Simone Magnani - Poesie

ARTISTA

 

 

 

Sei

SOLO

Un

POPULISTA

 

Siamo buoni tutti, a farle, quelle cose lì.

Ma poi ci devi essere tu, dentro!

 

Tu parli, parli, parli, parli, parli…

 

 

Ti ascoltano i murales: pensaci.


LA DISCOTECA

 

 

 

Luci gialle, soffuse. Il locale è pieno

di poche persone, la musica leggera, leggerissima

riempie il cervello e il cuore, le gambe partono da sole

a danzare e le mani battono a tempo.

L’assolo è meglio del sesso, non posso non prendere

la mia lady

Perchè stasera è una lady

E farla ballare, roteare, giriamo su noi stessi.

I tacchi fanno un rumore gigante, la giornata è cancellata.

Domani già so che lavorerò più di oggi eppure

non me ne frega niente. Mi piace così tanto

la vita, stanotte.

Esco, sigaro acceso. La luna mi ammonisce già.

L’officina starà per aprire.

 

Mi guardo in giro ed è buio.

Ho ancora il pigiama.


SIGARELLI

 

 

 

Sono il tuo sigaro, principessa del mare:

mi hai abbandonato a metà della nostra opera.

 

Intorno nient’altro che cenere, penso al grigio dell’ esistenza.

Aspetto che arrivi, mi afferri, ogni giorno

 

mi fai morire un po’. Cerco la strada per essere eterno,

immortale, senza meta e senza inizio:

 

trovo qualcosa, nell’infinito dentro me,

che diventa infinito dentro di te, è il tuo

 

respiro

 

che mi uccide, che mi fa toccare

 

ASTRI…

 

Sei sempre stata il mio viaggio di scoperta.


DEDICA ALLE PERSONE PERDUTE

 

 

 

Scorrono parole come sullo smartphone:

senza senso, veloci.

 

Mi arrabbio pensando che non provi quel che provo

 

IO

 

io non esisto davvero, ho l’anima del bosco

 

Bruciata, arida, bellissima.

 

Il bosco

 

SALVATO

 

DAGLI UOMINI???


DILETTANTE E ADOLESCENTE SI CIMENTA A SCRIVERE PER PURO CASO

 

 

 

Mi manca aver bisogno di qualcuno che mi spieghi cos’è l’amore:

eri tu, con la instancabile voglia di sentirmi nei momenti strani, che

sapevi esattamente quando ero triste e quando no.

 

Mi manca aver bisogno di qualcuno che mi spieghi cos’è la gioia,

eri tu, con i tuoi discorsi lunghi, che capivo a metà, ma che amavo

perchè li stavi pronunciando tu.

 

Poi ho girato l’angolo, mi hanno preso per la giacca, mi hanno

sbattuto al muro, mi hanno tolto tutto, mi hanno preso pure te:

hanno scavato un buco, sotto c’era l’universo.

 

Era grande, luminoso, freddo.

Schiacciava.

 

Ti hanno buttato lì: non so dove sei, ora. So che un giorno

 

salterò.


DIRETTORE

 

 

 

A forza di vivere

 

Si muore.

 

La ricerca è in download,

 

c’è spazio nel disco rigido?

 

 

Mettiti sotto carica e cerca di non fonderti,

 

DIGITALBRAIN


COME TE

 

 

 

Il muscolo è contratto, stretto, come quando

nasciamo e non vogliamo vedere il mondo.

 

Il peso lo ha reso così, anche il tempo

ci renderà così: tutti avvinghiati, annodati

su noi stessi.

 

Abbiamo scelto la strada sbagliata, la terra rimbalza

nell’ universo, io soffro i movimenti, la nausea fa vomitare

il sangue, un tombino che sgorga la mela della fogna.

 

Non posso sapere qual è il senso della vita?

 

Prendi persino troppe medicine, che ti fanno dormire, ti lasciano

il mal di stomaco, acido.

 

Il muscolo durissimo di qua, di là è sciolto, ma piano piano

 

si irrigidisce.

 

Come te.


 POETI CONTEMPORANEI

 

 

18/09/18 15:47

 

Ciao Laura!! Sono Simone, come stai?

