Vincenzo Latrofa - Poesie

IL CIMITERO[1]

 

Non si ama chi è morto

Cesare Pavese

 

E i venti s’avventano violenti

Sul volger del vespro

Ove vanno a vegliare i viandanti

Figlio dell’uomo

Ora sappi che le vie del mondo

Sono guida al nulla

E che mendace è il tempo

Un attimo fuggente

Di cui si nutre il sempre

 

Già s’aprì per me sotto i pie’ la terra

E solo con un gemito

L’anima fuggì per sempre fra le ombre

E adesso sono l’ombra

Che sono divenuto

 

Soli il silenzio del cimitero

E il mormorio dei venti

Una lenta agonia

Consuma i contorni plumbei del mondo

Dove il buio occulto dell’oblio

Torce il corso degli animi

E polvere oscurando il sole

 

Ella s’allontana

Fra voci che volano e cadono

E vana è la mia voce

 

Crocifisso dal luogo e dal tempo

Andai errando di polvere

Prigioniero d’amore

Cosa eravamo noi?

Mai stati due spiriti

Che dimorano in un solo corpo

 

Ella s’allontana

Il resto è silenzio

Umiliato dal sonno

Cosa sei adesso tu?

Non sembri né nebbia né ombra

Ma le onde della morte

Ti si frangono attorno

 

Ella s’allontana

Fra gli estremi lampi di quell’amore

Cosa siamo ora noi?

L’occhio direbbe vivi

Ma solo ci scambiamo cenni muti

Sgombrando gli occhi dal velo di tenebra

Versando l’anima e il fiato:

“Sei tu l’antica causa

Che ancora l’universo m’avvelena?

Sei il sogno di un’ombra

Sola fra queste tenebre?”

 

Sono il riflesso nitido

E più violento della tua rinuncia

Ad avere una vita

 

Come un fantasma in un sogno che il tempo

Inchiodò nelle sue pene d’amore

Caddi all’infinito

Nel silenzio assoluto

Caddi per terra ansante e muto

Ma chi piange è perduto

Al ricordo e al passato

 

La tua morte cresce

Ogn’istante nel luogo

Illune del silenzio

Nel tuo fuoco che spira e si mesce

Al travaglio di un vento

 

“O caro fantasma rassomigliante

Al mio amore perso,

Un giorno ti ho amata

Per resistere alla felicità

Che mi tenevo dentro

Perché volevo una felicità

Da poter abbracciare

Ma l’infelicità

Protegge un poeta dalla vita

Nell’amore cercai

Il sonno del mio oblio

Di negare la mia finta pace

Di oscurare le nuvole di gloria

Che con me avrei portato

Ma l’amore è un’ombra

Un cancro che consuma

E non è che polvere e ombra l’uomo

Quando la sua stoltezza tenta il cielo

Guardami sono un’ombra

Che torna dalla via pesta del cielo

Solo un’ombra alata

Che ascolta il suo mito”

 

Non si vince la notte

E si perde la luce

Ti sciupi come tutti

In pagine di tempo

Perché sei solo un essere umano

Smetti ora di piangere

Il tempo ti è caduto addosso

 

Affida alle voraci

Melodie dei venti

I tuoi trionfi senz’ali

Figlio dell’uomo

Che vieni da un soffio

E te ne vai nell’ombra

Il tuo nome avvolge l’oscurità

Corroso dalle tenebre

 

Ma tu non hai accettato

La sconfitta insita della vita

E non ti sei abituato

Alla spietata ingiustizia del mondo

La mediocrità e l’anonimato

Sono l’unica scelta

Chi provando a essere diverso

Sfida le leggi vuote dell’amore

Riceve la miseria

Di essere punito

Ciò che a me ti unisce

È il crollo delle speranze effimere

Che in te riponevi

Senza lasciare traccia

Non c’è altro che l’amore

Ma inseguendo la gloria

Hai deciso di morire per vivere

Un’oscurità che è stata la tua condanna

Quale angoscia allora è più atroce

Morire o essere vivi?

 

Levandosi il sole

La viva plaga d’oriente s’infiamma

Il vespro che muore è un’altra alba

 

Come un simbolo senza dolore

Sei per me quest’assenza

E sei quella visione

 

“Ci rincontreremo in un’altra vita

Se saremo ambo sogni

O quando i nostri sogni

Diventeranno amore?”

 

Ma in un attimo solo del tempo

Spiran venti diversi

E tal fine ebbe il corso.

