Ugo Belloli - Poesie e Racconti

La storia di un amore

 

Surplace: troverò il mio amore?

 

Assenza di trame eversive,

come di stimoli ortodossi.

Anche l’orda dei flagellanti si è rifiutata 

di invadere il tunnel di carne e condono.

 

Striduli canti di faraona o di quaglia

cantano nenie australi

unico elisir per abbracciare 

il tempo della speranza.

 

Colora le foglie di un acero,

un’affettata eloquenza

su altre lunghezze d’onda da me conosciute.

Vigile fino alla noia, ricerco alleati.

 

D’altronde le speranze dei buoni

sono le più passionali,

e solo sul tempo permettono 

ragguardevoli successi a fronte di accordi.

 

Sobrio e incantato rimane seduto 

su di un alito d’ombra l’orgoglio residuo,

e nelle froge purosangue 

il presagio dell’amore fermenta intatto.



Una brezza sicura

 

Uno sprazzo paglierino,

nell’appassionata attesa d’amore.

La veemenza di un sensato maschio

corre su strade sterrate.

Sanguigna si flette la foglia del tarassaco.

Un profilo si muta

e riappare tra gocce d’aprile.

Il nibbio volge lontano

il suo sguardo 

e per alti cirri e orizzonti

aleggia una brezza sicura

per un amore che arriva.


 

Un mandorlo in fiore

 

Una donna fragrante 

Come mandorlo in fiore

Da tempo visita i miei pensieri

E questo è già un fatto inaudito.

Nella mia vita

Troppo indaffarata

Mi dà conforto e serenità.

Quando qualcuno è nei tuoi pensieri

O tu sei nei pensieri di qualcuno,

Anche se sono piccoli pensieri

Allora sì che vale la pena di vivere

Perché non lo fai solo per te

Ma anche per un mandorlo in fiore.


 

Inattesa Musa settembrina.

 

Dopo tanti passaggi di uccelli migratori

in tempi d’attesa e di lavoro,

una musa settembrina ha dato olio e sale nuovo

ai frantoi del mio desiderio.

Con la struggente passione dell’adolescenza,

sulle ali di una farfallina di carta,

ha urtato questo mio cigolante cariaggio.

Ed ora, come su un palcoscenico,

apro il sipario su inconfessabili speranze

e su futuri affascinanti.



La mia donna.

 

Goccia di rugiada sulle mie labbra.

Pioggia di marzo sui fiori del giardino.

Ruscello di montagna che disseta.

Torrente della mia passione.

Fiume che rompe gli argini della solitudine.

Mare azzurro del nostro abbraccio.

Oceano della pace.

E tsunami dell’emozione.



Insieme da un anno.

 

Amore di miele, amore di latte, amore di pane.

Il mio amore è invecchiato di un anno.

Non devo spiegarti chi siamo,

piccole vele perse nell’uragano.

Quando sono con te

e non siamo più in due,

quando il tuo respiro

è l’ossigeno del mio cuore,

allora ho capito chi siamo:

piccole foglie perse nell’uragano.

Amore di miele, amore di latte, amore di mano, 

da un anno voliamo nel cielo in cui siamo.


 

La passione

 

Sublimi mollezze femminee

mi spiano purpuree 

sotto teli attillati.

Stordito da tanta passione

m’inebrio spiando

scomposte stragi di ceretta

sui ribelli peluzzi,

dove il gioco dei piani

e il declivio di Venere

si esalta nel passo aggraziato 

che cela e riapre,

aizzando nell’ombra socchiusa 

l’arcano tormento di questa passione.


 LA CASA

Sto ispezionando la riva destra della roggia, ma più verso nord rispetto a dove ho cercato fino ad ora, anche se so che no troverò tracce interessanti. Già è passato un mese da quella sera di giugno e sono in preda alla più cupa disperazione.

I miei cani mi seguono sempre e sembrano cercare al par mio, ma sono disorientati come e più di me, anche loro hanno perso la casa ed ora dormono accovacciati contro le ruote della mia macchina, stretti stretti  ed incuranti del cattivo tempo, come se non volessero staccarsi dall’unica cosa che gli sia rimasta del loro passato: io.