 

Ciao… tutto bene grazie, anche se non credo di conoscerti.

Sicuro di non aver sbagliato numero?

 

 

Si si sono sicurissimo! Sono Simone, un ragazzo della 5B Geometri…

Siamo nello stesso corridoio dello stesso piano quest’anno…

 

 

Ah ok… scusa ma non penso proprio di conoscerti…

Adesso devo studiare ciao!

 

Ciao…

 

25/09/18  14:04

 

Ehi Laura, sono ancora io…

allora stamattina hai capito chi sono?

 

Voglio dire, mi hai visto mentre ti salutavo?

 

Ciao… No scusa non mi è sembrato di vederti

 

Ma come? Ti ho salutata, e mi è sembrato che rispondessi

Voglio dire, credevo avessi capito…

 

 

Sai com’è, mi salutano in tanti a scuola, anche se io non li conosco

Un sacco di gente pretende di conoscermi ma io non so chi cazzo siano ahhaaha

 

 

E infatti volevo solo conoscerti meglio..

 

 

Sapessi io.


CURRICULUM VITAE

 

 

Il palmo della mano ormai mi faceva molto male. C’erano degli ematomi, vicino al pollice: un paio di puntoni verdastri, probabilmente dovuti alla pressione che facevo proprio su quel punto quando, ogni giorno, per sette ore, spingevo i pezzi dentro la macchina.

Il mio compito era molto semplice, in effetti: prendere un cerchietto di ferro, con delle dentature che erano rivolte verso l’interno, e metterlo in un pezzo di plastica, o gomma, non lo so, che avevo precedentemente incastrato nello spazio apposito nella grande macchina H-987. Schiacciare ok, aspettare circa tre o quattro secondi, e poi sarebbe uscito il pezzo preparato. Rifare questa operazione, in quei quattro secondi mettere il pezzo pronto in uno scatolone da 25 pezzi che si era già disposto lì vicino, il più in alto possibile per non piegare la schiena, riempire scatoloni finche non erano le sette di sera, anche sette e cinque. A quel punto, spegnere la macchina, chiudere l’acqua, spegnere le luci del capannone, raccogliere i propri resti e appoggiare le palle sudate sul sedile della macchina. Tornarsene a casa, doccia veloce, cena e se si ha voglia, si esce, altrimenti, serie TV e a dormire. Se capita una scopata, si è proprio al settimo cielo.

Al mattino, sveglia presto per fare qualche girettino, leggere, studiacchiare qualcosa, casomai volessi finire l’università, guardare un film, farsi parecchie seghe: insomma vivere, quelle tre ore. A mezzogiorno prepararsi, pranzucchiare e all’una meno qualcosa essere in fabbrica. E via di seguito. Per settimane e settimane la vita è questo: un elenco di cose che ti sarai anche annoiato o annoiata, verosimilmente annoiata, a leggere; ma tant’è, questa è la vita mia, di mia madre, di mio padre, lo è stata dei miei nonni, lo sarà dei miei figli. Trascinarsi verso una meta che non si sa per niente quale sia.

Certo, non si quale sia: ci trasciniamo là, occupando il nostro tempo lavorando e facendo cose, per sopravvivere, ma non sappiamo assolutamente verso dove stiamo andando. Forse stiamo morendo, forse stiamo aspettando di pagare meno bollette, un giorno. Chi lo sa? Posso solo dire che io mi riduci a produrre, comprare, mangiare, eiaculare. Questo sono.

 

Ti ho un po’ preso, lettore? Verosimilmente lettrice? Credo di no, forse ti ho anche un po’ fatta irritare o schifata. Qualche operaio con i turni pomeridiani si riconoscerà nella mia descrizione, quella di un mondo che per la verità non esiste nemmeno più (ci fosse ancora qualche ragazzo che fa l’operaio e scrive racconti…).

Ma ora torno ad annoiarti, con questa inutile banalità della lettura. It sucks, lo so: anzi, più ti annoi, meglio è. Spero proprio che ora smetterai di leggere e quel poco che continuerò a scrivere, non lo leggerai mai.