 

 

Madrid, 16 Settembre 2010 – 11 Giugno 2011

[1] Queste poesie sono state pubblicate nella raccolta Canzoni del Tempo (Di Felice Edizioni) di Vincenzo Latrofa


 

L’EQUAZIONE DEL TEMPO

Una nenia sommessa

Canto

Mentre sfuggono le epoche

Ogni fu risarà

E il sarà fu fatto

Un brindisi al futuro

Che da sempre è alle nostre spalle

Mentre muoiono gli dei

E l’uomo continua ad esistere

Solo una goccia nel limo del tempo

 

In quest’immobilità millenaria

I silenzi parlano alle rovine

Sedimentare e dimenticare

Le capitali mutate dal tempo

Solo vaghe rovine del passato

Sedimentare e dimenticare

Lungo il flusso del tempo

Un giorno come altri mille anni

Sedimentare e dimenticare

Che è l’assistere quotidiano

All’omicidio della verità

 

Quando il tempo non era ancora nato

Molte cose aspettavano in grembo

Di essere partorite

Poi il mondo girò frenetico

Le tracce ne furono cancellate

Svanite nella sua perpetuità

Mutarono in storia

Scorrendo tra errori

E ideali sconfitti

 

Mutò la storia e non mutammo in lei

E a soccombere fu sempre l’uomo

Un atomo sul trono

Del creato nel mare

Infinito del tempo

 

Tra le piaghe dei secoli

Gli eventi rispecchiano

La realtà eterna degli uomini

Il tempo presente e il passato

Sono presenti nel tempo futuro

E il tempo futuro

Anch’egli nel passato

 

La storia è il luogo della perdita

E poi della rinascita

Teatro di eterne sopraffazioni

I vincitori d’oggi

Saranno infine vinti domani

Perché si esiste dell’altrui morte

E il male è il collante

Della necessità

Ciò non si abolisce col pensiero

Il tempo ha segnato il suo marchio

E in ceppi dimorano

Tante possibilità estromesse

Ma davvero possono

Essere state possibili se furono

Mai? O fu possibile

Solo ciò che accadde?

Solo il possibile diventa reale

E ciò che è reale è anche necessario?

E il segnale dell’alba

Non è lo scendere del crepuscolo?

La vita dell’altra notte è quella

Di ogni giorno se le cose nuove

Sono quelle obliate?

 

Molte cose ha da dire il lungo

Trascorrere del tempo

Sulla sorte umana

Cogli qual è il ritmo che governa

I mortali: il tempo

E’ sinusoidale tendenzialmente

Un determinismo inevitabile

E l’eternità non è che il rapporto

Della variabile con la costante

Il tempo è come una clessidra

Che si rovescia sempre su stessa

E gli uomini granelli di sabbia

Eternamente nuovi

 

Come un’araba fenice che crea

Una pira e s’immola

Ogni volta si brucia

Rinasce dalle ceneri

Perché vuole ricominciare

E’ l’uomo le cui sciagure arrivano

Commettendo i soliti errori

 

Eppure l’uomo ha ciò che non ebbe

La fenice: una memoria storica

Possiamo conoscere

Tutti gli errori commessi nei secoli

E quando giungeremo

Ad un alto grado di autocoscienza

Smetteremo di fare

Questi funesti roghi

E d’immolarci sopra

 

È tempo che l’uomo fissi la meta

È tempo che l’uomo pianti il seme

Per la sua speranza

La storia non cancelli

Le impronte del tempo

La verità ne è figlia

 

Non si piega ma piega

L’Uomo vero la sorte

Se non si sottomette

Al mero consumismo della storia

La mera narrazione di eventi

 

Se farai della storia

La ricerca del vero

Farai del tempo una forza creatrice.

 

Melbourne, 12 Agosto 2014 – 1° Ottobre 2014


LA PECORA E IL GREGGE

 

Forse troppo caparbia

Per vivere o forse

Vigliacca per morire

Non temi né dio

Né lo stupido volgo

Sei chi soffriva a causa del gregge

Pecora che mediti nella notte

Occulta e quieta

E tutto ciò è una follia al mondo

 

L’esistenza umana è un tramonto

Un furore di onde e un tumulto

Ove ogni ora è più rada la luce

Poi vi è un freddo odore di notte

Soffio che ha fame svanisce e muore

Come rugiada che si è dileguata

 

Non sei più scossa dal sonno insonne

Come in un tormento

Hai spezzato le catene del cielo

Non spezzando le ali al tuo spirito

E ripensi a quando

Serena e riflessiva

Sognavi le opere tue e i giorni

Avendo già misurato la vita

Contro i limiti dell’avvenire

 

