pietra bagnata

di vecchiaia genuina.

 

Volti.

Volti di un recente

passaggio da altri lidi.

Volti

come specchi

attraverso i quali

scendo in me stessa.

E lì giaccio

sommersa da dimenticanze.

(9 agosto 2005 –Volti di passaggio di Rodi Garganico)


 

Il giocatore di scacchi

Guardavo apparenze di triste vita.

Guardavo quello che non c’era .

Non ti vedevo.

Gremito l’angolo di  ombra,

eri lì.

Nascosto da pigri pensieri,

i miei.

Riposavo e sussultai.

Il gioco era veloce,

il tuo sguardo acceso, febbrile.

Il tuo viso bambino

Dolce, pallido, imbrattato di emozioni.

Quello che non vedevo

Era quello che eri.

Anima parigina.

Ora malinconia insanabile

Fuori, dentro di me.

Un ricordo vivido di un altro volto di passaggio.

(Al giocatore di scacchi dei giardini di Luxemburg a Parigi , 24 Marzo 1997)


 

Due terre, una vita  

Dalla cristallina cornice,

titanici monti,

intravedo.

Stagliati nitidi nel cielo blu,

vegliano ogni dì,

impassibili,

il piccolo paesino abbarbicato sulla collina…

Quel nido di pace

che,tredici anni or sono, m’adottò.

E questo ricordo,

s’imperla di infinito affetto.

Affetto per il rigoglioso paradiso che mi circonda,

affetto per i nuovi amici che ho incontrato,

affetto per le diverse tradizioni,

i diversi usi, costumi, dialetti…

Affetto per questa vita ch’adesso mi appartiene,

ch’or è in me, per sempre.

Nondimeno, urgono nel profondo,

le mie origini…

Ed attraverso stille d’emozioni remote,

il rammarico ancor pulsa in me…

Un sentimento d’appartenenza riemerge

ecoizzante il mio spasmodico

Desio d’esistere in vero…

E allor m’accorgo che,

testardamente insito,

s’azzuffa

con l’attuale presente,

il passato…

Il limpido specchio d’acqua marina,

la costa frastagliata come un grande ventaglio,

le estese pianure arse dal fuoco rovente del cielo,

gli ulivi sempre verdi,

le spinose piante grasse del fico d’india,

i pergolati avvinghiati l’uno all’altro,

in un abbraccio che non ha fine nè inizio,

disseminati ovunque,

e quell’imperturbabile terra rossa, calda, arida.

Un paese silenzioso,

ancora addormentato nel tepore della siesta pomeridiana,

cullato dal ritmico canto delle svogliate cicale…

E quelle tradizioni antiche come il mondo,

quelle musiche, quei canti, quei balli dal sapore popolare,

quelle stradine di campagna,

quei mercati colorati che pullulano di gente allegra.

Atteggiamenti d’una vita rurale,

semplice

mia, per sempre.

O fausto destino che,

eternamente in me,

fai vivere due realtà in un’unica vita!

Che gioia nel mio cuore,

quando constato che,

sotto un unico cielo stellato,

sotto un’unica luce solare,

due terre, due tradizioni, due sentimenti,

passato e presente,

si fondano in un’unica esistenza.

(1° premio  al concorso poetico“nord-sud” – ACAV, 1993)


 

Riflessioni lacustri

Luci abboccano qui

sul ponte di un avvenire

da definire.

Stelle del mattino,

Diane armate contro vento.

Gioie vitree

in trasparenti aloni.

Lucerne in antri

bigi,

tra sguazzi di parsimonia

e abbozzi d’armonia.

Sguardi lenti.

Trapassi di un vivere hic et nunc.

I loro sguardi

di oggi.

Indelebili specchi

nel riflesso del tempo che sarà.

Indelebili

nella memoria mia medesima.

Speranze

per chi

il vecchiume

pallido, noioso

ha accettato con disincanto avanzato.

Sguardi.

Sono.

Respirano.

Riflettono.

Sognano & ridono.

 

E questo,

oggi,

è più di quanto il mio ieri

m’abbia mai donato.

(Alla genuinità dei “miei” studenti– Lago di Garda, 15 maggio 2008)


 

Jean – Michel Basquiat

Morto a 27 anni.

Overdose.

Traspiravi dai fumi

di quest’inutile incendio

di collera

di amarezza

      e disordine.

Superavi alto

(inconsciamente)

ciminiere di viltà sopraffina.

Benzina

in un ammuffito letargo per signorotti dabbene.

In profundis nulla

se non parole a rebours

Triangoli più o meno sessuali

(senza angoli-senza lati).

Stravaganze naturali

(nei in una foresta di difettosi salamelecchi).

Sentimenti pungenti

veri

vivi per un po’,

caparbiamente appassiti ora.

Accozzaglia di vita:

accenti strani

estemporanei

in clessidre fluenti sabbie

remotamente bagnate.

Spirito – non Divino, umano-

Incazzato

Malinconico

Famelico

Pietrificato nell’incomprensione,

Temuto.

Schivato.

Forse amato?

 

Morto a 27 anni.

Overdose.

 

27 anni.                 

- Famoso –                 

Morto.

(10 Novembre 1998 Ad un ragazzo che ha fatto della sua arte la sua follia, la sua vita, la sua morte, il suo delirio perenne).