Tanto non ho niente da dirti, mai lo ho avuto e sicuramente non lo avrò oggi.

 

La possibilità del lavoro al supermercato mi aveva attirato: avevo lasciato un curriculum lì, mi sembrava un bel posto dove lavorare, c’era più gente, più roba, più luce. Lo stipendio era più basso essendo un part-time, ma chissenefrega, non mi interessava dei soldi certamente; dopo il colloquio e il licenziamento dalla fabbrica, mi hanno affidato il reparto ortofrutta, molto profumato, anche se  un po’ noioso; poi, un po’ di tempo dopo, mi hanno messo a riempire gli scaffali…

 

Mentre son qui che scrivo, mi viene in mente che la mia prof di inglese delle superiori diceva che avremmo dovuto studiare tanto e prendere dei bei voti, se non avessimo voluto finire a riempire gli scaffali del supermercato. Già: la classica cattolica semi-benestante, che ha fatto buoni studi, che ha trovato un posto fisso statale, quando ancora esistevano, viene a dire a me come devo vivere. Come no.

 

Nonè male, in effetti, riempire gli scaffali. Vedi un sacco di prodotti strani, forse persino troppi per quello che sono abituato a comprare io. Li sistemo, li batto con il codice a barre, per far capire che li ho messi al posto giusto, così il capo non può dire che non lavoro, e poi me ne torno a casa. Facile facile, indolore. Posto di lavoro nuovo, fresco: mi aspettavo un po’ più di contatto umano, ma niente male, in fondo.

Sai perchè me ne sono andato?

Umiliazione.

 

Essere quello che sistema la roba che poi un altro compra è umiliante, ancora più umiliante che stare attorno a una macchina. Perchè le ditte a cui vendevo i pezzi di plastica, vogliono solo che siano fatti decentemente: non gli importa che li faccia tu, un robot, un bambino peruviano: devono solo essere fatti bene.

Ma quando la gente ti guarda con quell’imbarazzo sprezzante, ti continuano a scrutare mentre cerchi il posto dove mettere i biscotti alla vaniglia, esattamente mentre tu stai cercando dove possano trovarsi quelli al cioccolato: ti guardano, e pensano che dovresti già saperlo, dove sono. Che sei lì perchè non hai studiato abbastanza, perchè sai fare poco e niente. Forse hanno avuto la mia stessa prof di inglese, forse la gente è tutta un po’ stronza.

 

Una volta che me ne sono andato da lì, le cose sono iniziate a cambiare. Con la scusa di trovare un posto di lavoro, giravo per zone industriali, campagne, centri urbani… tieniti forte… per trovare me stesso. Che frasona, eh?

No, me stesso non era a casa che mi aspettava sul divano dopo il lavoro, e se qualcuno ti dice che si viaggia per poi scoprire che quello che cercavi era a casa tua, mandalo a farsi fottere. Non era nemmeno dentro di me. Non c’è mai stato niente, dentro di me. Ma da qualche parte doveva esserci, un me stesso: qualcuno, che ne so, qualcosa che mi assomigliasse, che avesse già capito cosa dovesse fare, per essere un minimo felice di alzarsi al mattino. Non dico entusiasta di vivere, non dico ricco, fidanzato, pieno di interessi e opportunità, con tanti viaggi alle spalle tanta cultura: no, no, no.

Solo un po’ felice. Un po’ umano, un po’… vivo.

 

Stavo solo cercando il me stesso vivo. Ero il fantasma, di me stesso. Ma non il mio spirito, quello di fuoco, appassionato, che prova i sentimenti: proprio il fantasma, la parte morta, o non-morta ma sicuramente non-viva. Credo che in effetti si chiamino non-morti erroneamente, tutti quei mostri che tendenzialmente mangiano carne umana o succhiano sangue: più che non-morti, sono non-vivi. Ma questa è una mia idea. E io non so per niente scrivere, e tu, lettrice mia, lo senti. Non puoi fare a meno di pensare che non so scrivere. Magari lo sto facendo apposta, e neanche lo capisci.

