Sonia Fanuli - Poesie e Racconti

Dama poesia

a Isabella Morra

Notte, melanconica tra i bagliori spiranti,
arrampicati sul regno di ruvide pieghe
come piaghe senza pace dalle bionde rocce,
camminano vaghe sui bastioni taglienti
sciolte chiome e manto aspro sulle vie,
nei diamanti sciolti delle tue pupille.
Piange il fiume acre l’odore dell’onore,
rovente nelle gocce di ferro e lame tiranne,
nel muto mistero dal fraterno delitto.
Piccola vegli, recisa bellarosa
emorragia di conoscenza nella corte di Musa,
algida lettera di sangue alfabeto,
bianca giustizia segreta del tuo genio.
Riposi primavera nel tuo mandorlo in fiore,
nel giardino di onde infrante dal tuo seme,
nella clessidra svelata di croce benedetta.
Canti vento acerbo nel pianto di un castello
nel dolce rintocco al sogno di un uomo
nascosto tra i veli vuoti di un caldo tramonto.

 


 

Bianca delia

Perle di latte danzano nella dermica quiete,
tra lune millenarie di un bacio immacolato,
viva calce nei ricordi pestati di gerani notturni,
nelle veglie immortali di un silenzio gravido,
grotta di mirto nelle carezze infinite di incensi
celesti, nei rosmarini inni d’anima feconda.
Delia canta la madreterra nel sogno eterno
senza macchia, nella sua cinta mediterranea
dalla bianca veste, murando medievali piedi
invadenti nel diadema di un vessillo.
Tra le mura, accoglie candida l’amore,
raccogliendo accecanti riflessi muti
nel sacro gioiello al suono di un grembo.
Viaggia sulle vette di sommi memorie
come cattedrale in fiore sul colle di Calliope,
sulle finestre alberate nel cuore del mare,
sui miracoli d’Itria ai gradini di vento,
sui lastricati drappi di costellazioni terrestri,
su foglie di tempo cavalcanti murgesi valli.
Urlano i tamburi la casta innocenza,
le ossa acquattate nella cenere ardente,
il mistero di una poesia scritta sulle dita,
lo sguardo radioso a sud della vita.

 


 

Inno alla Dea bambina

alla grande Dea Originaria

Oscura, raccolta come una grotta, nera
illuminata negli squarci millenari
dalle calde sorgenti.

Quando il buio si cospargerà della sua sete,
quando i filari tesseranno baci d’Aracne
nei noviluni nutrienti di Minerva,
quando la grazia incontrerà la sua ira
e dondolando di saliva salirà la vita,
vieni bambina mia,
ti porterò a casa,
nel regno delle sette sfere,
nell’enneagramma dei sigilli celesti,
nelle sinfonie sumeriche iridescenti,
nei tuoi arcobaleni incontinenti
dai primordiali vagìti.

Cogli la vena superba dei tuoi riflessi,
nelle onde e il fragore dei tuoi cristalli,
nella rocca segreta della tua caverna,
nel precipizio delle tue limpide vesti.

Ridonda di gloria sul chiodo di gole terrestri
appesa al filo delle tue carni
nel viaggio di vertebre cuneiformi,
splenderai nell’oro defunto cosparso,
nella folgore rinascente, come carezza
di cipria e cenere di lapislazzuli sulla tua pelle.

 


 

Alberobello nel 19° grido di voce

Sospesa nella solitudine del tempo
attraverso il raggio dei miei pensieri
tra sospiri ardenti di nudi frammenti miliari.

