Yuri Gatto

Poesie


Il ventaglio
Taormina, 25-07-1998

Ci accolsero,
nel paesaggio di luglio,
il cactus e l’agave
col fuoco dal cielo.

Dal cespuglio uscì fuori un giardino
– era caldo-
riempito di fiori.

Tingevano
d’intesa alle foglie,
al profumo di piante,
il neonato mattino.

Era caldo
e pensavamo ai normanni
che portarono luce nel buio
in quegli anni più nero,
la città dal dominio straniero passava
sottratta a Bisanzio,
ed appesa sotto il giogo straniero,
al valente Ruggero.
Una storia complessa riempiva
goccia a goccia
la botte della nostra voluttà:
sapere, guardare…

Attendavamo feudatari,
dominatori angioini sonnolenti,
o gli arabi musulmani,
i loro resti di spenta ferocia?

Nulla ci poteva aspettare
di più grandioso
di più maestoso
di quel ventre adagiato petroso
sul fianco scosceso del monte,
ventaglio inclinato che orlava,
tra colonne intere e mezze e nicchie cave,
nelle braccia a strapiombo del mare.

 


 

 

Il mare nel cuore

E’ solo,
è triste il gabbiano.
Va basso:
e sfiora le acque grigie di schiuma
in un volo di nostalgia.
Nel lido tace la spiaggia sfollata.

Deserta è anche la casa:
pare morta e senza luce
e il calore che le doni.
La tua vita è il camino
che riscalda il mio studio:
quando manca ed è spento
lo sento.
E nel vuoto io penso al mio pieno,
e a te penso, nel vuoto.
Un soffio che in fuga si perde,
e pare un lamento,
è il ricordo
dell’anima bella che in te ho conosciuto.
Quanto m’ha cambiato il tempo passato con te…

Son sempre la tigre impacciata,
non più così carica d’armi,
eppure pronta sempre a graffiare
con unghie tremanti:
è che ho l’anima nuda,
spogliata,
con te.

E non cerco più di fingere,
di restarmene nascosto
solo e dietro la corazza:
oltre ad essa invece sbircio
spesso timido e curioso
con lo sguardo a osservare la tua stazza.
Finché infine plani,
gabbiana,
su me…

 


 

 

Le chele di granchio di mare

Le tue mani come l’acqua
che vien portata alla mia bocca
e mi disseta-toglie
l’amara arsura.

Le mani tue il fuoco
mi passa sul corpo
e l’incendia,
scoppia dalla pelle il tuono,
il fulmine e il calore.

Son mani bianche,
colombe di calma e piacere,
mani sottili,
penne che sfiorano
e bagnano il torso di carezze.

Mani dolci biscotti,
salati bastoni di pace
che mangio ed ingoio
e mi succhio le tue dita
fredde.

Ghiaccioli che sciolgo
di menta forte
col sudore della mia carne
e dan sollievo al mio dolore estivo
col brivido del gelo.

Mani mi sfiorano la schiena,
il petto e il ventre,
scendono e risalgono,
ritornano al viso barbuto,
come nuvole tentacolari,
bolle di cotone e colla
son soffici e avvinghiano
e, quasi rose fatte a spine,
penetrano nella carne
e non la lasciano.

Sono chele di granchio di mare
Fresche si rinnovano come le onde…

 


 

 

Ulula lontano
23-2-1999

Anche le foglie
si stancano oggi
di stare lassù:
cadono pigre
staccando il cordone
con la terra nutrice.

Così la vita mi è venuta a noia:
lento incedere di nulla,
eventi vacui che non si possono,
in modo alcuno,
riempire.

Vorrei,
foglia tra le tante seccate,
liberarmi del carro grave e ingombrante,
recidere il cordone:
io non cadrei per terra
c’è chi m’ha detto chiaro
che in cielo volerei.

Mi librerei in quel volo
di falco alla montagna
libero sino alla vetta.

Ma chi è davvero libero?
Forse la forza fisica
che lega noi dannati a questa terra
non c’impone lei come madre e tomba?

Come lupo al cielo notturno
Ulula lontano un desiderio espresso e mai realizzato.

 


 

 

L’eterna sospensione
21-5-1999

Pensieri cupi oggi
– cupo giorno –
aleggiano nel cielo della mente.

Gocce di nostalgia piovono stanche,
lente ma inesorabili
fitta doccia di variabili di «sì», di «no»
e di «forse» e di «chissà».

Saranno pure solo scomode queste verità
ma fanno tanto male!

Chiamarle nostalgia
che sono forse rimorsi?
Malinconia, tristezza… crudele indifferenza.

Le gocce più incuranti
mi piovono dall’alto
a me che sono straccio,
bagnato, insudiciato,
nel mezzo dell’asfalto.

Solcato dalle gomme
sto steso appiccicato
più di pelle a una strada sconosciuta.

E non trovo perché del mio sentire grigio;
mai nera o buia notte
preludio della morte,
ma cupa fitta nebbia
né fine né principio di qualcosa:
eterna sospensione
d’angoscia smarrimento.