Una mattina, vagando senza più nemmeno curriculum, ho deciso di entrare in un posto dove non sarei mai dovuto entrare, ossia un bar. Era un po’ distante da casa mia, era sulla strada che va verso il mare, quindi un po’ in là. Non ero certamente lì per cercare seriamente qualche lavoro, ma per passare il tempo. Il bar era carino, aveva un che di improvvisato, datato e mai compiuto che me lo rendeva particolarmente simpatico, come i bar delle stazioni ferroviarie (ma un po’ più bello dai).

Quando sono entrato, ho visto il barista, un uomo… non direi vecchio, oggi non so nemmeno più chi siano i vecchi e chi i giovani, ma certamente ben avviato alla vecchiaia. Pancia grossa, baffi, puzza di fumo, caffè, lavoro e notti passate più sul divano davanti alla televisione che a letto con la moglie. Sì, sicuramente aveva una moglie, tutti quelli fatti così hanno una moglie. Non so perchè, ma prova a notarlo pure tu.

Lui mi ha chiesto cosa stessi facendo lì, se stessi cercando un lavoro, se per caso volessi che lui chiedesse a un suo amico, che aveva un negozio di articoli da giardinaggio, che faceva tutte le estati una bancarella fissa al mare, se casomai avesse bisogno di un ragazzo.

 

Ala fine ci finii al mare, e tutti i giorni, per quattordici ore al giorno, stavo in uno di quei paesini della riviera romagnola a vendere con una bancarella, dotata persino dell’ombrellone per ripararsi dal sole, articoli da giardinaggio, semi, fiori, cose tipiche. In realtà il vero obiettivo era convincere i clienti ad andare al negozio principale, che stava a circa 40 minuti da lì: dovevo informarli che io vendevo solo una parte della merce in esposizione, che il negozio aveva tutto (nientemeno!) e, se avessero deciso di andare lì, avrebbero avuto la possibilità di fruire di un piccolo sconto grazie ad un coupon, o come si chiamano, che gli davo io, eccetera eccetera.

 

Chiaramente, stando lì ho conosciuto diversi ragazzi e ragazze, della mia età o poco più piccoli. E a un certo punto ho iniziato a voler andare a ballare, a voler ubriacarmi, a festeggiare. Senza togliere nulla al lavoro, ritagliavo tempo più che altro al mio sonno. Ascoltavo musica, ballavo, mangiavo poco, vendevo tre stupidaggini; una volta finito il turno, tornavo al negozio, perchè sopra c’era un mini appartamento dove vivevo, quindi non pagavo l’alloggio. E in più, mi dava qualcosina.

Insomma, una bella fregatura, per essere al mare. La faccio breve: una sera, porto lì questa ragazza con cui flirtavo da giorni: in discoteca avevamo fumato, ci eravamo limonati e ora la stavo portando in quel tugurio per farmela. Mi sembrava il minimo, una sorta di compenso per il mazzo che mi sono sempre fatto.

Io non uso quasi mai le protezioni, e forse quella sera, visto che ero molto su di giri, non ho… fatto adeguatamente retromarcia. Non che sia sicuro, ma almeno evitavo di farmi prendere dal panico per qualche giorno. Invece, al mattino non ricordavo se ero riuscito a finire fuori, dentro, come era stato: avevo solo la testa che girava un po’, e amen. Ma andava bene così, non mi fregava di nieten, allora.

Finisco la stagione, mi faccio quella tipa e un altro paio di ragazze (e per la verità pure un ragazzo) qualche altra volta, torno a casa con più abbronzatura che soldi, e mi metto a vivere come un mezzo tossico depresso. Andavo e venivo da Bologna, facevo qulache giro in qualche centro sociale, cercavo con molta calma qualcosa da fare. Mi ero deciso a provare a fare il DJ, come scusa per poter stare chiuso in camera al computer tutto il tempo, e non sentire le lamentele di mia madre.

 

Una sera sento un casino incredibile, fuori dalla porta di casa. Una macchina si era fermata, e qualcuno aveva iniziato a picchiare contro la porta a vetro che abbiamo giù.  Scendi, stronzo! Ti ammazzo! Ti spacco la testa!  Urlava queste cose il tizio che stava per buttare giù la porta. Io, mio padre e mia madre scendiamo, e vediamo questo ragazzo, non particolarmente grosso, che urla e sbava come un matto.