Agli adolescenti è difficile

Sentire che cosa sia la noia

Eppure la felicità per loro

È un’illusione ancora lontana

E allora capisti

Che dovevi emergere con forza

Se non volevi che la vita fosse

Opaca falsità

 

Ma chi cerca si allontana e perde

E mentre sta cercando

Si esula dagli altri

E questa è una colpa al gregge

Chi sogna è lo zimbello dei molti

Imperdonabile il suo distacco

Il suo guardare oltre un peccato

 

In una mattina meno buia

Ma ancora piuttosto tetra e grigia

Sfidasti le facce di cartapesta:

Non ho più la vostra falsa coscienza

Ho coraggio di pensare e sognare

Non mi rallegra la vostra sciagura

Ma la distanza da simile sorte

 

Ti fu dato il dono di percepire

Il sublime ma non fosti felice

Il dolore giovò alla saggezza

Dannata in maniera fine e perversa

Ti credettero folle

Eri la follia che rimane calma

Perché vuole capire stessa

 

Vivi di ciò che vive in te stesso

Un giorno griderai sono sola

Non vedrai più la tua altezza

La tua viltà sarà troppo vicina

Al gregge donerai la saggezza

E come il sole tramonterai.

 

Tunisi, 11 Novembre 2013


L’ULTIMO SUSSULTO DI FRANCESCO PETRARCA

 

“Et ignotas animum dimittit in artes”

OVIDIO

 

Lievi le stelle su ombre favolose

Posano, sulla requie della notte

Si annuncia un tenue arco del mattino,

Raffiche aspre minare dolorose

Gemme al passaggio del tempo e rotte

Dal pianto nubi prendere il confino.

Tu, pietoso tenevi il lumicino

Mentre sfogliavi estreme le carte,

Salivi l’orlo del nulla e gli sbagli

Della vita meditasti, i travagli

Che di alloro ne cingevan l’arte.

Spiravi pensieri e canti invano,

Dormente il capo del monte sovrano

 

Respirava piano mentre i bagliori

Che arcani mai più vedesti degli

Umani affetti fragili il fine

Sussurravano precari, e i grigiori

Del cielo sottratti a fiamme eran svegli

Come sogni infranti. Tu, infine

Chiedesti al cor di sperder le spine

Empie che della fiaba eran risulto:

Laura e lo sconsolato dolore

Di lei, dell’incompiuto eterno amore

Cagione di ogni acerbo singulto.

Come frusciata da un calmo manto

E disegnata da un alacre pianto

 

Apparve a frammenti la tua vita:

I sogni, le pene e gli abbagli,

Del tempo il tremito sospirato,

Dal dolore che come acqua trita

Giaceva sull’alveo del core, agli

Anni da te medesmo alienato

E a pertinace fermento forzato

Ti vedevan; del volgo ampio tempo

Fosti ciarla e i porti del dolore

Vano e del mortale fallito amore

Ti cinsero e strapparono il tempo.

Tempo e spazio della breve esistenza

E dell’alma fu Laura, veemenza

 

Che dalla realtà ti tenea diviso:

Il vago lume e le trecce bionde

E il viso del folle ingegno inganno

Voluto, che vivrà in eterno inciso

In un viaggio umano che confonde

Una gloria vana e tremendo affanno.

Il primo rao languì sul volger d’anno,

Un barlume di luce e di pace

Squarciò eterno le cornici dei cieli,

Lambì le membra e le rughe crudeli

E al dolce porto di quiete che tace

Giungesti quando lei pago vedesti,

Il breve sogno in eterni celesti.

 

Ultimo sussulto acerbo e torbo

E il capo su carte fu chino e spento.

O Madre! O Natura! Perchè di egli

E di se medesimo l’uomo è morbo?

Perchè lungi da te, io proteso e intento

In terra e in alma a te figura e svegli

In me un avaro amore per quegli

Quando oramai il miraggio è secco?

Ma mentre io ti bramo Tu ignaro

Mi avvolgi e culli il senso amaro,

Muta assolvi me, inatto ecco

Che vacuo il pensiero si rivela

E partorisce il bordo che in sè cela:

 

Pur ch’io voglia capire i tuoi segreti,

essi inattinti non potrei ardire

in quanto uomo immerso nel divenire.


IL CANTO DEL BOMBO E DELL’USIGNOLO

 

Sei libero da catene del cielo?

Che senso ha quest’intimo nulla?

E queste viti? A che questo stame?

Già la notte adagia il nero velo

Stellato e si semina ostro sulla

Luna che di gelo sparge le lame

Di rai e posa il mondo muto e infame.

