Simona Ferrazzi - Poesie e Racconti

AMO DI TE

(dalla raccolta Sassi di fiume)

 

Amo di te

anche quello

che non vorresti 

fosse amato.

Penso i pensieri

che allontani,

guardo dove

non vuoi vedere.

Perchè ciò che

neghi di te

è tuo, essenziale,

come i vuoti

nei pieni che

uno scultore

crea.



QUESTA SERA

 

Questa sera

è un affaccio sul Mondo

e nulla ha più confine.

Non senti anche tu

oltreoceano ridere gli amanti

e qui vicino la dolce cantilena

che addormentava cent’anni fa

un bambino?

Il tuo sguardo si posa

sulla ragazza che ero

e sulla donna di mille domani.

Questa notte

si schiudono i coralli

e la Terra attende ad occhi chiusi

baci di fuoco.



PER UNA STELLA

 

Non ti ha avuto,

quel lungo corridoio.

I tuoi passi lenti

e uguali, una mano

estranea sulla spalla:

ti perdevo, invisibili

guardiani oltre la soglia.

Non ti ha avuto,

il buio dell’anima:

sei nata stella, 

c’era luce, ancora,

per risalire.

Le tue mani e le mie,

intorno alla fiammella

della vita. 

Oggi risplendi ed offuschi

il Sole.



CANICOLA

(dalla raccolta Sassi di fiume)

 

La strada è una scia

di luce, i contorni

delle cose danzano

come nei sogni.

Ovunque lo scherno

delle cicale, a tratti

il flamenco delle gazze.

Il ricordo di te 

fende i pensieri come

l’ago di una libellula

un nugolo d’insetti.

Mentre tutto arde

senza fiamma.


 

A MIA MADRE

 

Tengo vivo il tuo volto

come un fuoco di Vesta.

Ma per sempre s’è persa

la tua voce, sommersa

da una folla di altre.

Sei la fata silente

che chiamavo per nome,

quando ancora credevo

fosse un nome davvero.

Te ne stai nella mente,

mi sorridi e sei muta

come un idolo antico

che ritorna alla luce.



UN GIORNO

 

Un giorno il dolore

nel Mondo cesserà.

Ma non dovrà trovare

più occhi da sfinire,

più voci da straziare

con la lira impazzita

del suo canto.

Dovrà aver perso

la strada per il cuore,

se gli uomini ancora

ne avranno uno.



Da Pelle di serpente, Gruppo Albatros Il Filo, 1a edizione aprile 2019

 

(…)

  Per meglio farsi una ragione di tutto questo scempio, bisogna però onestamente ricordare che il Conte non ha mai frequentato una scuola in vita sua. È stato istruito da uno stuolo di precettori, in tempi in cui questa pratica era già diventata anacronistica. E alcuni di loro, sapendo di non compromettere un futuro da intellettuale, si erano arresi alle ire del Signorino: se proprio voleva, va bene, era il Sole a girare intorno alla Terra, se proprio insisteva si poteva fare a meno della sintassi e salvare, almeno, un po’ di grammatica.

  Così il Conte è cresciuto nella convinzione che troppa istruzione sia un danno, confonda i sani principi ereditati dai nostri avi ed esponga a pericolose tentazioni anche nel campo della… come si chiama? Politica.

  Ed infatti, eccolo lì il progresso: parecchie cose buone del passato sono state abolite, dallo jus primae noctis alla servitù della gleba. Quei nobili russi senza spina dorsale, cacarsi sotto per cosa, poi, per una Rivoluzione di quattro bifolchi!

  E adesso, qui da noi, cosa vogliono questi sindacati, perché un uomo non può fumarsi il suo Avana in santa pace senza che il suo fidato ragioniere gli agiti innanzi lo spettro di una sommossa contadina? “Sono brava gente i nostri operai, Conte, ma qui in Emilia sono tutti un po’ rossi, mi intende? Se alzassimo un pochettino la paga…”.