 

Amir, sopravvissuto

Su sentieri infiniti di abusi secolari

zoppica imperterrito,

abbagliato da un istinto vitale

estinto nel ponente crepuscolo.

Trascina i suoi passi stanchi

In un deserto di inquietudini

Fino ad un falso rifugio

Tra gente tristemente nota

e lì emerge il coraggio della disperazione

condiviso oltre il sangue.

 

Si abbatte fuscello contro onde

di presunta indifferenza,

accolto tra lacrime sentite

che, seppur pregne di disagio umano,

lapidano impietose l’ipocrisia di sempre.

 

Un dolore lacerante

inabissato in un fagotto di speranze

strappate ad una giovinezza invecchiata

sorridente, tuttavia.

Di fronte alla provvidenziale mano

ringrazia

Lui, Amir.

(Una storia come tante unica – Lampedusa, 28 dicembre 2017, Centro di accoglienza immigrati)



Guscio

Luce calda

attraverso ferite di cuore

su un alone pieno di ansia.

Un’aspettativa

in profondo raccordo

anima e mente.

E poi questo diluvio interiore.

Qualcosa decade

molti inizi,

albe incomplete

di giorni da vivere.

Qui un guscio.

Dove rinchiudermi

per un po’.

(18/07/2017 a me stessa, a P. ai nostri fantomatici figli, ad un noi sempre presente)


 

Pieno. Parigi (ri-) vissuta

Parigi vissuta.

Ho respirato le tue strade.

Ho assaporato i tuoi vicoli.

Ho vissuto la tua atmosfera.

 

Je suis…

Traboccanti polmoni

di aria respirata

-ora trattenuta-

come polvere d’oro

in una polveriera

pronta ad esplodere.

 

Manca ogni giorno.

È avvolta in giardini

rivissuti

trapiantati da un passato incerto

ad un presente remoto.

Abbandona un ricordo

forse un sogno.

E si lascia ormai bagnare

da ciò che  non stringe più.

 

Parigi.

Qui il mio spirito,

lì il pensiero

sprofondato in un luogo

che non è mio

né altrui.

Caparbietà

accesa di entusiasmo,

pacato.

Pieno.

come tutto nella mia vita.

(Questa visita alla città che amo di più al mondo è stata un’esperienza “piena”, qualsiasi cosa significhi questo sentimento. 5 Dicembre 2000)


 

Ri-elaborazione  di un inevitabile lutto

Improvvisa assenza

e tu sei lì.

Un girotondo sbilenco

di foglie secche

sul ciglio di una

strada

di sempre.

Vortichi su te stesso

ti paralizzi

sembri osservarmi

forse sembri sorridermi.

Poi svanisci

Appiattisci

in sdrucito tappeto

scricchiolante

ramingo.

 

Il raggio maldestro

di una luce

insopportabile

temibile

compare e spezza

l’attimo.

Miriadi di perché

ingolfano la gola,

spasmodica

inghiotte salate verità

 

E so. Sempre so.

Ciò che rimane

sul fondo stradale noto

sono ormai orme infangate

detriti di speranze

e pozze

di infinito sangue

inutile.

Versato in nome

di una mancata creazione.

 

So. E non vorrei sapere.

Consapevole assenza

di vita.

(Ad una certezza che non sono ancora in grado di accettare totalmente, 21 ottobre 2017)


 

Io allo specchio

Mi raccontano le solite bugie, senza ritegno.

Lo so.

Le ignoro.

Le evito e poi cado.

“Avanti!” –  penso.

Unità infinite di perché nella testa.

Decine di ramanzine proiettate su un futuro che sembra non mio.

Infiniti rammarichi e ipocrisie sprecate.

 

Attenzione, non urtare fasci di luce obliqua!

 

“Preparati un giaciglio al di sopra degli insulti.

Atteggiati pure a menefreghista, se vuoi…

Regolati. Non esisti oltre te stesso.

Là dove inserisci una spina,

Adoperati a rimanere attivo”

– sbraitano i muri della mia esistenza.

 

Dimentico spesso il ‘perché’.

E ancora mi chiedo: “Se avanzo sempre e comunque,

ma mi fermo spesso in angoli di dimensione,

origliando agli usci esemplari,

riuscirò a vivere?”

Esco da me per non ascoltare.

Eviro la mia socialità;

rapisco la solitudine,

intrattenuta in antri di dedizione millenaria.

Scopro – a volte – briciole inconsulte di fascino

covate sotto strati di sottane fuori moda.

(Arricciate fin sul mento, a stritolare respiri spregiudicati, liberi assassini della coscienza!)

Davanti a me troppo vuoto/troppo pieno:

altalenante espressione di questi miei giorni

impigriti in trite manifestazioni di auto-disistima.

Latenti all’occhio quotidiano,

ma evidenti a te riflessa,

intrisa di sentimento deduttivo.

“Oserei oppormi all’evidenza?”

 

Caccio malinconie da tutti i pori,

urlo squattrinate verità, ma

oggi, di fronte alla reazione dovuta,

rinasco e mi rinfranco:

rientro in me stessa e mi illumino.

Forse.

(A me stessa, a quello che sono stata e che oggi continuo ad essere. Novembre 2007-2017)