Io dalla laterba sporto il pondo

Laido e stanco ch’amen fa stamberga,

Ma si agogna mentre in tana s’alberga

Una posa di pace nel profondo

Oblio della notte che ai mortali

Il sonno rende e a me vita consuma,

Chè i rotti sospiri asconde la bruma

Ed un soffio di vita fra i mali

Io èmpio e i lai la nobile terra

E lo scèmpio entro il seno afferra.

Un sogno dall’eco di sbatter d’ali

Consunto nel giorno appena dimesso,

Ma da me fuggendo avrò sol me stesso.

 

Tu nell’aura volteggi a talento

Tuo e attraverso refoli di nubi

Deridi tùmido i campi imi

Che con provida man a compimento

Portan le cure del giorno che rubi

Nell’ozio fatuo e col canto esprimi

Quell’indicibile nulla e limi

Il vacuo del mondo che riempi

Col futil suono che seco ritorna.

Augello inulto, il desio ti orna,

Proprio tu, com puoi lenir gli scempi?

Augello melato, ch’addolcir sorte

Puoi con l’ostro distinto e dissèti

Il bacio che le terre e l’erbe lieti

Spiran ai venti in seno e all’ignoto orte.

Danzar s’udiva il mirabil canto,

Che lavacro alla laterba fea ammanto,

Augello come puoi che mi conforte,

Lo so, perpetuo amor gita Matrice,

Ma come puoi se il mondo nol lice?

 

Perchè è fango il vertical sospiro:

Se ciò ch’è in terra è madre e l’assoluto

È ombra, all’orizzonte l’occhio miri.

Uomo, che a esser tale dai ritiro

E all’avida mente e altera ceduto

Hai il senno, in sèno almen t’inspìri

Del sogno il dolore ch’a me martìri.

Amiamo qualora amando riamato

Esser si vuole e si puote, perchè giova

A lui il plauso e a me il tallon rinnova?

Vale più il suo canto del melàto

Fecondar la flora? Uomo, o prendi

Entrambe o fine dà alfine ad ambe!

Forse poco cale a te che su gambe

Sei, credo, e il dolor mio non comprendi,

Ma rispondere purtroppo non posso

E ritorno ove in principio fui mosso.

E ritorno ove sconsolato mi rendi,

Astioso e inutile innanzi alla sorte,

Non so se m’è più grave vita o morte.

 

E non udirai acerbo il mio canto

Che piange e implora, ma se ritorno

Al passato è perchè il presente è atroce.

Ma come vorrei alzar l’ali nel manto

E danzar fra i raggi eterno storno

In fin che il sole s’inventi foce

Dello sciabordar trai i venti e precoce

Diporto nelle albe, e la primavera

Vedrò rinnovare per tutt’altre onde

Nelle nubi e nel vento che risponde

Al bradir nel flutto d’una chimera.

E riuscirei così ad errar dai mali?

Delle miserie mie a me luci messe

Furon, e se quanto le sorti le stesse

Restin per quanto le ali cambin tali?

Ma rispondere purtroppo non posso

E rimango ove in principio fui mosso.

 

Sei libero da catene del cielo?

Che senso ha quest’intimo nulla?

E queste viti? A che questo stame?

 

Un sogno dall’eco di sbatter d’ali,

Panacea e non del giorno che fia appresso,

Ma fuggendo in ciel avrò sol me stesso.

 

  1. 36 e 41: “orte” e conforte” sono due variatio dovute a necessità di rima

V.42: “gita” è aferesi di “agita”


 

 AD UNA PROSTITUTA

 

Sulla maschera scialba della luna

Che si lacera in nastri d’asfalto

Eterno emergo dalla notte e chiara

E dolce l’alma mia medita come

Spettro che vaga dalla luce e nelle

Ombre in assoluto e cupo recesso.

Gorgogliare si ode segreto il vento.

E penso e dico che queste stagioni

Lesinano a svanire e rammento

Ai tempi trascorsi: che cosa resta?

E cosa resterà di questi moti?

Strade mie perse e lasse e forse

Non m’assale di voi l’ascoso peso?

E dove mi conducete ignoto?

 

L’aria è balsamo infranto da sassi

E turgida d’impalpabili scrosci

Che vividi si percuotono nella

Mente e le monarchie trascorse

Di questo mondo e anche passiamo

Noi, e la storia e il tempo e il nulla

E il destino a cosa spingono l’uomo?

Turbato dal senso del limitàre

Mio e soffocato da elementi

E dal mondo, è rifugio il mondo

Interiore e la sua vita immensa.