  Il testone da toro del Conte è già immerso in fantasie di guerra, per lui rosso è sinonimo di sfida, una sfida, e sia, all’ultimo sangue! Che vengano, quegli zotici buoni solo per la vanga e per le loro mogli, lui avanzerà risoluto verso di loro, seguito dalle ombre dei suoi antenati, gente tutta d’un pezzo, capace di buttare l’elmo prima che il cavallo si schianti contro l’avversario e le armature cozzino tra loro in un unico urlo, metallico ed umano insieme! È ora di rimettere le cose a posto, finalmente!

  “E ora ci spostiamo di là, in veranda?” ci invita la Contessa, consorte del padrone di casa. Anima gentile in un corpo etereo, si è appalesata all’inizio del pranzo, ha sorriso per tutto il tempo della permanenza a tavola, non aprendo quasi mai bocca se non per introdurvi piccole dosi di cibo o pronunciare qualche parere neutrale.

(…)

  

Sei già stato anche in quel nosocomio, all’inizio. Ti ricordi i viali e vialetti che avevi percorso, a bordo di un pulmino, per raggiungere il padiglione dove avresti trascorso il ricovero. Ortopedia, TAC, Medicina Nucleare, Emodialisi: insegne e cartelli sfilavano al di là del finestrino, lungo il tragitto tortuoso.

  Avevi sorriso amaramente, ad un tratto: un altro ricordo di guerra si era imposto all’improvviso nella tua memoria. “Signor Tenente, oggi ci fumiamo Urologia!”: uno dei tuoi soldati era uno studente di Medicina, catapultato nella steppa direttamente dalle aule universitarie. Con l’incoscienza dei suoi pochi anni aveva preso quella tragedia come un’avventura e si faceva seguire come un’ombra da un ingombrante trattato, nell’intenzione di dedicare allo studio gli intervalli di riposo tra una marcia e l’altra.

  Ma, si sa: lo spirito è forte e la carne è debole. Così, le pagine del pesante tomo, avendo la sfortuna di essere fatte di una pregevole carta di riso, erano diventate una dopo l’altra preziose sigarette. All’inizio, il ragazzo pensava che al capitolo ventesimo sarebbero stati sicuramente sulla via del ritorno. Invece, furono sacrificate quelle pagine e molte altre ancora, fino a che una raffica di proiettili non compì un sacrificio ben più grande.


Da Le montagne invisibili

(…)

  In quella settimana Cécile e Omar non fecero che passeggiare, mangiare, ridere e godersi il lettone con la sua biancheria ruvida e profumata che li inghiottiva alla sera unendo il suo abbraccio al loro. Il letto matrimoniale era una diavoleria sconosciuta in quei luoghi, dove si dormiva per terra su stuoie e strati di coperte sovrapposti, o al massimo qualche ospite di riguardo poteva coricarsi sulle ottomane dell’unica stanza deputata a riceverlo. Lo strano mobile era stata un’idea dello zio di Omar, non tanto per fare una sorpresa gradita al nipote, quanto per infastidire il fratello che alla fine aveva ceduto, allettato da una cospicua somma di denaro e da viveri di ogni genere che avrebbero fatto parte della spedizione. 

  Lo zio di Omar, infatti, non aveva mai digerito il motivo della prima lite lontana con il fratello: da bravo ingegnere aveva comprato e fatto installare un favoloso impianto di irrigazione che con chilometri di tubi e binari ai lati opposti di ogni campo avrebbe assicurato acqua a volontà alle coltivazioni, triplicando, nella più prudente delle ipotesi, raccolti e guadagni. Ma, ritornato dopo oltre un anno di assenza, aveva visto vanificati i suoi sforzi e le sue speranze: la costosa meraviglia tecnologica era stata divelta, non ne rimanevano qua e là che monconi arrugginiti e contorti, il resto era stato venduto a peso come materiale da costruzione o altro. “Molto meglio i nostri muli e le cisterne sui carri,  come facciamo da sempre. La nostra acqua, dono di Allah, non deve scorrere in questi marchingegni europei!”, aveva replicato  con piglio sacerdotale il padre di Omar. 

 Da allora, altri marchingegni ingombranti bussarono nel corso degli anni alla porta dell’abitazione rurale: dal suo salotto cittadino, l’ingegnere si divertiva ad immaginare l’irritazione del fratello, l’incapacità di identificare meccanismi ed ingranaggi, il fastidio di doversene e liberare al più presto.