Smarrita al bivio di due monti
brilla antica in San Michele una bicicletta,
ornata nei preziosi merletti e fiocchetti rossi
ai piedi della dodicesima lucerna.
Come favola, tavola bandita a nozze
dal matrimonio desertico
di vuote panchine e inermi strade.
Rampicano vite sui portoni chiusi
nella gelida notte di gennaio,
accompagnata da un meticcio nella strada del guercio
nell’ultimo tenero saluto alla città del trullo.
Uncinetti delicati affacciati alle finestre
narrano melanconici il torpore del tempo
impresso nelle braci ardenti di un ricordo bastardo
dal madido profumo di pino.
Lacrime incandescenti sposano il velo,
nel ghiacciocarminio dei petali di ciclamini,
e natalizie stelle appese al cielo,
nostalgiche sorridono nel capolino azzurro sopra i tetti.
Mille guglie, mille simboli, mille significati:
un sole, un cuore trafitto, una colomba in volo
sembrano indicarmi la via come comete,
ai piedi del Messia, rintocchi di campane
annunziano nella piazza metamorfica quiete.
Mentre tutto tace, sogna, si trasforma,
un cancello semiaperto mi invita ad entrare
nel mistero della vita, raccogliendomi in preghiera
tra i vellutati drappi di Maria e Giuseppe
e il riposo di una culla resa calda
dal ventre luminoso di Dio.
Le luci gridano e piangono di nebbia il mistero di un silenzio,
nella fitta coltre, la brina bagna la fronte,
nel sacramento di un battesimo.
Come nuova nascita di un respiro caldo
che s’infrange tra le pieghe di una maschera.

 


 

Covi di uomo

Sguardo fragile, stanco sìbilo di un respiro
impiccato, canuto nella barba incolta
di parole, incastonate come gemme
nel pentagramma di un canto mascherato.
Ti guardo nel romanzo muto delle rughe calde
dense di stanze abitate dal tuo seme,
virale nei morsi di autunnali tramonti
di baci sospesi nella rugiada del tempo.

 


 

Padre mio

Musa che baci la fronte di notti informi,
campione di canti celesti nel volto di Maria,
tra sospese identità millenarie
puoi ascoltare ora la mia voce.

Mille volte avrei voluto chiamarti,
tra i veli di un canto vergine che apre i cieli,
mille volte avrei voluto stringerti,
tra braccia abbandonate ai sospiri di Dio,
laddove solo un pianto migrante
poteva scorgerti nei mille silenzi,
e vedere ancora una volta, il tuo volto
illuminarmi, candida di puro splendore.
Ti accarezzo nell’ ultima goccia di tempo,
nell’ ultimo granello di clessidra,
nell’ ultima pioggia di cieli ardenti,
estremo viaggio nell’ altrove di un mondo.
Padre mio, ora puoi sentirmi nel sìbilo di vento,
forgiante dita d’ inchiostrometallo
dal sole Josephino, lambìto
nel sogno di un bacio eterno.

 


 

Frammenti

Ho attraversato parole
amate, scritte, odiate,
navigate come barche in tempesta,
bagnate di pensieri asciugati al vento,
in panni di sangue come stracci,
stralci mai ricuciti, mai sentiti,
mai profondamente affondati,
schiantati, raccolti, avvolti in orocandido
nel divino assoluto.
Per rinascere in tutto, come lutto
di fantasmi stridenti, stringenti
un corpo mai appartenuto
d’anima luminosa, piegata, stanca
nel riposo eterno del nulla.

 


 

Narciso

Ricce pupille nel ferro di bimbo
dall’eterno viaggio senza meta,
calzante stivali di menzogna
sulla giostra di ricordi sbiaditi
e visionarie paure informi.
Intralciano la strada dell’essere Uomo
gli assenti morsi di arterie vibranti,
Inerzia di un palco dai fili spezzati
nel dotto teatro di abili mani
e argento fuso di freddi vagiti.
Cresci embrione terrestre,
cresci nella nuda essenza
spoglia di antiche radici
deformi nell’incudine d’orolacca
di un cordone mai reciso, mai generato.
Tu che narri luce e tempeste
nella pioggia di lirica plastica
sveglia quel baco d’anima
nel quinto canto di un Dio Signore e Maestro,
nel suo germoglio inerme,
nel suo ultimo granello di sabbia.

