Umberto Coldagelli - Poesie

Lucidi al pari di perle
scendono raggi dorati
tra i rami potenti delle querce
e dall’alto pare fissarmi
senza passione alcuna
il grande orologio che ha battuto
con tocchi argentini di chimere
le stagioni mie antiche e nuove,
esso pure schiavo del tempo
e murato immoto sul campanile
diritto come una lancia
che fora i cieli azzurri
con la cuspide spietata
che sembra recitare dure sentenze
sui capi degli uomini piccoli
che abitano le bassure del tempo
alla luce pallida di mattini
dissipati in turbini di frenesia,
e della notte alla quiete solenne
che dominano i poderosi tocchi
dell’odiose campane che feriscono
i miei orecchi tristi
e quando son rosse le foglie dell’autunno
e poi l’inverno spicca
nel bianco dei cieli e delle nevi
e quando il metallo urlante
si scalda al giallo bruciante dell’estate.

 


 

Una voce soffusa
che avvolge ogni cosa
apre le porte misteriose del sonno
e da un’ora oscura che pare eterna
il deserto m’appare
ch’è diventato il tuo viso,
dopo stagioni lunghe di stanchi ricordi
(pure la tua vita cambiò la mia vita),
e lento s’alza un vapore d’alba
e le lame della luce
trafiggono rossi tetti
e aprono campagne verdi.
Poi nel sole forte ma triste
inizia la folle farandola
delle cicale indomite
il cui canto secco e fitto
come di frana abissale
immensamente occupa il mondo.

 


 

Come una chiara luce
lontana nella notte
che brilla più sempre,
sempre più fulgida
poi che m’attira a sé vicino,
così le cosce di seta e il seno bianco
come farina o neve leggera,
splendono all’aspro sole dell’estate,
e spargendo un soffio
rovente più della canicola
rabbiosa che cuoce i cieli,
anche in me il cuore
afoso diventa
e trepido sveltisce il battito
e quindi rallenta
in ostinate sequenze,
un sogno gustando d’amore,
mentre una tenerezza forte oltre ogni dire
percorre il mio sangue
e pur nel tempo
che furioso calcina le terre
desidero la carne tua
più che spegnere l’arsura
ad una polla fresca
d’acqua ove leggera
tremi l’ombra tua dolce.

 


 

Aprile è mese
d’aria fresca e limpida
quando venti gentili
soffiando dal mare
a dolci ritmi muovono alberi
dall’opulente fronde verdi
e la brezza che m’investe
profuma d’erbe e fiori,
il sole diffonde soavi tepori
e sparge una luce liquida
il cui oro moltiplica i cieli
e l’arco viola del tramonto
s’adagia lontano sulle distese marine.
E tu Aprile, mese gentile
che svegli esseri infiniti
al tumulto dell’esistenza,
proprio faticando alla vita
imponi sentenze di morte,
che solo ciò che mai visse
mai potrà morire;
difatti ecco d’un frullo repentino
la sferza del vento
solleva un turbine
di morti petali bianchi.
Aprile, tenero mastro
col tuo compasso
disegni innumeri archi di vita,
ma, pure, ad ogni vivente
fai gustare la morte.

 


 

Dopo tramonti che ardono le nuvole
a volte l’ampia notte
dagli immensi occhi aperti
alla luce di una luna d’argento
traccia per il domani
un mattino che naufraga
nel sole, e allora i prati
vestiti di primavera
si coprono di fiori di campo
che ondeggiano alla dolcezza
di un fiato di vento
che convince ai sonni e alle paci;
effimeri piaceri, splendori caduchi,
lussi di natura feconda,
ma destinata al secco e al morto,
ordisce la notte
da maternità oscure
e ci inganna impassibile
quasi persuadendo che la vita
in noi pur anco nell’aspra tragedia
ogni giorno celebri
trionfi imperituri, vincendo l’affanno
che noi oppressi affoga
di infinite cose
che sacre sono
al non esser più mai
al pari di noi
che nei tempi tenebrosi
cantiamo su tristi melodie
e ritmi d’ansia
la fine della bella luce
e dei dolci affetti.

 


 

Sale l’alba vergine ancora
dall’onde del mare profondo,
e gioiosa si tuffa nella penombra
delle strade silenti
tagliate dai soffi lenti e duri
dello scirocco, mentre la risacca
furiosa e grave di fatica
digrigna i denti forti
e onda su onda morde
sabbie molli e scogli saldi
e trascina dietro di sé ogni cosa,
quindi insieme a luce, vento e salmastro
muta la pietra sterile,
e grigia rende la multicolore battigia,
poi mugghia più rabbioso il vento
colmando l’aria di brividi,
e scroscia la pioggia con suono di disastri
sferzando di fitti fili e argentei
case, strade, le dune sabbiose,
la mediterranea selva,
bassa e folta
e le distese marine, che l’acqua del cielo
con immenso fruscio
accolgono come sorella.

 


 

Passerà dolce la straniera
nell’aria che brilla di primavera
ch’io la segua rapito da musica incantata.
Si, verrà soave maga
che di plaghe serene sa i sentieri,
che passa i monti e di grotte oscure
carichi di gemme scrigni trae.
Tu fremi invano, vento
vuota voce di mia terra
che lei leggera chiami e vana;
qual mai tributo
di polvere o di fumo
a lei tu devi?