Quella sera, quando tornai a casa dalla solita partita a briscola al bar, era mezzanotte e mezza. Gorno, Galli e Fusari, mentre stavo giocando, mi avevano chiesto se non fosse ancora tempo di liberarmi di quei tre elefanti travestiti da cani che impedivano a chiunque di transitare tranquillamente dietro la cascina senza essere accolto dai latrati di quella canicola urlante.

Ribattei che quella in fondo era casa loro ed era giusto che se ne sentissero in qualche modo padroni, comunque chi voleva venirmi a trovare poteva farlo in automobile, sicuro di non correre alcun rischio. Per il resto, meno gente girava attorno alla cascina e meglio era.

Come ogni venerdì sera, non appena svoltai con l’automobile nella stradina, con i fanali feci brillare sei occhi gialli laggiù in fondo, allineati come un piccolo drappello di Ussari. Mi vennero incontro,  senza abbaiare, riconoscevano la macchina. Quando mi raggiunsero si avvicinarono ai finestrini per avere le solite carezze. Erano molto agitati, più del solito, tremavano vistosamente, soprattutto Cacao, il più grande, era in preda ad una specie di fremito convulso che lo faceva sobbalzare e guaire lamentosamente.

Non ci badai più di tanto, riaccellerai seguito dai tre animali, le parabole di luce illuminarono le fronde dell’ailanto e curvai entrando nella cascina per infilarmi dritto dritto nell’autorimessa. Con grande sorpresa mi ritrovai nel praticello  di trifoglio umido di rugiada. Le ruote della macchina sprofondarono un poco nel terreno di fresco irrigato. Prontamente innestai la retromarcia e riguadagnai il terreno più compatto della stradina. Ripartii girando verso sinistra dove la stalla chiudeva la cascina verso sud. Niente, non c’era niente, girai in tondo e mi sorpresi di non sentire l’aia scricchiolare sotto i pneumatici. Frenai di colpo. Lì davanti a me il cedro del libano mi diceva che ero già in giardino. E la casa? Dove diavolo era la casa che da sempre divideva la corte della cascina con in mezzo l’aia dal giardino che si trovava a nord  dietro l’abitazione?

I cani circondarono la vettura, fermai il motore e scesi. Gli animali  si fecero appresso strusciandosi agitati e nervosi contro le gambe. Mi guardai intorno disorientato, potevo aver sbagliato strada? Poteva esserci lì vicino un altro posto del tutto simile a casa mia ma senza la casa in mezzo? La domanda era demenziale ma legittima, troppe cose non mi quadravano. La stradina era la mia, la pianta di ailanto all’angolo d’entrata, la siepe di ligustro, il praticello di trifoglio, tutte le piante del giardino, e poi i cani, quei cani che mai si allontanavano dalla casa. E se fosse stata semplicemente una suggestione? O il Marzemino fresco bevuto al bar? Forse aveva complicato un po’ la digestione, o forse ero completamente ubriaco e non ne ero consapevole.

Risalii in macchina, ritornai sulla statale fin quasi in paese, feci inversione di marcia e riprovai a rifare il tutto. Il risultato fu lo stesso. Mi ritrovai in uno spiazzo d’erba bassa e ben tagliata, con un giardino a nord che era il mio giardino, un praticello ad ovest che avevo irrigato il giorno avanti, il campo di mais a sud incorniciato dalle due burmose cariche di prugne, e i cani, i miei cani che mi si strusciavano addosso irrequieti. 

La perplessità divenne terrore, mi aggirai non so per quante ore in quel luogo in cui ero cresciuto, che conoscevo centimetro per centimetro, che faceva parte di me e che ora improvvisamente si sottraeva alla mia vista.

La casa era scomparsa. Ma una casa può scomparire da un momento all’altro? Anche le case possono morire di morte improvvisa? Andarsene perché sono stanche del loro padrone?  La casa è forse solo un’illusione della nostra mente e tutto il genere umano vive ancora alle intemperie come gli uomini primitivi, ma si è costruito dimore psicologiche per resistere alla durezza del tempo e degli elementi? La casa è solo un luogo dello spirito? Ero forse io che non volevo più vivere in quella casa che mi aveva accolto fin da bambino, ma che mi aveva dato anche giorni di indicibile tristezza? Un rifiuto o un desiderio  di cambiare vita possono suggestionare a tal punto un uomo da precludergli la percezione di una cosa che sta davanti a lui? O forse ero semplicemente impazzito?