 

Andando per queste strade costretto,

Uno spettro sorse a me innanzi

Con aria grave, che parea sembiante

Fosse di sofferenza. Ferma ella

Piangeva sul ciglio della sua vita.

Non so se sia mero, ma par che disse

Che da secoli attendeva il poeta.

“Non poeta” risposi, “uomo a stento”.

 

Già volgeva innanzi il mio passo,

Ch’ella mi prese per l’ultimo lembo

Con un barlume pietoso nei lumi,

Che sembrò parimenti al mio nel gesto

D’imploro, non son sicuro che disse

Con ghigno sagace che troppo dolce

A loro è stagliarsi nel cielo, il duro

È ascendere in terra e farsi uomo

Per gli uomini, se si è capace.

Da allora mi trovo nel mare della

Poesia che nell’anima era spenta.

 

Che le tenebre mi invadano nella

Loro intensa estasi, che il verso

Oppugni al fianco del tuo male

Remoto e imperituro, che del tuo

Pianto infinito si lavi la voce.

 

Nata dal sole o dalle lontane

Bocche di Cattaro, tu fanciullina

Danzavi nel vento e attendevi

Che la Natura si svelasse teco

A se stessa, e pensavi all’amore

E sognavi la vita mentre il volto

Candido dell’universo la sfera

Tua baciava e non ti toccava

La condizione parca o la raminga

Casa finchè brezza in te sospirava.

Moriva intanto la prima innocenza.

 

Era la notte, che profondo sollievo

Rende alle fatiche e al sognatore

Errante, tu, misera, sventrata eri

Dal tuo letto e per l’altro condotta.

Venduta dal tuo seme, venduta

Dalla tua stessa terra e scopristi

Tutto il peso del primo inganno.

Notte, non fosti sogno: primo sangue.

 

L’uomo può forse osare sì tanto?

E te si accusa Natura, ma forse

Sei tu che ciò concedi? Nelle umane

Menti è il male! Parimenti uccide

L’odio e l’amore che tu concedi

E non, sempre da te vengono mali

Più che rimedi, e non lo capisci.

E coloro che sporcano la persona

Non offendono l’anima ancora?

Perchè se la figura non è parte

Dell’intimo, cos’è? Eppur ti stagli!

Perchè? Per arroganza o per vergogna?

 

La strada non fu tramite di amore

Ancora, ma dove piangerlo asilo.

Affiora la tua memoria dalle

Tenebre, e i tuoi occhi fuggiti

Tacciono come se fossi lontana.

Un’ombra insolita adesso evade

Nei miei occhi pensosi e assorti.

 

Tutto finora perso nel mio mondo

Di carta, avevo sopito l’anima

Del mondo, ma vi sono anche ferìte

Che non possono essere mai sanate

E rive opache ove la sete langue;

Ma sei più vera di tutte le donne

Cantate dalla mente dei poeti.

 

“Non lasciar che il male umano celi

Seco il tuo oblio”. E in terra ascendo.


 

 LA MIA NOTTE

 

“Crimine quo merui, iuvenis placidissime divum,

quove errore miser, donis ut solus egerem,

Somne, tuis? Tacet omne pecus volucresque feraeque

et simulant fessos curvata cacumina somnos,

nec trucibus fluviis idem sonus; occidit horror

aequoris, et terries maria adclinata quiescent.”

 

Mite schiudi vie dell’alma, notte!

E quando in te si mutan del giorno

Gli strazi e le sue turpi onte

In sterminati spazi da silenzi

 

Avvolti, tu tralasci scivolàre

Oltre il confine ogni impuritade,

Si dirada ogni fatica e vapore

E il mondo dalle tenebre a me riede.

 

E quando il mezzadro dal trattùro

Sudato torna a riposar stanchezza,

Stormi di passi nel nulla oscùro

Cader odo, cado alla tua essenza!

 

Amena e astratta ti spargi, notte!

Una monda stilla prende retaggio

Della putredine e delle riotte

E pristino abbacina il miraggio.

 

Della vita sei tu il mio lembo:

Dall’ontano si dilatano ombre,

Ai tuoi segreti mi cingo, al grembo

Materno amor molce questo notturno

 

Languido; mi avvolgi nell’immenso,

A te sol son prono, mia ebbra druda!

Lenta ti posi sullo spirto denso,

A te l’alma mia impavida è nuda!

 

Perchè in te s’incrociano sovente

Le aspre e tetre verità del passato

E le caduche attese del cammino

Si confondono e mi urtano all’ignoto.