Lo minacciamo di chiamare la polizia e lo esortiamo ad andarsene, ma niente.

 

Questo prende la macchina, va addosso al cancelletto due o tre volte, finchè la macchina, un po’ scassata ma ancora ben funzionante, non lo abbatte. A quel punto, con una gomma bucata e facendo fatica, si avvicina alla porta con la macchina e inizia ad andarci addosso. Non c’era la possibilità di fare retromarcia, perchè dietro c’era il cancello a terra, che gli impediva di andare indietro con le ruote e non poteva prendere una gran spinta. Però ha fatto una qualche crepa, con la parte davanti dell’auto.

Scende, prende una sbarra dal cancelletto rotto, e la tira forte contro il vetro, che cede e va in frantumi tutti corriamo su per le scale, nella zona notte della casa, ma questo ci raggiunge facilmente. Tanto avete capito: avevo messo incinta la sua ragazza. Quando mi ha preso e sbattuto a terra, si è accavacciato sopra di me. Io ero sul dorso e quindi lo vedevo bene, sentivo il suo alito che puzzava di alcol e fumo. Mi ha riempito di pugni, e io quasi privo di sensi mi sono sentito trascinare nella macchina del tipo.

 

Ha spostato il cancelletto, mi ha messo dietro, insieme alla tizia incinta, e piano piano è partito. Perchè nessuno è intervenuto, chiedi? Perchè la polizia non è arrivata? Perchè vivo in un paese di 5000 abitanti, con dei vicini vecchi e l’agilità di un’agenda verde della banca locale. E il poliziotto più competente è il vigile urbano, che fa attraversare la strada davanti alle scuole elemntari. E, in ogni caso, è sempre meglio tenersi fuori dai guai.

 

Si è diretto verso quella che ho scoperto essere casa sua, un casolare di campagna molto grande, con i garage costruiti dentro ai vecchi magazzini dei fattori. Ha parcheggiato lì, ci ha fatti scendere, ha legato la ragazza a un materasso che aveva buttato a terra e poi mi scaraventato davanti a lei, in ginocchio. Adesso apri le gambre di questa puttana, visto che sei bravo e lei è abituata, e fai quel che devi fare. Ha preso un ferro con una forma a uncino, e francamente all’inizio non ho capito bene cosa dovessi fare. Poi ho capito. Le ha strappato le mutande, e pretendeva che infilassi quel ferro dentro di lei. Ah, a proposito: lo so bene che non si usa il corsivo, per i dialoghi. L’ho scoperto, navigando su internet: ma gli unici due romanzi che ho letto sono di Stephen King, e lui lo fa, se non ricordo male. Anche se scrivo meglio di me. Quindi non state tanto a rompere.

 

Dovevo farla abortire. Probabilmente l’avrei ammazzata. Avrei ammazzato lei, e avrei fatto abortire mio figlio.

In un colpo solo, farne fuori due, insomma. Perchè mettere un ferro uncinato nell’utero di una donna, senza che lo faccia un medico, senza minimamente sapere quello che stai facendo, significa accopparla, non credi? Non avevo proprio scelta, però: mi stringeva forte forte la gola, da dietro, dicendomi di farlo. Fallo! Fallo!  La ragazza si disperava e ci pregava di non farlo, più per sé che non per il feto, credo. Non sentivo nemmeno paura, né odio, rabbia, o qualcosa di negativo: ero solo stupito. Molto, molto stupito, di quello che mi stava succedendo. Nient’altro. Forse è per questo che lo sto raccontando: se mi fossi sentito male, se avessi con tutte le forze lottato, se avessi pianto, magari mi sentirei meno in colpa. E invece, ero inebetito, e basta. Incredulo. Come quando alla Play perdi una partita che avevi dominato.

 

Io da quel momento in poi, non ricordo nulla. Non so cosa io abbia dovuto fare a quella ragazza, non so cosa sia successo a quel matto, non so nemmeno cosa sia successo a me.