Queste ed altre strampalate domande si affastellarono quella notte nella mia mente finché l’alba non mi sorprese, esausto, supino sul cofano della macchina con i cani acciambellati ai miei piedi.

Da allora mi aggiro nei dintorni alla ricerca disperata di qualche indizio, ma della casa non v’è traccia. Quelle domande non mi hanno mai abbandonato, anzi altre ben più inquietanti affollano  la mia mente ormai sfinita. I miei cani mi seguono sempre, non so fino a quando. Vivo in automobile, non sono più andato al bar e qui non è più venuto nessuno.


PECCATI IN TERRAZZA

Quel mattino Guido Repere si destò con un presentimento. Non fece colazione, non aveva fame. Man mano che il tempo passava il presentimento diventò sempre più assillante nella sua coscienza. Il tempo nel quale avrebbe dovuto andarsene era vicino. Lo sentiva, pur non avendo nulla di particolare da lamentare riguardo alla propria salute che era sempre stata ottima e lo era tutt’ora.

Si sentiva diverso dagli altri giorni. Una calma inattesa lo pervase, come se il senso di ineluttabilità di quel fatto invece di angosciarlo lo stesse predisponendo ad un dignitoso trapasso. Pensò ovviamente molte cose,  ma fra tutte una in modo particolare gli sembrava opportuno fosse fatta prima di andarsene. E ben presto cominciò a darsi da fare.

Era una fortuna che la moglie fosse andata al mare qualche giorno a trovare la sorella, una complicazione in meno. Avrebbe potuto muoversi più disinvolto nella casa senza timore di preoccupare qualcuno, senza dover spiegare nulla, senza patemi d’animo.

Aprì la vetrata scorrevole ed uscì sulla grande terrazza al primo piano tra i vasi di oleandri e di gerani rossi ben disposti ed allineati. Guido Repere si avvicinò alla serie di fili per stendere i panni che erano tirati nell’angolo est della terrazza. Si rese conto che erano quattro, andavano dal cornicione alla balaustra che in quel punto era stata opportunamente dotata di alcuni piccoli ganci a tale scopo. Ritornò in casa, si diresse in cantina dove trovò dell’altro filo plastificato verde identico e cominciò  a tessere una fitta ragnatela di fili che percorrevano tutto lo spazio sopra la terrazza in ogni direzione, sfruttando ogni più piccolo appiglio, chiodo, sporgenza per legare, annodare, fissare. Il risultato fu ragguardevole, ora di fili ve n’erano moltissimi.

Guardando con un certo orgoglio il proprio lavoro, Guido cominciò, partendo con ordine dal lato est della terrazza, a stendere per bene i propri peccati al sole. Lo faceva con giudizio, prendendoli dalla propria anima e collocandoli uno dopo l’altro ben stesi, esposti ed arieggiati, bloccandoli ad uno ad uno con le mollette stendi panni. Stava attento che nessun peccato impedisse al peccato adiacente di prendere i raggi del sole. D’altro canto Guido pensava tra sé e sé che se a breve avrebbe dovuto presentarsi davanti a Qualcuno a render conto della propria vita, era gioco forza presentarsi bene. Insomma i peccati sono peccati, ma sicuramente dei peccati ben stesi ed asciutti, come dire…ordinati e puliti…avrebbero fatto un’altra impressione…avrebbero perfino agevolato il lavoro di chi doveva valutare il tutto per esprimere un giudizio. Prestava la massima attenzione in quello che stava facendo, procedeva in modo minuzioso in questo esercizio di pre-contabilità dell’anima che lo sembrava assorbile totalmente. 

Il sole batteva forte sulla terrazza esposta a sud, ma Guido non si scompose, benché accaldato mantenne un atteggiamento pieno di decoro, non spogliò neppure la camicia di tela a quadri. Le uniche distrazioni che si concesse furono un paio di spedizioni al rubinetto dell’acqua per dissetarsi e reidratarsi a causa della copiosa traspirazione.