 

E quando l’ultimo rao vespertino

Oltre l’orizzonte ormai è caduto,

Le case dormono, ma io che sono

Desto mi oblio nei pensieri, perso

 

Nella quiete oso portare l’alma

Romita innanzi alle lasciate

Giuncaie, e scompare al profondo

Richiamo la valle, tinte fasciate

 

Dal buio mi avviluppano, in breve

L’innocenza varcano e altrove

Fuggono le angoscie, nè l’ontano,

Nè le viti discerno, oltre muove

 

Dal declivio il pensiero, si dissolve

Nell’indefinibile la visione

E la trina della luna in me evolve

In un sottile accordo di passione

 

Che dilata nuvolaglie, frange

Ceneri di cielo e l’universo

Si sveglia nel segreto e distrugge

Refoli e conquide l’animo invaso:

 

Vacilla l’esacerbata coscienza!

Natura, fa mi me il tuo velo!

In questo slargo oltre l’esistenza

Avverto dolore, amore e lo stelo

 

Mio si spoglia della sua essenza

Per te, madre, che ascolti questo figlio

Che geme e si placa nel tuo lento

Fluire, nell’anelito della tua alcova.

 

Rimanti fra le foreste, rimanti

All’oscuro, non uscir dalla notte,

Sole! Lascia dormire i caldi letti,

Fa che siano immote queste emozioni!

 

Natura, fa una cercine di stelle,

Fa della candida luna un orcio

E trascina via da quelle nubi

Ogni sentimento lubrico e sozzo.

 

Poi indossa il tuo arco, con una strale

Dirada la gora e con una malia

Avvolgi la pesta e fumida valle,

Con una procella ardente armonia

 

Rendi e questa notte infinita

Immilla e quella notte scaccia prima

Che da gridi dell’alba lacerata

Sia e inghiottita dal divenire.

 

Fulgida notte, seguita a mugghiare,

Seguita a rapire col tabarro

L’animo, non lasciarmi rantolare

E salir quella notte col suo carro!

 

Sento i sospiri della notte, sento

Fra fremiti danzare i miei sogni

Tenuemente ninnati al vento,

mentre riposano perenni le viti.

 

Vorrei che prendessi usbergo e daga

E partissi questa notte da quella

Orba, immantinenti una porta

S’aprirebbe fra biancicanti stelle.

 

Sarebbe come soffiare alla terra

Sciolta e fulva in un’aria ebbra di veli

Innocenti. Ma sarebbe lucòre

La fuga per errare dai mali?

 

Presto disfatta all’aurora del sole

Verrai, notte! Non più solo un sogno

Domo da un orlo d’incubo, ma vele

Foggiate dal probo amor ch’agogno!

 

Odo solerte la vita cantare

Nel mio petto adagio e piedi

Di luce vagare sulla verzura,

Sull’alma mossa dal tergo di strame.

 

Nella curva del cielo il baleno issa

Il suo elmo sfavillante, tremendo

Bagliore non piega la vista e fissa

Il clivo e viti che tornan salendo.

 

Folgorante ti dilapidi, notte!

Mi strugge perdermi nel tuo confine

Infinito. Scorgo nimbi salire,

in attesa di una rivelazione.


 

 INNO ALLA PASSIONE

 

Voglio danzar sull’onda

Come un derviscio folle,

Voglio seminarmi in un etere

Cosparso dalle zagare,

Via da plumbei confini!

Via da plumbei confini!

 

Ma l’uomo non racchiude l’infinito,

E’ perso nel mondo e solo fra cose

Mortali in un decorso

D’oblio che si agita senza fondo.

 

Solo fra cose mortali, a quali

Modi, a quali forme

A noi è l’esistenza?

Non cessa Sofia d’arrogarsi arte

E non discerne che l’avido genio

Ci leva all’infinito!

 

L’umiliante inezia della ragione

Si vanta delle sue sciocche lodi!

Non capisci, non capisci che forgi

Ferri e catene stringi

Su strepiti reconditi

Dell’umano ansimare?

 

Il raggio candido della feconda

Luna lunge il miasma

Pallido e questa sponda

Langue sino al confine

Del baratro, ove il nulla si plasma,

E fra le vampe spinge

A fluire il delirio

Degli astri in una tenue

Spuma di un cristallo

Mistico ove va in estasi il sole.

 

Nell’infinito volgersi dell’onda

Schiudonsi orizzonti

Dal delicato nettare purpureo

E lumi primitivi

Vibrano sui limiti senza fine

E stagliano tramonti

Nei fuochi ardenti dei miei sensi

Che offuscano la mente sanguigna

Da tiranno esangue.