 


 

Anima alchemica

(a Gianpaolo G. Mastropasqua)

Di luce vivido nella notte rovente,
forgiante cadaveriche pelli
nel letto d’inchiostro al nero di seppia,
sui brandelli vaganti di mute mine
ruggenti e stridule. Scoppi ardenti di braci,
baci nei sigilli di ceralacca in ricordi di carta.
Resti umani stremati sui ghiacci pungenti
di oniriche geografie, attraversate
in levigate metamorfosi inconsce,
nella resurrezione di violini capovolti
e clavicembali ossidati di orchestre
urlanti nei teatri chiusi.
Ma il poeta non è morto,
sogna ibernato il suo trasmutare
nei vicoli vivi di economie ignoranti,
tra illustri poetanti, chiromanti,
ebbri funamboli su gocce di fuoco
in un tempo alchemico.
Il poeta sopravvive
nelle vesti macerate di pelli marce,
in scorticate lingue mai narrate,
trasudante fulgido candore
nelle penne strangolate
dei suoi canti d’anima.

 


 

Cenere viva

Cristalli di ghiaccio costellano vorticosi
il moto dermico di un silenzio, algido
nel naufragare avido l’ultima nuca di tempo,
l’infinito istante mordace di un bacio felino.
Memorie impresse abbandonate all’ oblìo
di un marchio graffiante, smarrita pelle
nella cenere viva di ricordi fuggenti,
acri negli ultimi lembi di un respiro.
Luce d’anima, tu che riposi nel sonno
gelido di un amore rubato, bruciato
al rogo di passione straziante,
desta il cuore razziato nell’ urlo ultimo.
Splendi negli occhi narranti respiri strozzati,
risveglia l’autentica forza ruggente
nel tuo caldo bagliore silente,
nei frantumi lesi della tua armatura.

 


 

Gemme di donna

(alle mie figlie Chiara e Giulia)

Perduta melodia delicata e inquieta
nei ruggenti canti muti,
e nei sorrisi agrodolci
di caotiche armonie nevrotiche.
Vaghi tra le pieghe incantate di un sogno
rivelando il tuo mistero al tiepido soffio d’iride
nel segreto scarlatto di lucidelabbra,
glaciale scrigno d’anima rovente.
Feconda come la terra
di battaglie dai silenzi urlanti,
risorgi Donna nelle sacre gemme
di granelli custoditi di bimba,
narrando delicata fortezza,
nel cristallo marmoreo del tuo essere
fragile, nei tacchi accecanti
di romanzi precari dai bagliori sublimi.

 


 

Nefertiti

Luce di cenere, spoglia tra braccia desertiche,
dune languide avvolte nel sospiro di vento
regale su oceani di sabbia.
Sacra pietra dipinta nella stele del tempo
virtuoso sigillo di orme antiche,
voce narrante nell’arcaico mistero di un silenzio.
Tu, Sposa del Sole,
ornata di polvere d’oro e lino candido,
canti luminosa onnipotenza
nei riflessi celesti di lune millenarie.
Regina di due terre dal trionfo armonico
di un bacio radioso sulle memorie informi,
sui granelli segreti nei diari di clessidra
sogni avvolta nella preghiera di secolari
tramonti dai bagliori eterni.

 


 

Rinascita

Cipria di seta nel soffio di un ricordo
sfiora lune roventi in ghirlande di perle,
nei frantumi ardenti di clessidra sulle braci,
sacri baci nei profumi nettarini d’alloro.
Splendi fenice, nella tua dermica danza
araba di nuova gloria sull’altare di Libra,
candida nell’oro di un vello Arietino
dalle gemme meridiane di primavera.
Edifica il tuo ionico tempio nei verdi germogli
di Dafne, nell’intima forza guerriera di Atena,
nell’arte che porta il nome della tua scienza,
nei tuoi intrecciati arbusti di vita nuova.