Tutta quanta la mattina se ne andò, Guido Repere non pranzò, continuò anche per tutto il primo pomeriggio a stendere peccati. Non era stato quel che si suol dire uno stinco di santo, ma neppure un peccatore indefesso. Qualche sosta se l’era concessa anche lui. Nel corso degli anni poteva annoverare diversi tentativi di conversione poi sfumati e addirittura una crisi mistica in occasione della morte del suo più caro amico a causa di un male incurabile. Ora, però, si rendeva conto della gran mole di lavoro che si era procurato per l’ultimo giorno della sua vita terrena.

Intorno alle sedici, il lavoro ormai volgeva al temine, ancora qualche decina di peccati ed il gioco era fatto. Guido era rimasto così concentrato nel suo compito da non accorgersi che verso ovest il cielo si era improvvisamente incupito. Un intero settore del cielo si era caricato di un violento color blu cobalto ed  ora incombeva minaccioso. Guido non sapeva cosa fare, la grande nube a vista d’occhio si stava portando a ridosso dell’abitazione; già in lontananza vide le fronde dei pioppi flettere sofferenti al vento. Laggiù si vedevano foglie e piccoli rami divelti e scagliati nel turbinio della tempesta insieme alla polvere sollevata dal terreno riarso di luglio. Più in là il paesaggio ingrigiva fino a sparire dietro la fitta cortina del nubifragio.

Guido rimase immobile ad osservare, non poteva certo ritirare tutto quel che aveva steso in una giornata di duro lavoro. Se anche lo avesse voluto non ne avrebbe avuto il tempo. Comunque non ne aveva l’intenzione, la sua anima era leggera, i fili erano tesi ed ancorati come si conviene, ogni peccato vi era fissato con la sua molletta, se anche qualcuno a causa del temporale si fosse accidentalmente staccato, l’avrebbe recuperato e riappeso in seguito; si sa, gli scrosci di luglio durano quel che durano ed il sole ritorna in fretta.

Un primo alito di vento gli scompose i capelli, poi in un battibaleno scoppiò l’uragano. Guido si rifugiò nello studio e richiuse frettolosamente fuori dalla vetrata un gran polverone di sabbia, foglie, steli d’erba e petali di geranio. Passò velocemente in rivista tutte le finestre di casa chiudendo accuratamente quelle aperte, si ricordò che l’automobile era rimasta in cortile, ma ormai era tardi, lo scroscio dell’acqua si era fatto assordante così come i tuoni che si susseguivano senza soluzione di continuità. Il buio era quasi totale. Corse a staccare tutte le spine degli elettrodomestici per evitare danni ulteriori, poi si avvicinò alla porta della cucina ad osservare. Vide cose che mai aveva visto prima di allora. La quercia secolare che nobilitava il grande cortile con le sue fronde era come accartocciata su se stessa, si vedevano distintamente tegole volar giù dai tetti delle case di fronte, sentì sinistri scricchiolii sulla propria testa e capì che la stessa sorte stava toccando anche al suo tetto. Le persiane sbattevano con violenza, poi, con gran fragore la quercia sderenata dal vento si schiantò al suolo mancando la sua macchina di pochi metri. Quasi subito la tempesta sembrò placarsi, assai rapidamente il vento si smorzò, mentre la pioggia sembrò insistere un po’ di più.

Guido Repere risalì nello studio ed affacciandosi alla vetrata si rese conto che la tormenta aveva rotto tutti i fili sulla terrazza. Non solo. Tutti i peccati erano stati strappati insieme alle mollette stendipanni ed erano letteralmente scomparsi. Attese che la pioggia si placasse poi uscì. I vasi di gerani e di oleandri erano sconvolti, alcuni rovesciati, la passiflora sradicata e scaraventata in un angolo.  Raccolse solo qualche peccatuccio rimasto impigliato qua e là tra i fiori e i detriti. Degli altri non era rimasta traccia, neppure in cortile, la furia del vento li aveva divelti e portati chissà dove, smarriti per sempre.