 

Un’eco di fiaba erge l’oblio

Su steli dal taciuto

Fremito, nel nulla avea compiuto

L’orizzonte una rupe

D’invalicabili distanze cinta

All’uopo del pauroso

Scettro ignoto e spietato genio

A gogna stringe e finge

La faretra a speglio

Ascosa, ch’egli ride

Del pavido splendore.

 

Ho danzato sull’onda

Come un derviscio folle,

Mi sono seminato

In un etere cosparso dalle zagare,

Via da plumbei confini!

Via da plumbei confini!

 

Cadano queste onte di cemento!

Brucino queste brume funestate!

E tu, insieme insulso

Di fallaci credenze

Che l’uomo rendi schiavo,

Che dispregi la vita

E con folli lusinghe

D’ultraterrene fedi

Fai apparire vile

Ciò solo ch’a noi è dato:

Va a rogo, va a rogo!

 

Si erga ancora il cielo

Dell’oblio e offuschi

La lingua vana con bagliori e lumi

Primordiali, O Musa,

Abdica al divin rogo,

Rinforza a me il verso

Affinchè sia all’atto rio

E risplenda al silenzio

Del suo feretro e goda

Nel cingersi ogni culto d’ogni tempo

Del gelo e delle tenebre.

 

Ho danzato sull’onda

Come un derviscio folle,

Mi sono seminato

In un etere cosparso di zagare,

Via da plumbei confini!

Via da plumbei confini!

 

La volta si apra fra fremiti e lampi

E mi lasci fuggir da egri campi

E penetri il viperino raggio

Fra le piaghe del cielo,

Sono ebbro di notte!

Più sinuoso d’un brivido scorro

Nei sogni e nel fogliame

Sfocato vivo tùrbini

Convulsi ed eterni

Amplessi nel danzare

Dei venti avvolgo, non lo capisci?

Sono ebbro di notte!

 

O Natura, o Natura,

Ma non discerni che tutto l’incanto

Che ti orna è vestigia del mio sangue?

E che quando ti canto

Contemplo quel mondo

Che dentro di me vive?

 

Nello sciabordio dei venti esali

Fragori come procelle di sera,

Vedo ciò che l’uomo

Stravolto dall’umanità non riesce

A vedere e danzo

Sul tuo grembo superbo

E nel fragore fulgente invado

L’infinito ammaliato di nèttare

Che agognavo e ardo.


 

 IL CANTO A CASSANO DELLE MURGE

 

Colle mio, che ti levi fra distese

E fra selve ti tessi isolato,

Rimembri quando cielo e paese

Miravamo assieme dal rado lato?

Ricordi forse tuttora di quando

Al vespro eravamo teco al velato

Della lisa quercia e tratteggiando

L’avvenire, le spemi, i miraggi

A noi segreti e interrogando

Sul nostro domani fievoli raggi,

Scevri di malo e pueri innocenti,

Disegnavam di attese retaggi,

Da ombre e crepuscoli intenti,

Ci tendevamo lieti e sinceri

Noi, protetti da infiniti venti?

Rarefatti miraggi non meri

Da spogli eternamente afflitti.

Quercia, ferale o ferace eri?

Quali arcani in te eran confitti?

Vestigia di tenebre frantumate

Non rivelavan ciò a cui si era scritti.

A noi  fulgida face eri vate

E assito, quercia! E miti e oscure

Sospese ad un seno di luna, guate

Eran le stelle e danzando pure

Follie al vento dal sapor proibito,

Scrutavam il fato fra venature

Incorrote, speravam che sfinito

Il sol avesse il buio, fra speranza

Mutava l’orizzonte all’infinito.

Ora che resta di quella esultanza,

Colle mio, unica letizia riarsa,

Solo una reminescenza ch’avanza?

Torno a te, fra cocci d’anima sparsa

A ricercar quella gioia leale

Che appare disfatta e scomparsa.

Perso e conscio l’involucro frale,

Dimenato fra paure e affanni,

Un illune ricordo lo assale!

Trinciato da rovine e inganni

Del tempo e dell’uomo riesco adesso

A veder la realtà nei plumbei panni

Assorta in ombra che muore, amplesso

Mi tiene a te, quercia, della memoria!

Torno a te, mio simulacro dimesso,

Lungi dal mondo e ogni sua scoria,

Ma non si placa l’animo infranto,

Quercia, non fosti di tenebre foria!

Cielo, quanto son lungi dal tuo manto?