Banalmente, si è spenta e riaccesa una luce, la luce della mia memoria: finisce in quel momento e si riaccende in casa, quando mi sono svegliato. Se sono stato all’ ospedale, non lo ricordo. I poliziotti mi fanno un sacco di domande, e io dico loro tutto quanto quello che ho detto a te. Io e mio papà abbiamo aggiustato il cancelletto e la porta, facendola in legno questa volta. Abbiamo preso un bel colpo. Però è stato bello passare dei weekend insieme a lui, a lavorare sulla nostra casa.

 

Una mattina ho semplicemente trovato un lavoro, vicino a dove sto. Una piccola fabbrica che vende travi di legno, dove lavoro come magazziniere. Guadagno il mio stipendio, prendo le pillole per dormire e parlo poco. Cerco ancora di ridere, fumo e bevo un po’ meno. Qualsiasi cosa sia successa, quella notte, io non me la ricordo. So che deve essere terribile, perchè sono ancora vivo. So che le mie mani sono sporche di sangue: non so quale sangue, se quello del ragazzo, della ragazza, di entrambi. Non so se ho fatto abortire quella ragazza, non so se lei è sopravvissuta, se il bambino è nato o no. So solo che è successo qualcosa di orrendo, perchè io sono ancora vivo e intorno a me il mondo va avanti, esattamente come prima, esattamente con le stesse abitudini, gli stessi ritmi, gli stessi sguardi spenti, la stessa, intensa, voglia di senso.


MAMMA, BIBLIOTECARIA E UN PÒ DI ALTRE COSE

 

 

 

Accendi la luce, sennò come fai a studiare bene? Quasi tutti i giorni ripetevo la stessa frase a mamma. Era proprio ostinata a studiare sul tavolo della cucina, un po’ con la stessa attenzione di quando si mangia: guardava di qua, di la, poi dava un’ occhiata alla tv e faceva qulache commento. Perciò non era per niente concentrata!

Soprattutto, non si degnava mai di accendere la luce. D’altronde, quando era a casa a lavorare, al pomeriggio, non la accendeva mai: è uno spreco!, diceva sempre. In effetti aveva ragione, a lei non serviva tanto: girava per casa, puliva, stirava. Non accendeva tante luci. Forse davvero non le servivano poi più di tanto.

Ora, però, si era messa a studiare, e la luce le serviva eccome. Prima di studiare, per la verità, si era messa a leggere: aveva visto un film, su uno scrittore un po’ svitato, e le era presa la fissa di leggere dei romanzi proprio di quello scrittore. Ovviamente quello scrittore non esisteva, era una finzione del cinema. Solo lei poteva non capirlo. Anche la bibliotecaria le ha detto (e già immagino quando quella vecchia strabuzza gli occhi, la prendiamo sempre in giro noi ragazzi per questo, sembra un alieno) :

Ma signova, questo scvittove non lo tvovo mica! Né che si è sbagliata?

Mia mamma però insisteva, finchè la bibliotecaria (bibliotecavia), stufa, le ha dato un romanzo a caso, stava lì sul bancone da tanto tempo secondo me. E mamma lo ha letto e le è anche piaciuto.

 

Era un romanzo sconosciuto, che era capitato alla bibliotecavia tra le mani solo qualche giorno prima. Non lo conosceva davvero nessuno, ma a un certo punto  qualche ragazzo si era messo a leggerlo per farci un audiobùc, che ora vanno tanto, e un sacco di gente ha iniziato a volerlo leggere, e non ascoltare. In effetti, che si ascoltino i libri è bizzarro. Io non leggo mai, proprio mai, nemmeno i titoli dei nuovi film al cinema, quelli scritti sui cartelloni grandi, mentre passo in macchina con i miei amici; però so, in teoria, che i libri si dovrebbero leggere.

Questo libro parlava di una storia, fintissima, d’amore, di amanti, una relazione insomma tra Napoleone e una sua fintissima amante. Fintissima, tra l’altro, me lo ha detto mia madre, perchè ha studiato poi eh. Infatti si è messa a studiare Napoleone dopo aver letto il romanzo, che prima era un audiobùc. E da lì ha scoperto che fare la casalinga non era un’occupazione a tempo pieno, e che poteva studiare anche un po’ al pomeriggio e che le piaceva davvero tanto studiare e bla bla bla.

