Braccianti, segretarie di notaio, pizzaioli; vari avventori…
Pettinatrici, badanti; gente di tutti i colori…
MA CE NE SON COSI’ TANTI?!?
Sicuramente + di quanti ne ricordassi avanti!
(Una volta cantavamo tutti “VIVA LA GENTE!”, e adesso?!?)


 

CUCCHI – pasticceria, Milano, 11 maggio 2017

Parlano di donne,

parlano di divorzi,

parlano di donne di divorzi e di bambini…

parlano di liti,

parlano di corna,

parlano di liti, di corna e di bambini…

parlano di talk-show, di “Le Iene”,

parlano di tradimenti,

parlano di talk-show, di tradimenti e di  bambini…

parlano di coppie miste,

parlano di gay,

parlano di gay, di coppie miste e di bambini…

e i bambini, di cosa parlano!?!


 

Le 1000 piccole cose

che mi stanno proprio qui…

 

  • Quando aspetti una telefonata importante che non arriva e non puoi tenere occupata la linea.
  • Avere il cognome che inizia con una delle ultime (o anche delle prime) lettere dell’alfabeto.
  • E comunque, quando la professoressa di Filosofia, non ti chiama neanche – facendo l’appello – perché è una vicina di casa e moglie dell’amico di papà.
  • Finire le cartucce d’inchiostro di Sabato sera.
  • Commessi e camerieri che ti danno del tu solo perché potresti essere loro coetanea.
  • Commessi e camerieri che “Non riesco a dare del tu ai clienti… di qualsiasi età”!
  • Quelli che ti telefonano e ti chiedono: “Chi parla?”.
  • Quando qualcuno in casa ha mangiato l’ultima fetta di torta che ti pregustavi da tutta la giornata.
  • I lavori stradali per la metanizzazione.
  • Quando al bar ti dimentichi di specificare che l’acqua minerale la vuoi non gasata.
  • Quando la fetta di pane che stai imburrando cade per terra dalla parte del burro.
  • Quelli che appena saputo che hai perso il lavoro, il tuo uomo ti ha lasciata e quest’anno hai preso già due volte la febbre cinese, ti chiedono: … ma per il resto, tutto bene?
  • Quando hai già messo i fiocchi di avena nel latte e qualcosa ti impedisce di mangiarli subito.
  • Il baby-shampoo negli occhi.
  • Gli spaghetti spezzati a metà.
  • Gli spaghetti lunghi due volte tanto.
  • Quelli che fanno le “pattumierine” coi cartocci del latte.
  • Prendere per il coperchio i barattoli avvitati male.
  • L’aggiunta di fermenti lattici vivi.
  • Le persone che ti riferiscono delle carognate che hanno sentito sul tuo conto per dimostrarti quanto ti sono amiche.
  • Bere col naso.
  • Le gabine elettorali e i gongorsi pubblici.
  • Quelli che non si fidano tanto.
  • Quelli che si fidano ciecamente.
  • Essere completamente fuori strada.
  • Farsi prendere sottogamba.
  • Quelli che non perdono mai di vista l’obiettivo primario.
  • Quelli che non sanno stare con le mani in mano.
  • L’incrocio magico.
  • Invecchiare degnamente.
  • Quelli che non pensano che ti stai rivolgendo a loro quando chiedi un’informazione.
  • Quelli che pensano che tu sia venuto al mondo per dar loro informazioni.
  • I bicchieri in cui non entra il naso.
  • I bicchieri in cui entra persino la fronte



    SAMBA


    In quel caffè c’era proprio la giusta luce per scrivere: quello che da qualche tempo e con discreto successo avevo deciso di fare per guadagnarmi di che vivere. Sedevo sempre a uno dei tavolini vicino alle vetrate che danno sulla strada. Ecco così farmisi sott’occhio il mio palcoscenico: il supermercato di fronte, l’edicola dei giornali all’angolo con il viale alberato e, due passi più in là, la bocca del metró. Da lì uscivano i miei personaggi, come da dietro le quinte di un teatro. Ultimamente nei giorni in cui non pioveva (peraltro pochi in questa stagione) mi era capitato di notare che all’ingresso delle scale mobili, appena sulla sinistra, si piazzava di buon ora un giovane di colore con un tappetino gualcito su cui depositava meticolosamente, estraendoli senza fretta da un borsone di tipo sportivo, alcuni oggetti di artigianato in legno.