Mi dileguo di nuovo fra il cielo

E epa di stelle, ove il loto tanto

A breve è arreso, e mi fanno velo

Poichè par di evadere un istante

Senza inizio nè fine, e fanno velo

Poichè mi parto in eco ansante

Di richiamo e rivedo il fragore

Primo e ogni mia lacrima pesante

È caduta: miraggio ove l’afrore

È estinto, unica utopia di pace

Dal mondo che piega nello squallore.

La luna dona una luce mordace

E mi rapisce il silenzio: ferita

Che invade l’ombra, brezza fugace,

Come compiuta sei e appassita.

 

NOTE

V.4: “rado lato” sta per “radura spaziosa”

V.48: “foria” è apocope di “foriera”


 

 AD UNA PROSTITUTA

 

Sulla maschera scialba della luna

Che si lacera in nastri d’asfalto

Eterno emergo dalla notte e chiara

E dolce l’alma mia medita come

Spettro che vaga dalla luce e nelle

Ombre in assoluto e cupo recesso.

Gorgogliare si ode segreto il vento.

E penso e dico che queste stagioni

Lesinano a svanire e rammento

Ai tempi trascorsi: che cosa resta?

E cosa resterà di questi moti?

Strade mie perse e lasse e forse

Non m’assale di voi l’ascoso peso?

E dove mi conducete ignoto?

 

L’aria è balsamo infranto da sassi

E turgida d’impalpabili scrosci

Che vividi si percuotono nella

Mente e le monarchie trascorse

Di questo mondo e anche passiamo

Noi, e la storia e il tempo e il nulla

E il destino a cosa spingono l’uomo?

Turbato dal senso del limitàre

Mio e soffocato da elementi

E dal mondo, è rifugio il mondo

Interiore e la sua vita immensa.

 

Andando per queste strade costretto,

Uno spettro sorse a me innanzi

Con aria grave, che parea sembiante

Fosse di sofferenza. Ferma ella

Piangeva sul ciglio della sua vita.

Non so se sia mero, ma par che disse

Che da secoli attendeva il poeta.

“Non poeta” risposi, “uomo a stento”.

 

Già volgeva innanzi il mio passo,

Ch’ella mi prese per l’ultimo lembo

Con un barlume pietoso nei lumi,

Che sembrò parimenti al mio nel gesto

D’imploro, non son sicuro che disse

Con ghigno sagace che troppo dolce

A loro è stagliarsi nel cielo, il duro

È ascendere in terra e farsi uomo

Per gli uomini, se si è capace.

Da allora mi trovo nel mare della

Poesia che nell’anima era spenta.

 

Che le tenebre mi invadano nella

Loro intensa estasi, che il verso

Oppugni al fianco del tuo male

Remoto e imperituro, che del tuo

Pianto infinito si lavi la voce.

 

Nata dal sole o dalle lontane

Bocche di Cattaro, tu fanciullina

Danzavi nel vento e attendevi

Che la Natura si svelasse teco

A se stessa, e pensavi all’amore

E sognavi la vita mentre il volto

Candido dell’universo la sfera

Tua baciava e non ti toccava

La condizione parca o la raminga

Casa finchè brezza in te sospirava.

Moriva intanto la prima innocenza.

 

Era la notte, che profondo sollievo

Rende alle fatiche e al sognatore

Errante, tu, misera, sventrata eri

Dal tuo letto e per l’altro condotta.

Venduta dal tuo seme, venduta

Dalla tua stessa terra e scopristi

Tutto il peso del primo inganno.

Notte, non fosti sogno: primo sangue.

 

L’uomo può forse osare sì tanto?

E te si accusa Natura, ma forse

Sei tu che ciò concedi? Nelle umane

Menti è il male! Parimenti uccide

L’odio e l’amore che tu concedi

E non, sempre da te vengono mali

Più che rimedi, e non lo capisci.

E coloro che sporcano la persona

Non offendono l’anima ancora?

Perchè se la figura non è parte

Dell’intimo, cos’è? Eppur ti stagli!

Perchè? Per arroganza o per vergogna?

 

La strada non fu tramite di amore

Ancora, ma dove piangerlo asilo.

Affiora la tua memoria dalle

Tenebre, e i tuoi occhi fuggiti

Tacciono come se fossi lontana.

Un’ombra insolita adesso evade

Nei miei occhi pensosi e assorti.

 

Tutto finora perso nel mio mondo

Di carta, avevo sopito l’anima

Del mondo, ma vi sono anche ferìte

Che non possono essere mai sanate

E rive opache ove la sete langue;

Ma sei più vera di tutte le donne

Cantate dalla mente dei poeti.

 

“Non lasciar che il male umano celi

Seco il tuo oblio”. E in terra ascendo.