 


 

Voce dell’anima

La Psicologia è quel mondo bellissimo che molto amo. Amo i miei pazienti, quelli veri, quelli che davvero la Società definirebbe “pazzi”, quelli, proprio quelli reputo i miei pazienti. Quelli veri nella loro autenticità, quelli veramente folli, folli di vita, folli d’amore, folli nel dolore. Quei pazienti complessi, sono come bambini su una giostra tutta loro, dove con il loro permesso posso salirci anch’io, giocare con loro, cercando di capire come gira quella loro giostra, abbandonandomi al flusso di un ascolto emotivo, scevro di schemi e pregiudizi, cercando di riportarli per quel che è possibile nella realtà, altrimenti, se ciò può far loro del male, continuo a girare dolcemente con loro su quella giostra, facendoli sentire che non sono soli, che non sono “pazzi”, ma che semplicemente non fuggo da quel mondo evitato o stigmatizzato. La bellezza della Psicologia è proprio questo, l’attenzione all’altro, alla diversità senza barriere nel divenire di un’emozione, una ricchezza di un punto di vista diverso ed imprevedibile, come un viaggio che ci trasporta nell’altrove di un mondo, proprio come un testo narrativo lo restituisce attraverso la scrittura, creando un mondo nell’altro. La Psicologia come un’arte, come lo scalpello di Michelangelo che toglieva solo la materia in eccesso, perché la forma era già lì, nella materia non inerte ma viva e pulsante in quel dialogo interiore delle parti del sé, dell’artista, di quelle mani forgianti e forgiate in quel giogo di forze interiori che esprimono nell’arte quel ponte nel confronto con l’alterità. Dietro ogni narrazione, ogni poesia, ogni scultura, ogni opera d’arte c’è un mondo nascosto che rende la voce dell’artista in una lingua completamente nuova. L’arte dunque, si fa storia spostandosi su una dimensione esperenziale che farà sempre parte di noi; un moto, come musica dell’animo umano, che all’occorrenza, quando vogliamo, sentiamo o desideriamo possiamo sempre richiamare e ricreare. L’essere umano è per me un’opera d’arte in quanto unico, originale, irripetibile. La mia attenta ricerca non è più solo nel processo di lavorazione della materia, ma in quell’autentica regressione infantile che diviene manifesta attraverso l’opera di un artista da cui emerge il daimon come onirico generatore d’arte, come meditazione di sensi attraverso i sensi stessi, come movimento di quei meandri oscuri, ignoti e profondi dell’io al di là di ogni follia. Questa dualità formativa mi spinge ad inoltrarmi nella ricerca in ognuno di noi di quel “fanciullino” primordiale pascoliano.

Il disturbo psichico può in tal senso essere inteso come il fanciullino deforme che preme per diventare farfalla con quell’angoscia munchiana disperata e urlante. Per me la vera bellezza non si cela nella forma ultima ma nel processo, inteso quale cambiamento metamorfico dell’esistenza, che sia mero nucleo psicologico o essenza che viene tradotta in arte.

L’individuo è per me una bellissima crisalide poliedrica e prismatica in continuo divenire e l’arte lo strumento di relazione col sé e meditazione nel sé.

 


 

Vita 

Come un soffio percorro
arcaiche distanze, tra nubi
di foglie scivolo nella
vertigine terrestre in ruvide 
cortecce e levigate pietre, 
rispecchiandomi, fino a scaldarmi 
nel mio stesso tepore
come specchio di vapore 
di cristalline acque gelide
su cui dipingo con i miei
pennelli come raggi
riflessi, come storie
narranti, come bagliori
accecanti, la vita.

 


 

Antico divenire               

(per il mio assoluto Amore)

In un liquido amniotico ancestrale
grondante versi di perle scrivevo.
Righe come lame
inchiostro come lacrime
parole che sembrano fermare il tempo
risvegliandolo da un sordo silenzio: l’oblìo.
Alte pareti
tutto tace nella caverna
e nel buio una piccola luce: la ragione.
L’ attimo rompe il silenzio
e un tintinnìo lento sembra disperdersi
nell’eco di minuscoli suoni
seguiti da altrettanti silenzi.