 

Io però non accettavo che lei non accendesse mai la luce. Aveva anche iniziato a mettere gli occhiali, e vedeva sempre meno da quando studiava. Si metteva degli occhiali ridicoli, quelli che indossava da giovane, perchè quelli nuovi le fanno venire il mal di testa.  Mamma ma le prime volte che metti gli occhiali è normale che gira la testa, provali un po’!  La mamma, che non è più proprio giovane, non mi ascolta. Anche tu, membro della giuria, saprai che quelli non proprio giovani non amano molto cambiare le abitudini, e che se hanno in mente una cosa, anche se è assurda, mica si muovono da quell’ idea lì. E allora non cambiava gli occhiali, faceva fatica a leggere. E per giunta non accendeva nemmeno la luce.

Sarebbe stato bello poter accendere la luce, ora finalmente l’avevamo tutti i giorni la luce, perchè non la potevamo usare?

 

In effetti la luce era diventato un bene prezioso come l’acqua, in casa mia. A scuola abbiamo studiato che a un certo punto, nel nostro paese la avevano solo in alcune case, e non arrivava mica sempre.

C’era stato un casino tale, lo abbiamo visto nei documentari con le LIM, tutti che protestavano per strada, urlavano che la luce costava troppo, basta tassetassetasse.

I prof sostenevano che il prezzo annuale da pagare per la luce era aumentato tantissimo, nessuno poteva pagarlo se non pochissimi e dunque nemmeno a casa mia. Solo alcuni potevano, però noi a casa mia no. Io ero piccolino, sarà successo dieci o quindici anni fa. Forse venti, ma non è importante.

 

“Le cose prima o poi finiscono…. lavorare per ottenere… tutti insieme uniti per… blabla bla…” Erano le frasi che aveva detto uno di quei politici  pelati (che sono tutti più o meno pelati e io non li distinguo, a me non frega tanto della politica) una sera alla tv. Una delle ultime sere in cui la tv la potevamo guardare. Mi fanno arrabbiare quei politici lì, in casa mia si parla molto della politica e a me sembra che a parte dire cose su uno schermo a loro non freghi nulla se a casa mia non c’ era la luce. A me fa arrabbiare oggi sapere che non la avevamo.

E l’elettricità era la goccia che faceva traboccare il vaso, dicevano in casa mia. Tvaboccave.

Per la verità, cari giudici, era già successo un casino prima con il petrolio. C’era stata la guerra, me lo raccontava sempre il papà. Lo diceva spesso: tu sei fortunato, Simone, che non hai fatto la guerra.  A me un po’ da fastidio che lui dice così, non è colpa mia se io non ho fatto la guerra. Però lui ha fatto la guerra, ha detto. Ha detto che era finito il petrolio, che non ce n’era più. E io gli ho chiesto a cosa serviva il petrolio e lui mi ha detto a fare andare le macchine.

 

Io non ci credevo tanto, perchè tutti sanno che solo le macchine vecchie dei ricconi vanno con la benzina. Tutte le macchine in giro sono elettriche, che vanno anche forte rispetto a quelle che c’erano una volta, ma quelle a benzina andavano veloci, quelle sì che andavano, dice sempre il papà. Insomma pare che nel passato le macchine andavano davvero con la benzina, il petrolio. E anche le macchine da lavoro, alcune. E gli aerei. Un sacco di altre robe che non so e non mi ricordo.

Comunque i ricconi per la storia delle macchine vecchie non sono contenti, di solito i ricchi amano le cose lussuose. Perà ora sono moooolto infastiditi, perchè per legge le possono accendere solo una volta al mese, nei garage appositi, e non possono girare per strada. Molti ci hanno rinunciato e le tengono lì spente, nei loro stessi garage e le guardano e basta. Dentro di loro penseranno un sacco di cose.

Però sta di fatto che il papà diceva che finito il petrolio era finito tutto, il trasporto, dagli aerei alle navi alle macchine, all’industria, a tutto. Tutto era finito. Il petrolio. Il trasporto e il lavoro.