Rientrò nello studio e constatò che i peccasti rimasti erano davvero pochi. Raggiunse il divano rosso con i peccati residui sulla coscienza e si sedette. Non era poi male, una situazione imprevista che era venuta in qualche modo a modificare tutto il discorso contabile della sua anima. Si sarebbe presentato a Chi lo doveva giudicare con quel piccolo gruzzoletto insignificante di debiti e tutto a causa di quella benedetta tempesta di pioggia e vento. Una specie di inusitata forma di redenzione meteorologica. Non male, davvero niente male! 

Ora si sentiva decisamente più affaticato, si distese sul divano, chiuse gli occhi ed attese serenamente.


LA SIESTA

 

Un raggio di sole s’insinuò fra i due tendaggi a pannello della grande porta finestra che dava sul terrazzo. Colpì la parete di fronte tinteggiandola di una tonalità vespertina.

Luciano Urbinati percepì sul volto il caldo riflesso dello specchio a muro e a fatica si destò. Il riverbero, amplificato dalle bordure molate dello specchio, lo costrinse a richiudere gli occhi. Si drizzò mettendosi a sedere sul divano.

Era intontito, la testa pesante, con la sensazione di avere un peso sullo stomaco. Era una sensazione sgradevole, assai più sgradevole di tutte quelle volte in cui gli era capitato di pranzar pesante ed intraprendere una faticosa digestione.

D’altro canto i piaceri della tavola erano una cosa alla quale non aveva mai saputo rinunciare, e valevano comunque un piccolo prezzo da pagare. Gli capitava spesso di mettere a dura prova il suo organismo, nonostante Alberto, che era il suo medico oltre che amico d’infanzia, gli avesse consigliato più di una volta di darsi una regolatina. Lo stracotto d’asino con polenta sembrava non essersi mosso di un centimetro; il capiente stomaco lo conteneva ancora tutto, affogato in quel bagno di vino nero dell’oltre Pò pavese tanto buono, ma che ora gli rimandava in bocca aspri umori di vinaccia. Gli sembrava di avere un mattone che gli premesse sulla testa, ma anche sullo stomaco e sulle spalle. Anche i piedi erano pesanti come due ferri da stiro.

Si tirò su e si stirò lievemente alzando le braccia e poggiandosi le mani sulla testa. Era sudaticcio. Si  avviò verso l’ingresso dove trovò una camicia grigia che aveva tolto due ore prima, quando si era concesso alla siesta pomeridiana. Lo faceva solo di sabato e di domenica, era un appuntamento fisso del fine settimana. Mentre infilava la camicia pensò che, coricarsi subito dopo il pasto, probabilmente non era stata una buona idea. Sarebbe stato sicuramente meglio andar giù e fare quattro passi per strada, magari il giro dell’isolato per smaltire un po’, prima di crollare su quel terribile, morbidissimo, avvolgente divano bloccadigestioni.

Girò le due mandate del chiavistello, uscì sul pianerottolo e richiuse la porta dietro di sé. Guardò la porta dei dirimpettai, un bel portoncino in legno di Douglas un poco barocco. I Sempronio come sempre stavano litigando non si capiva bene per quale motivo, e lo facevano con tutti i toni folcloristici della lontana Napoli, da dove erano partiti al tempo del loro matrimonio per venire al nord in cerca di lavoro. Sembrava che non facessero altro che litigare. O forse discutevano semplicemente ad alta voce. Fatto sta che anche solo il dieci per cento degli accidenti che si mandavano reciprocamente, sarebbero stati sufficienti ad incenerire un paio di centurie di gladiatori. Quando poi capitava di incontrarli sulla soglia di casa o sulle scale, erano le persone più amabili della terra. Sfoderavano sorrisi a trentadue denti, si informavano sulla buona salute di tutti, cedevano sempre il passo quando il passaggio era difficoltoso e, se erano in coppia, per chiamarsi utilizzavano parole come “amore”, “tesoro”, “cara” ed altre smancerie del genere.

Fortunatamente il portoncino era chiuso e Luciano ne fu contento. Mentre scendeva le scale tastando il corrimano della ringhiera, sentiva le voci dei litigiosi vicini smorzarsi sempre di più fino a divenire impercettibili.