    Quelle tipiche statuine magre, magre (da chiedersi seguendo quali leggi di equilibrio statico potessero reggersi sulle bozze dell’asfalto del marciapiede); quegli elefantini di misure gradualmente decrescenti fino a quello che potrebbe nascondersi in una mano; alcune scatole con elaborati intagli e tantissime collane multicolori che, giorno dopo giorno, parevano aumentare anziché diminuire per effetto delle vendite. Sì, le avevo osservate attentamente, per quanto tenendomi a una distanza tale da non creare nessuna aspettativa di vendita nell’africano che le esponeva. Avevo soprannominato il venditore ambulante “Samba”, che sapevo essere un nome comune in Africa nera.

    Samba non è mai entrato nel bar, non ha mai fumato una sigaretta per quante ore di tempo possa io averlo avuto sotto gli occhi, mai masticato un chewing-gum o altro cibo. E’ alto poco meno di due metri e quando si muove sembra un funambolo. Non compie mai gesti bruschi e le sue mani hanno delle dita affusolate con le quali instancabilmente maneggia la sua merce e talvolta la sottopone a delicate riparazioni rese necessarie qualora abbia subìto piccoli danni durante il trasporto nel grande borsone nero su e giù dai treni della metropolitana. Mi è già capitato di vedere Samba infilarvi tutte le sue cose alla rinfusa, raffazzonate in quel telo sempre meno bianco e scappare via all’arrivo di Vigili Urbani o, peggio, di Agenti in borghese che dopo tanto tempo deve aver imparato a riconoscere personalmente.

    Dal tepore del mio posto al coperto lo compatisco e partecipo della sua delusione ogni volta che vedo qualcuno che gli si era avvicinato allontanarsi con delle smorfie, scuotendo la testa. Non l’ho mai visto vendere nemmeno un pezzo della sua “collezione” fino al giorno in cui un bambino di al massimo dieci anni gli si avvicinò saltellando e sorridendo indicando un cavallino di legno scuro con i finimenti e la sella in ottone. Decisissimo, con una banconota in mano, si mise sulla punta dei piedi per raggiungere la mano destra di Samba, vi depose al centro il suo prezzo e, ricevuto dall’africano un sorriso d’assenso, prese d’un balzo la statuetta equestre e scappò via senza più girarsi.

    Samba dal canto suo, che ormai da tempo aveva guadagnato tutto il privilegio della mia attenzione, premiò la mia fedeltà con un gesto indimenticabile: egli sollevò gli occhi in cielo, fece un mezzo giro sui tacchi, prese salda tra le due mani la banconota e, sollevandola al di sopra della sua testa, la posò poi sulla bocca e la baciò, quindi la strinse al petto abbassando gli occhi e dischiudendo le labbra in una sorta di sorriso… In uno di tutti questi passaggi rituali potei cogliere che il valore del biglietto ammontava a 500 lire

     


     

    SEI SETTEMBRE

    Era settembre e stavo pensando. Pensavo ad Antonio e Lucia. Scendevano da casa sempre prima di me e li vedevo dalla finestra. Giù al supermercato e dopo al bar: fino ad oggi non capisco la logica di questo disordine sequenziale. A questo pensavo quando una figura familiare è entrata nel mio campo visivo: una donna alta quasi come me, ma più sottile e forse anche un po’ più giovane. Indossava dei pantaloni di un colore difficile a definirsi…

    Io sedevo ad un tavolo del bar aspettando un ex commilitone (certo a quel tempo non era ancora facile definirsi altrimenti fra obiettori di coscienza della stessa leva). E poi io e Alfio ci eravamo appena incrociati, in servizio. Perché in effetti io lo avevo sostituito e la nostra amicizia è nata e si è sviluppata dopo e dura fino ad ora. Come se fossimo stati assieme a scuola; compagni di banco e innamorati delle stesse squinziette quasi per gioco. Più che per loro per vedere chi di noi due era più adulto e chi di noi due meno generoso e più auto indulgente. Lucia sembrava proprio una di quelle ragazzine. Nata nel quartiere: come Marzia, come Francesca, come la sorellina di Alessandro che ho sempre lasciato in una sfera impermeabile della mia memoria…