 


 

Fluire

Nel calice cristallino della vita innalzo
ricordi vivi, frizzanti bollicine allineate, 
scorrere lento di memorie adesive 
barattate con biglie colorate.
Cimeli d’infanzia, tiepide nenie impresse 
negli astragali levigati di giochi arcaici
come trucioli di un’esistenza di terra 
e di strada, di canti corali di fanciulli scalzi,
 di aeroplani di carta e legnose mollette 
furtivamente sottratte alle proprie madri 
per farne carri, bambole e casette.
L’anima pulsante rendeva viva l’inerte materia
in mani creativamente avide nella fame dell’essere.
L’umile materiale si ricopriva d’oro negli occhi di bimba
agghindata con silvestri catene d’aghi come una regina
trasportata nel sapore onirico di coppe traboccanti e vassoi 
ricolmi nella magia di sassolini, foglie e fili d’erba.
Fabbricava castelli nelle capanne di tufi e teli
regnante sedeva fiera sul trono sognando eserciti 
nei cortei di formiche dal frenetico peregrinare,
ancelle e giullari di corte nelle lucertoline incuriosite,
lucciole come fatine abitavano il suo regnomagico.
Capovolta la clessidra della vita, scivolano granelli di sabbia 
come alito di vento sulla nostra esistenza, nell’ assidua corsa 
di sogni adulti che lascia via, l’acerba età dei primi passi. 

 


 

Rosso Erminio

(Per Pippi Elia) 

Nei campi tra ulivi festanti e ridenti 
nuvole, baciata da profumi di sole e cristalli 
di rugiada della prima alba, nel primo sìbilo 
di capelli d’angelo viaggianti su note di vento,
al primo suono animale destato dal lontano 
lento avanzare strìdulo, di pesanti 
mezzi che rombanti sfrecciano
come aquile tra i vigneti.
Tra delicati uncinetti d’erba di madre vite
negli aspri profumi sprigionati in aleggiante 
polvere di terra, ero lì, nel mio essere 
bimba nei tacchi adulti della vita,
a respirare l’ affannosa fuga di un frenetico 
quotidiano avanzare, a respirare mani ruvide 
di fatica, di umili uomini ricchi di storia silente
nel canto di comari che sciolgono i crespi nodi 
di una natura generatrice, come l’ultimo parto,
come nuova nascita di madre terra, nei cerulei riflessi 
di traboccanti calici che si preparano a nozze di Bacco
nel roseo fiorire in gioviali brindisi novelli
dal rubineo richiamare sapori densi di tradizioni. 
Io ascolto e sorrido in questa gioia
come bimba selvatica nei ricordi scalzi 
di brecce pungenti levigate dal tempo
avvolta da una mantella di antica essenza
in un nuovo fiorire.

 


 

Nereide

Bagnata di luce affioro sorgente viva
nello sbocciare di musa nuova
abitando l’olimpo nell’anfiteatro dell’esistenza.
Scorro lenta nei rivoli di roccia candida
tra arbusti di bamboo e foglie d’edera.
Vesto il manto viscoso d’alga umida
carezzando spigoli rupestri, sciogliendo 
melodie, inebrio viaggianti sognatori
nell’antico canto di sirena morbida,
nell’eco di calcaree memorie e ruggine terrestre.
Viaggio nel fragore dell’essere, nelle cascate 
inarrestabili da dighe umane
io tumultuosamente silente,
fuggente e passionale, travolgente 
e glaciale nei morsi d’acquavita,
fitte ruggenti dagli occhi di pantera
come regale alligatore in pupille a fior d’acqua 
mi perdo, nascosta tra giunchi di ninfee
nella voragine di immani monti 
e lagunari abissi d’Avola. Sussurro 
un grido ultimo nel mio silenzio d’essere 
tra il chiassoso rumore, sospesa nella bellezza 
dell’immenso di uno sguardo a perdere
dove linea d’orizzonte non è, ma solo vertiginose 
simmetrie che lasciano il posto alle profonde altezze 
dell’essere, ora abisso ora universo.

 


 

Vagabondo

Viaggio senza tempo
in quell’uomo troppo piccolo
o forse troppo grande
di remota esistenza
che ghiaccia l’anima.
Viaggio di antiche memorie
trasfigurazioni senza notizie
alle pendici di un istante,
arrampicate ai margini della solitudine
nel seme di una società, confinata
sull’orlo di ogni maschera.
Come un ibrido
nell’oceano del nulla.

