Sono Volti
Sono volti.
Mappe sdrucite
che indicano vie lontane.
Sono pieghe di colore
ove occhieggiano segni
di un trascorrere lento,
di umori malsani
del ligio dovere.
Se negli occhi
scruti
vedi oltre.
Un’attesa che scioglie lacrime,
che imbratta anime di malinconia dolciastra.
Così attende alle acque salmastre,
in un quartiere che s’addormentato
come una vecchia bagascia discinta.
Conosce, si capisce.
Vede. Guarda.
Imbarazza.
Evito.
Voce al di là del rumore.
E’ lì all’angolo
in mezzo al vivido colore
di un’attività
che colma spazi di solitudine.
Viso che parla.
Viso che urla.
Penetra.
Stordisce.
Illumina.
Acceca.
E il buio oltre l’angolo
s’impigrisce sulla pelle
rancida
di sempre.
Macchia nera,
muro bianco.
Ferita che squarta
un paese dimenticato,
ferita
come un lungimirante
recupero del trascorso vivere.
Ombra che oscilla
su una pietra bagnata
di vecchiaia genuina.
Volti.
Volti di un recente
passaggio da altri lidi.
Volti
come specchi
attraverso i quali
scendo in me stessa.
E lì giaccio
sommersa da dimenticanze.
(9 agosto 2005 –Volti di passaggio di Rodi Garganico)
Il giocatore di scacchi
Guardavo apparenze di triste vita.
Guardavo quello che non c’era .
Non ti vedevo.
Gremito l’angolo di ombra,
eri lì.
Nascosto da pigri pensieri,
i miei.
Riposavo e sussultai.
Il gioco era veloce,
il tuo sguardo acceso, febbrile.
Il tuo viso bambino
Dolce, pallido, imbrattato di emozioni.
Quello che non vedevo
Era quello che eri.
Anima parigina.
Ora malinconia insanabile
Fuori, dentro di me.
Un ricordo vivido di un altro volto di passaggio.
(Al giocatore di scacchi dei giardini di Luxemburg a Parigi , 24 Marzo 1997)
Due terre, una vita
Dalla cristallina cornice,
titanici monti,
intravedo.
Stagliati nitidi nel cielo blu,
vegliano ogni dì,
impassibili,
il piccolo paesino abbarbicato sulla collina…
Quel nido di pace
che,tredici anni or sono, m’adottò.
E questo ricordo,
s’imperla di infinito affetto.
Affetto per il rigoglioso paradiso che mi circonda,
affetto per i nuovi amici che ho incontrato,
affetto per le diverse tradizioni,
i diversi usi, costumi, dialetti…
Affetto per questa vita ch’adesso mi appartiene,
ch’or è in me, per sempre.
Nondimeno, urgono nel profondo,
le mie origini…
Ed attraverso stille d’emozioni remote,
il rammarico ancor pulsa in me…
Un sentimento d’appartenenza riemerge
ecoizzante il mio spasmodico
Desio d’esistere in vero…
E allor m’accorgo che,
testardamente insito,
s’azzuffa
con l’attuale presente,
il passato…
Il limpido specchio d’acqua marina,
la costa frastagliata come un grande ventaglio,
le estese pianure arse dal fuoco rovente del cielo,
gli ulivi sempre verdi,
le spinose piante grasse del fico d’india,
i pergolati avvinghiati l’uno all’altro,
in un abbraccio che non ha fine nè inizio,
disseminati ovunque,
e quell’imperturbabile terra rossa, calda, arida.
Un paese silenzioso,
ancora addormentato nel tepore della siesta pomeridiana,
cullato dal ritmico canto delle svogliate cicale…
E quelle tradizioni antiche come il mondo,
quelle musiche, quei canti, quei balli dal sapore popolare,
quelle stradine di campagna,
quei mercati colorati che pullulano di gente allegra.
Atteggiamenti d’una vita rurale,
semplice
mia, per sempre.
O fausto destino che,
eternamente in me,
fai vivere due realtà in un’unica vita!
Che gioia nel mio cuore,
quando constato che,
sotto un unico cielo stellato,
sotto un’unica luce solare,
due terre, due tradizioni, due sentimenti,
passato e presente,
si fondano in un’unica esistenza.
(1° premio al concorso poetico“nord-sud” – ACAV, 1993)
Riflessioni lacustri
Luci abboccano qui
sul ponte di un avvenire
da definire.
Stelle del mattino,
Diane armate contro vento.
Gioie vitree
in trasparenti aloni.
Lucerne in antri
bigi,
tra sguazzi di parsimonia
e abbozzi d’armonia.
Sguardi lenti.
Trapassi di un vivere hic et nunc.
I loro sguardi
di oggi.
Indelebili specchi
nel riflesso del tempo che sarà.
Indelebili
nella memoria mia medesima.
Speranze
per chi
il vecchiume
pallido, noioso
ha accettato con disincanto avanzato.
Sguardi.
Sono.
Respirano.
Riflettono.
Sognano & ridono.
E questo,
oggi,
è più di quanto il mio ieri
m’abbia mai donato.
(Alla genuinità dei “miei” studenti– Lago di Garda, 15 maggio 2008)
Jean – Michel Basquiat
Morto a 27 anni.
Overdose.
Traspiravi dai fumi
di quest’inutile incendio
di collera
di amarezza
e disordine.
Superavi alto
(inconsciamente)
ciminiere di viltà sopraffina.
Benzina
in un ammuffito letargo per signorotti dabbene.
In profundis nulla
se non parole a rebours
Triangoli più o meno sessuali
(senza angoli-senza lati).
Stravaganze naturali
(nei in una foresta di difettosi salamelecchi).