Subito fuori dalla porta d’ingresso, percepì il delicato profumo dell’acacia del leone che abbelliva l’aiola al centro della piazzetta. Là, sopra una panchina, come tutti i giorni, stava leggendo il giornale il vecchio Premoli, inquilino dell’ultimo piano, uomo ancora lucidissimo. Luciano amava sedere spesso accanto a lui il sabato e la domenica pomeriggio e il Premoli, reduce della campagna di Russia, cominciava a ricordare, a raccontare. Era un narratore, colorito e fluido, ed ascoltarlo era come fare un corso accelerato di storia. Urbinati lo stava ad ascoltare in religioso silenzio immaginandosi le immensità della steppa, le atrocità della morte per freddo o per fame, la disperazione e la speranza di quelle formiche smarrite in un deserto di ghiaccio.

Ma stavolta no! Non  aveva voglia di sedersi, di ascoltare, di immaginare, preferì svicolare voltando subito l’angolo di via Alighieri. Il tardo pomeriggio era caldo, ma non afoso, Luciano fu sorpreso perché via Alighieri, che percorreva tutte le mattine per andare al lavoro e che poteva vedere anche dalle finestre del suo appartamento, gli sembrava più pallida del solito. I muri delle case ed anche le foglie degli alberi erano più delicati. La giornata era soleggiata, senza umidità nell’aria, Urbinati toccandosi la fronte per grattarsi, si accorse di aver dimenticato gli occhiali. La vista! Quella benedetta vista che peggiorava di giorno in giorno.

A metà della via intravide la signora Bertolazzi che stava lustrando la vetrina esterna del suo negozio di alimentari. Era una brava donna, ma quando il buon Dio aveva distribuito il silenzio lei doveva trovarsi altrove. Parlava in continuazione con tutti di qualsiasi cosa si potesse parlare pur di poter parlare. Luciano si fermò, ritornò sui suoi passi e fingendo di osservare qualcosa entrò all’interno di un portone. Si appoggiò al muro con la schiena. L’intonaco ruvido gli dava fastidio, ma egli preferì starsene lì un poco; prima o poi la Bertolazzi sarebbe rientrata in negozio ed egli si sarebbe risparmiato i soliti convenevoli inutili. Dopo alcuni minuti la signora era sparita e Urbinati si riavviò per la via constatando che il suo malessere perdurava anche se la sensazione di peso alle gambe era più lieve come pure lo stomaco sembrava essersi rimesso in moto.

I colori della via erano sempre fiochi e gli sembrava anche più stretta del solito. Le grondaie dei tetti davano l’impressione di sporgere in modo considerevole dai muri ed addirittura di invadere lo spazio sopra la via. I muri delle case sembravano piegarsi e rinchiudersi verso il centro e verso l’alto. Era come se il torpore della siesta pomeridiana lo stesse ancora accompagnando deformando un po’ le sue percezioni. Ma  Luciano si sentiva meglio, quei quattro passi stavano funzionando.

Via Alighieri era lunga  e faceva quasi per intero il giro del caseggiato in cui si trovava il suo appartamento. La via formava una specie di grande U che partiva e ritornava nella piccola piazzetta dell’acacia del leone. Luciano continuò a camminare quasi meccanicamente in quell’angusto budello incolore che curvava sempre più verso destra fin quando esso si chiuse davanti alla porta d’ingresso dello stabile in cui abitava. Era di alluminio, stretta ed allungata.

Luciano stava meglio, la passeggiata gli aveva tolto quel senso di peso diffuso. Con passo più sciolto salì le quattro rampe di scale per raggiungere il proprio appartamento al secondo piano. I Sempronio non si sentivano più, probabilmente ne era uscito uno di casa, altrimenti come spiegarsi tanto silenzio? 

Aprì la porta, si diresse in salotto; steso sul divano il suo cadavere era perfettamente composto, come se egli stesse ancora dormendo, notò con dispiacere che le labbra avevano un colore violaceo e così pure le unghie delle mani che erano incrociate sull’addome  come sempre quando si coricava. La bocca era lievemente socchiusa e così pure gli occhi, ma il volto non tradiva alcuna sofferenza. Pensò tra sé che tutto sommato era un “bel morto”, un morto guardabile insomma. Era la prima volta che aveva la possibilità di guardarsi,…di guardarsi dal di fuori, come si può guardare qualcun altro e provò la sensazione particolare di non provare nulla di particolare.