Neve visiva
Ombra che non parli
so che mi osservi.
Ti avverto in ogni boccone,
in ogni occasione sprecata
che mi ha condotto qui
a parlarti di timidezza.
Smetterai mai di seguirmi –
anche nei giorni più felici
quando non ti penso
e per poco m’illudo che tu non ci sarai
- oppure dovrò accettarti?
Accettare è il primo passo
verso la mediocrità;
piuttosto amami.
Scusa se in passato son stato brusco
ma ancora non sapevo
che la luce mi avrebbe accecato.
Ora riscopro la bellezza
di quegli attimi di penombra
passati a pensare al mondo.
A volte riempio più della luce
soprattutto per chi come te
odia stare al sole.
I quaranta giorni
Giornate brillanti di cielo che non si stanca.
La casa non fu mai più stretta;
La paura ci costrinse a guardare soltanto.
Un gioco di somiglianze
Riconoscersi in un quadro
è un lusso morboso
che nessuno può permettersi.
Una mattina col cielo di carta
tuttavia mi convinse
che non sapevo niente di arte.
Il piccolo anfratto spezzato
in un muro di cemento
accolse la mia presenza,
si fece cornice.
Il vetro era la tela
di un quadro a me così familiare.
La solita alba sembrò diversa,
somigliante a qualche celebre
(forse un Matisse madido di colore
se invece mi volto son della Francesca)
mi ricordai le regole del verosimile;
poter essere ciò che vuoi
pur non essendo mai stato
soltanto sulla base di ciò che sei.
Perciò somiglio a tutto –
perché tutto è a mia immagine
se lo guardo coi miei occhi.
A un semaforo
Gracidio è la musica che esce dalla radio
mentre me ne torno a casa.
L’inverno è esploso tutt’intorno
e il semaforo suggella con l’attesa
attimi interminabili davanti a quei fiocchi
di acqua sporca.
L’apparenza regale nasconde il lezzo
nato poco più in là, sotto l’argine,
tra le canne palustri e le nutrie chete.
Ecco il batrace, che si dispiega fin nelle mie orecchie
ed echeggia cantilene che non conosco.
Per quell’attimo mi parve di sentirmi vivo
tra la bellezza di un fiocco sporco
e la suoneria fastidiosa d’un rospo.
Ma poi lo specchietto rivelò degli occhi stanchi
di aspettare un verde, un bianco, un rosso.
E mentre nel colore si riscattava la speranza
nei pensieri v’era soltanto ironia e riso
soprattutto per quel maestro
Che scambiò diàspori per diòsperi.
Child girl
E adesso che nulla mi resta
da ascoltare nella notte, rea
di averci tolto l’abituale
per lasciarci artificiosa luminaria,
ritorna in te il sogno del passato.
Eri molto più di un sole,
la cenere me lo ricorda ogni volta.
L’età innocente ci spense
forse che eravamo sordi
ai segnali di questo mondo confuso.
Eppure fosti complice del nuovo
che da quel momento mi creò.
Perderti è stata la miglior parte
di averti avuto un tempo:
ogni volta ti saluterò
dipingendoti come la bambina
che sei sempre stata.
Oh baby, it’s a wild world.
Elogio della formica
Nelle notti d’estate in cui il freddo
è solo un incubo infantile
e neppure la luna si nasconde,
bagordi e musica nel piacevole sollazzo
mai taciuto, sempre ostentato,
eressero il muro che ci spartisce
tra chi può e fa, chi può e non fa.
Il potere ci è amico (forse apparente)
in questa nuova era del possibile.
Ma l’amica formica non può.
Che sia rossa, nera,
cercarne il guadagno è sterile
perché lei conosce il segreto
celato fra le pieghe del tempo:
qualcuno deve pur soffrire per tutti.
Parlai con quella formica,
a lungo la ringraziai per ciò che
quotidianamente faceva,
conserva che avevo notato
tra i fili d’erba e il concime.
Poi mi volsi al rumore, con lo sguardo
l’accusai; nessuno è più innocente.
Assenza
Assenza è la miglior parte di me
in ogni persona che ho perso,
che ho scritto come un mito
con gesta e conseguenze amare.
Non vidi mai corpo più debole
di quello che si sveglia la mattina
dopo una notte senza senso
ai margini di un umido pub.
E non importa la gloria, la decenza
con cui un uomo ha vissuto,
davanti alla totale sconfitta
di un’epoca col suo disagio.
Assenza è ciò che possiedo
come stemma di una vita
passata tra sogni di musica
e un talento nel creare insensatezza.
Il cielo è uno strato
L’indaco impenetrabile
allo sguardo disteso
disvela il segreto recondito
dei lungimiranti binocoli
di quell’etrusco che ritrattò.
Distante all’apparenza
vicino all’incoscienza
di chi brama gli astri,
uno schermo lo dispose
come una luna punta
da un Apollo o uno Sputnik.
Tocchi lo schermo e avverti il velo.
Cosa c’è dunque di veritiero
in un confine mai raggiunto
se non che qualcuno lo raggiungerà?
E poi, sarà un falso, sarà vero,
sarà nato, sarà generato,
domande inutili.
Ciò che importa è il ceterum:
il cielo è uno strato
e io sono la forbice.
Morti di serie A
«Mangiano pipistrelli ancora vivi,
non bastavano i cani».
«Che poi è tutta una truffa,
l’ho letto in un libro del 2012».
«Lui da solo sulla scalinata,
sotto la pioggia, San Pietro vuota.
È diverso dagli altri, più povero».
«Forse dovevamo fermarci
per renderci conto dei nostri sbagli».
«Baguette e pizza: non c’è partita!».
«Puoi stare con la famiglia, leggere un libro,
ascoltare musica, cucinare un dolce,
fare ciò che non avevi tempo di fare».
«Alle finestre migliaia d’italiani
cantano l’inno di Mameli».
«Voglio vedere quando arriverà
al Sud. Ci ammazzeranno tutti».
«Restare a casa
significa proteggere il proprio paese».
«Quando muore un italiano
muore tutta la sua nazione.
Non voglio dire che ci siano
morti di serie A e di serie B.
Ma…».
*Verba volant
C’è chi parla ma non ascolta
e lo definiamo egocentrico.
Poi c’è chi non parla ma ascolta
e lo elogiamo come un saggio.
È solo tempo sprecato.
L’uomo non parla e non ascolta,
vede soltanto.
Dalle casse esce la solita tonalità
che ci fa intenerire nel caldo di un’auto
oppure ballare con chi forse ameremo.
Ma ogni sentimento è rotto
quando lo schermo ci mostra gesti scontati.
La gente muore, il progresso non esiste,
Dio consola, un bambino piange.
Come fosse oro ce ne riempiamo il petto.
La cronaca non la fantasia, Il meteo non la poesia.
Per sopravvivere ogni parola si frantuma,
nei meandri del vero respira e muore
solo dopo averti ucciso trafitto smembrato
sparso raccolto ricomposto nel mentre.
Disgregazione assemblaggio poesia.
Tutto il resto, verba volant*