Sentimenti pungenti
veri
vivi per un po’,
caparbiamente appassiti ora.
Accozzaglia di vita:
accenti strani
estemporanei
in clessidre fluenti sabbie
remotamente bagnate.
Spirito – non Divino, umano-
Incazzato
Malinconico
Famelico
Pietrificato nell’incomprensione,
Temuto.
Schivato.
Forse amato?
Morto a 27 anni.
Overdose.
27 anni.
- Famoso –
Morto.
(10 Novembre 1998 Ad un ragazzo che ha fatto della sua arte la sua follia, la sua vita, la sua morte, il suo delirio perenne).
Amir, sopravvissuto
Su sentieri infiniti di abusi secolari
zoppica imperterrito,
abbagliato da un istinto vitale
estinto nel ponente crepuscolo.
Trascina i suoi passi stanchi
In un deserto di inquietudini
Fino ad un falso rifugio
Tra gente tristemente nota
e lì emerge il coraggio della disperazione
condiviso oltre il sangue.
Si abbatte fuscello contro onde
di presunta indifferenza,
accolto tra lacrime sentite
che, seppur pregne di disagio umano,
lapidano impietose l’ipocrisia di sempre.
Un dolore lacerante
inabissato in un fagotto di speranze
strappate ad una giovinezza invecchiata
sorridente, tuttavia.
Di fronte alla provvidenziale mano
ringrazia
Lui, Amir.
(Una storia come tante unica – Lampedusa, 28 dicembre 2017, Centro di accoglienza immigrati)
Guscio
Luce calda
attraverso ferite di cuore
su un alone pieno di ansia.
Un’aspettativa
in profondo raccordo
anima e mente.
E poi questo diluvio interiore.
Qualcosa decade
molti inizi,
albe incomplete
di giorni da vivere.
Qui un guscio.
Dove rinchiudermi
per un po’.
(18/07/2017 a me stessa, a P. ai nostri fantomatici figli, ad un noi sempre presente)
Pieno. Parigi (ri-) vissuta
Parigi vissuta.
Ho respirato le tue strade.
Ho assaporato i tuoi vicoli.
Ho vissuto la tua atmosfera.
Je suis…
Traboccanti polmoni
di aria respirata
-ora trattenuta-
come polvere d’oro
in una polveriera
pronta ad esplodere.
Manca ogni giorno.
È avvolta in giardini
rivissuti
trapiantati da un passato incerto
ad un presente remoto.
Abbandona un ricordo
forse un sogno.
E si lascia ormai bagnare
da ciò che non stringe più.
Parigi.
Qui il mio spirito,
lì il pensiero
sprofondato in un luogo
che non è mio
né altrui.
Caparbietà
accesa di entusiasmo,
pacato.
Pieno.
come tutto nella mia vita.
(Questa visita alla città che amo di più al mondo è stata un’esperienza “piena”, qualsiasi cosa significhi questo sentimento. 5 Dicembre 2000)
Ri-elaborazione di un inevitabile lutto
Improvvisa assenza
e tu sei lì.
Un girotondo sbilenco
di foglie secche
sul ciglio di una
strada
di sempre.
Vortichi su te stesso
ti paralizzi
sembri osservarmi
forse sembri sorridermi.
Poi svanisci
Appiattisci
in sdrucito tappeto
scricchiolante
ramingo.
Il raggio maldestro
di una luce
insopportabile
temibile
compare e spezza
l’attimo.
Miriadi di perché
ingolfano la gola,
spasmodica
inghiotte salate verità
E so. Sempre so.
Ciò che rimane
sul fondo stradale noto
sono ormai orme infangate
detriti di speranze
e pozze
di infinito sangue
inutile.
Versato in nome
di una mancata creazione.
So. E non vorrei sapere.
Consapevole assenza
di vita.
(Ad una certezza che non sono ancora in grado di accettare totalmente, 21 ottobre 2017)
Io allo specchio
Mi raccontano le solite bugie, senza ritegno.
Lo so.
Le ignoro.
Le evito e poi cado.
“Avanti!” – penso.
Unità infinite di perché nella testa.
Decine di ramanzine proiettate su un futuro che sembra non mio.
Infiniti rammarichi e ipocrisie sprecate.
Attenzione, non urtare fasci di luce obliqua!
“Preparati un giaciglio al di sopra degli insulti.
Atteggiati pure a menefreghista, se vuoi…
Regolati. Non esisti oltre te stesso.
Là dove inserisci una spina,
Adoperati a rimanere attivo”
– sbraitano i muri della mia esistenza.
Dimentico spesso il ‘perché’.
E ancora mi chiedo: “Se avanzo sempre e comunque,
ma mi fermo spesso in angoli di dimensione,
origliando agli usci esemplari,
riuscirò a vivere?”
Esco da me per non ascoltare.
Eviro la mia socialità;
rapisco la solitudine,
intrattenuta in antri di dedizione millenaria.
Scopro – a volte – briciole inconsulte di fascino
covate sotto strati di sottane fuori moda.
(Arricciate fin sul mento, a stritolare respiri spregiudicati, liberi assassini della coscienza!)
Davanti a me troppo vuoto/troppo pieno:
altalenante espressione di questi miei giorni
impigriti in trite manifestazioni di auto-disistima.
Latenti all’occhio quotidiano,
ma evidenti a te riflessa,
intrisa di sentimento deduttivo.
“Oserei oppormi all’evidenza?”
Caccio malinconie da tutti i pori,
urlo squattrinate verità, ma
oggi, di fronte alla reazione dovuta,
rinasco e mi rinfranco:
rientro in me stessa e mi illumino.
Forse.
(A me stessa, a quello che sono stata e che oggi continuo ad essere. Novembre 2007-2017)