 


 

Grigia è la sera, e la terra
tormentano torbidi torrenti
di pioggia fitta senza tepore,
ma è tardo il suolo a bagnarsi a a chiudere
l’aspre ferite inferte
dal sole ustore dei giorni passati,
e l’acqua fredda suscita brividi
alla mia pelle ancor tiepida,
ma pure sembra prodigio
dolce dopo l’estate furiosa.
Così conosci un mondo di stati violenti
turbato dal fuoco del sole
da vento che urla, da pioggia che scroscia,
spariti i dolci sereni
degli autunni tranquilli un po’ tristi
e delle mattinali primavere gemmanti.

 


 

L’acqua , color di notte,
prese gli occhi
per desideri vani senza rabbia
e un’ansia d’ombre.
Ora si levi di terra il tuo canto
dalla gola potente
a sviare gli occhi dall’acqua
che tinta è di notte
per abbraccio struggente d’ombre
fino al tuo volto di sole
e con mano sicura sii guida
tu che sai tutte le vie
che io non vidi mai
e quando i passi consumino il sentiero
voltati pure indietro
che giù, tra gli alberi
il tuo volto di sole
già illumina, reduce, la mia vita.

 


 

Ricordo la vasta casa rossa
dalle facciate sgretolate,
rovina del vento e dell’acqua:
a fianco della porta di legno antico
attesi la prima volta
appoggiato a una tacita fiera
verde di muschio decenne,
finché emergesti dalle scale
smangiate dal tempo
come il sole in un’alba di luce;
negli ampi interni, nelle dolci penombre
di un mite autunno
nacque un piacere indicibile
per me, per te, dalla tua nudità di seta.

 


 

L’inverno s’è disteso sul mare
senza furia né calma d’acque
che balugina senza sosta un bianco d’onde.
Al confine remoto dove sale
toccando il cielo o un’ombra di cielo
trema sul mare
dietro le nuvole si cela
un sole di porpora.

 


 

Per Lamberto fabbro gentile:
Io amico ti dico quel che vedo
attraverso i tuoi sogni di colori:
dalla terra sorgono fontane di fili d’erba,
mentre alberi dai tronchi robusti
intrecciano rami e fronde
multicolori in un ballo di fratelli.

 


 

Inghiottitoi il mio letto, la mia casa,
abissi i balconi
sopra alberi forti di verde recente,
oltraggi alla mia fibra scarsa,
carceri le stanze di bianche pareti,
come il viso mio dilavato,
e il sole, cui rado mi offro,
con raggi come spilli
alla mia testa che dolora,/
fa più lunghi i giorni desolati.

 


 

Di notte profonda la tua parola
scavò solchi di strazio
seminando questo mattino d’ombre
e il corpo duole
all’umidore del giorno,
il mandorlo fiorisce,
è pallido il viso fisso a leggere
avvisi di gente morta;
mi bagna una pioggia grama
che copre come bava
le rughe dell’asfalto
il cemento delle case,
materia morta e rimorta,
ed ecco, io balzo
ad un suono gaio e minerale
che si sparge all’aria mesta,
ma io parlo e nessuno risponde
e il tempo che batte il cuore s’inceppa,
forse perduto nel tramonto d’ogni cosa.*

 


 

Ancora per il pittore :
Ecco, il fabbro gentile,
dalla chioma di pura neve,
scaglia grani di luce
contro i muri delle notti nere
e accende colori di vita
che con braccia e mani
cariche di pace
svuotano il pozzo triste
dei pensieri oscuri.

 


 

Benedetto il tuo viso acceso
di furia e allegrezza come sole
alla lotta, cimento tenero di forza,
la mano forte tua a levarmi di terra
senza alcun male
tu alto nell’azzurro dei caldi pomeriggi
tra vento di mare e terra,
due uscirono dall’arena dei giochi
e un solo ne resta.
Ma Benedetto lui che dal tempo eterno
disse : e Benedetto un giorno lo faro’
e a lungo mi rissero’ con lui a conquistarlo.*

 


 

Per un amico lontano

Benedetto, nella luce dei pensieri
ora di te solo i grandi
e placidi occhi colorati
dell’oro e del miele
rubati all’insulto degli anni
ma chiusi ai tuoi chiari paesi;
eppure di mille quasar
in un torrente di luce
ancora in giorni divini
s’apriranno al cospetto
dei cieli e delle terre.*

 


 

D’impeto l’acqua a torrenti impazza
scossa dal temporale
sotto un cielo venato di folgori
e gli alberi alla frusta del vento
seminano foglie senza vita
sull’asfalto lucido come d’acciaio,
altre per soffi d’aria violenta
suonano come schiaffi
ai vetri delle finestre
il cui tremito eccitato dal tuono
passa a vene e polsi.
Ecco, diroccata l’estate
che avvampò spazi e tempi,
la stella dei venti segna un lento scirocco
nunzio del maestrale
e d’autunno gaio di raccolti
ma già freddo di malinconia.


 

Amico ti cingeva il vasto cielo
e il tuo sorriso fiorì di morte
ed era autunno,
il sole ancora caldo,
cosi, stanco di quel cibo
inutile per corpo ed anima
lasciasti la terra
ormai triste mensa del nulla.

 


 

Dalla traduzione di una canzone armena che canta la disgrazia e la sconfitta di un popolo perseguitato. La traduzione era brutta e dava poco senso : l’ho ritradotta a modo mio.

“Il mio cuore è come case distrutte
dai pilastri spezzati,
uccelli selvaggi costruiranno nidi tra le nostre rovine.
Voglio gettarmi a morire nell’acqua
sì da essere cibo per i pesci
e per i bambini che pescheranno
tra le onde bianche del Mar Nero;
annegati nella malinconia
come nel mare profondo
nulla possono più i nostri cuori spezzati”.