 


 

Senza tempo

Note di Zakirov di soffiocaldo rapite
verso il sud dell’esistenza 
dionisiaca in quei riccioli rossobruno
ebbri nel mistero d’essere,
in quell’anima sinuosa e avvolgente 
caducea essenza tra stelle di Ofiuco
nell’orfico amplesso di sensi,
negli occhi divoranti bagliori sublimi.  
Apollinea evanescenza
illusoria e armonica nei riflessi d’ambra,
madida sulle curve barocche 
come lacrima incandescente nell’ultimo addio.

 


 

Pathos 43       

(per Angelo Maci)

Incontro il tuo sguardo e siedo
mi chiedo quale Angelo in te traporti,
quali ali nascondono quello slancio di vitale 
vertigine, alto come due palme sovrane su terra 
secca, ma rigogliose nelle memorie antiche
di sanguinarie storie vissute in rubini cellinesi
di rossocaldo come cenere viva mai spenta.
Viva e viaggiante come navi oltremare
come imbottigliati messaggi senza tempo
naufraghi nella lungimirante Ettamiana follìa
come isola folle d’amore, folle di passione
rossoviva come scorrere nelle vene del dio Nettuno
naufrago sull’impero di veneree vesti, figlie d’Afrodite,
ornate nell’alloro virtuoso di caccia e guerra,
su cui poggiarti, adagiarti nel tuo stanco 
cavalcare onde tumultuose, dopo un lungo viaggio 
fatto di gocce, fatto di rossomare,
nello spremere della terraferma.
Tu consegnavi in cima come un angelo
il seme vittorioso nell’altezza di quelle palme antiche
forti di radici arcaiche, le Neviere 
chiavi delle tue origini.

 


 

Felicità ai tempi del Covid

Come possiamo inseguire il sogno di felicità in una società sempre più impregnata del culto di gratificazione istantanea dove il silenzio dell’attesa porta con sé un prezzo da pagare talmente alto da divenire quasi un lusso? Come trovare una nicchia di serenità nel frenetico pianificare l’architettura della nostra esistenza scandita nello spazio-tempo in un vuoto incessante da colmare? Ora più che mai tutto si riempie di un silenzio assordante simile al vuoto che esiste nella decelerazione dei nostri ritmi, come fossimo in una eterna sala d’attesa, come in un rifugio.

Quel regno pacifico, richiama in noi quella dimenticata bellezza edenica di allentare questa corsa continuamente tesa per rilassarci e distenderci, ricentrarci per ritemprarci. 

E in quell’attimo, in quel silenzio, in quella quiete ci rendiamo conto che abbiamo smarrito qualcosa per strada, il valore, qualcosa che un tempo donava la felicità a molti, quel focolare dell’essere, come una danza mai ballata che risuona nei nostri timpani, nelle nostre memorie, come l’eco di campane tibetane che risvegliano da questo suono assordante avvolgendolo da una vibrazione metafisica che riconduce al nostro essere primordiale, un silenzio vibrante che scioglie le corde tese di quell’arpa ormai dimenticata, la nostra anima, riportando in luce, il dolce suono della nostra quiete, della nostra essenza, della nostra felicità, in quella magia che trasporta l’anima in universi mai conosciuti.

Mai come in questo covidiano periodo epocale abbiamo navigato il surreale silenzio dei nostri ritmi, l’ascolto dei nostri sensi, nell’attraversamento di un flusso emotivo che porta a una rigeneratrice acquisizione di senso nella riflessione profonda sul nostro essere, sulla genitorialità, sui valori tramandati, nel crocevia tra amore e eros, di cura ed accudimento, in quelle memorie venute alla luce dal rinfrescarsi di ricordi residuali di un tempo ormai trascorso, ma vivido nelle emozioni provate. L’arte della felicità dunque, altro non è che il sapore di quel viaggio che rende ognuno di noi l’artista della nostra tela bagnata dal colore vivido delle nostre emozioni, in quell’attesa silente e armonica nell’ascolto del nostro profondo, quel pascoliano essere spesso travolto e dimenticato nei suoi viaggi di bambino dai piedi scalzi in momenti fatti di terra e di strada, spensieratamente umani.