E ora arriva la parte scolastica, io le cose che so le ho sentite o dal papà che parlava con i suoi amici oppure a scuola. Come hanno pensato di sostituire il petrolio al Ministero dello Sviluppo in Italia?, chiede la Manghini, che è la prof.

Ed Emma, risponde sempre l’Emma, che dice: hanno pensato all’energia elettrica!  

 

Solo che ancora non l’hanno inventato un raccoglitore di fulmini, sarebbe molto figo. E  mica si può andare a pedali, l’energia si compra dicono i maestri. E allora lo Stato doveva comprarla, doveva pagarla da qualche altro Stato o doveva farla da zero. E mica tutti sono degli eroi.

Però a un certo punto le tassetassetasse sono aumentate e sono diventate davvero troppo alte per tutti i poveracci come noi. E allora no benzina, e pure no luce.

 

Il papà mi ha sempre detto: Scegli bene i tuoi eroi, quando ne scegli uno rimane quello per sempre.  Allora io ho pensato che quando ero piccolo piccolo c’era buio e la gente si sparava e la gente non aveva da mangiare e tutti correvano lavoravano andavano in giro prendevano la neve si dice per pagare meno l’acqua che anchel’acquacosta, e allora tutti correvano tutti correvano a lavorare per pagare le tassetassetasse ma nessuno poteva pagarle tutte. Allora mio papà andava a chiedere i soldi ai ricconi che se te li davano poi volevano gli interessi, e se non glieli davi chiedevano tua moglie e tua figlia e anche tuo figlio.

Il mio vicino di casa, e vi faccio uno spoiler cara giuria, è il mio eroe. Perchè ha qualche anno più di papà, che è vecchio e tutti dicono che era meglio che fosse mio nonno ma mi hanno avuto tardi, e io ci ho messo pure tanto a capirlo cosa voleva dire avermi avuto, il mio vicino di casa è il mio eroe perchè lui con mio papà era andato con le bandiere in piazza.

Era andato a correre per strada, non per pagare le tassetassetasse alle poste, né per lavorare. Era andato a costruire le pale davanti al Comune. “Tutti dobbiamo fare le pale, energia per tutti!”

E allora noi abbiamo le pale domestiche. E abbiamo la luce e mamma studia. Anche se si scorda di accenderla.

E poi tutti in Italia quelli che volevano la luce e l’acquachenoncosta e il gas si sono trovati in una piazza, a Roma credo ma anche davanti a tanti altri Palazzi.

Avevamo ancora poca luce però un po’ arrivava, la pala domestica che ancora era abusiva che papà aveva montato per il condiminio veniva abbattuta dalla polizia almeno una volta al mese. Però lui la rimontava. “Perchè l’energia è di tutti!”

 

E allora hanno fatto una grande comunità, il papà e il vicino del papà e tanti altri loro amici che vengono a cena qua da noi, che stringono la mano al papà e tanto anche alla mamma, senza di lei io non facevo nulla  ha sempre detto il papà. Vengono in tanti qua e ringraziano perchè l’acqua ora costa meno perchè la si prende quando piove, perchè il vento muove le pale e abbiamo l’energia. E perchè le macchine tossiche, le dobbiamo chiamare così noi ragazzi, che le andiamo ad accendere nei garage alla domenica pomeriggio e ci intossichiamo, però è divertente vedere quei ricconi che si arrabbiano come furie, le macchine tossiche sono nei garage e non girano più.

Gli eroi a volte ci sono, sono i vicini di casa e alcuni anche dentro casa. Io so che mio papà è uno degli eroi, ma non è mica giusto scegliersi il proprio papà come eroe. Allora ho scelto il vicino, forse la giuria apprezzerà.

 

Quando il papà mi rimprovera e mi dice che niente è scontato io non lo capisco sempre, io ho passati momenti brutti ma ero tanto piccolo. Però mi ha insegnato che ora la luce la dobbiamo accendere.

Per questo mi arrabbio quando ogni tanto la mamma si scorda di accendere la luce. Accendeve.