    Lucia è alta, bionda e ha gli occhi chiari. Grigi. Lucia non è quello che si possa etichettare “la donna ideale”;

    Lucia non porta etichette: porta la borsa a tracolla. Quello che più colpisce chi la guardi per la prima volta è il modo inconfondibile che lei ha di portare in giro il suo sorriso: troppo in alto per chi ne ha bisogno; troppo in basso per chi lo provoca. I suoi denti sembrano tantissimi, sono molto bianchi e simmetricamente irregolari… Lucia porta il suo nome in bocca. Antonio è poco più alto di lei, poco più robusto e con uno sguardo vivacissimo e non fugace.

    Lo conosco da tempo, da tanto, tantissimo tempo, ma non l’ho mai colto uguale a se stesso. Non potrei dire se lo vorrei come fratello. Io sono figlio unico, eppure ho sempre vissuto coi miei cugini: maschi e femmine, maggiori e anche minori. Nel mio lavoro, poi, faccio parte di una équipe di 26 persone. Non so cosa sia la solitudine perché, letteralmente, la aborro e non l’ho mai vissuta. Nel mio tempo libero, come ora, siedo al bar. Un bar qualunque e aspetto, pensando, che personaggi come Antonio e Lucia mi cadano addosso. Se non ci sono, li travesto coi visi di altri avventori, come quella donna coi pantaloni che avanzavano tra il giallo senape e l’arancione. Ecco: in lei non era familiare l’attaccatura o la tinta dei suoi capelli; non la falcata decisa o il cappello: quella particolare donna era, o meglio rappresentava – per me – in settembre, l’idea di persona che io stesso sarei stato, avrei cercato di essere,

    se fossi nato femmina.


     


    Non sopporto quando che

    tu non 6 nato dopo di me.

    Non sopporto quando quale

    mi concentro sul tuo setto nasale

    Non sopporto quando dove

    non lasci che mi bagni quando piove

    Non sopporto quando infatti

    siamo diversi come cani e gatti!



    IGNAZIO O LA FORMICA BLU

    Era lì col naso perso, cantava una nenia di stampo teutonico, mentre il piccolo Gianni entrava nel suo sonno pomeridiano del Lunedì.

    Forse un filo di musica riempiva le fessure di quel locale penombroso, forse no.

    Lui pensava che avrebbe telefonato volentieri, ma aspettava che il sonno del bambino solidificasse ancora un po’…

    Clara doveva esserci, in ogni caso, anche sul più tardi, dovendo completare quella sua tremenda ricerca sulle formiche blu del Texas e dell’Oklahoma.

    Fuori era ancora un sole alto, caldo, già semi-estivo anche se insolitamente precoce e a quelle latitudini. Era tutto così piano e normale e tipico da dare ai nervi. Ignazio preferiva non pensarci o forse non pensare, soprattutto poi alle formiche blu di Clara che, a quel modo, giustificava meglio le sue assenze, le sue penibili fughe.

    Ignazio si rendeva conto, per il vero, che tutto stava lentamente ma irrinunciabilmente scivolando via dal piano che così faticosamente lui aveva edificato in più di dieci mesi di lavoro da formica. E lei le formiche le studiava sui libri e nei vivai e al museo dei giardini Palestro, ovunque meno che in lui.

    E poi non era neanche tanto quello, che lo feriva… era l’inesorabile frana di tutto il suo programma. A spossarlo, era quel crearsi di vuoti, quel susseguirsi di pomeriggi uguali con Gianni nel lettino e le nenie nella gola. Era il non poter addormentare suo figlio con il chiacchiericcio fine di Clara e lui che, in occasioni simili sfibrava in accordi baritonali e delicatissimi.

    Tutto questo era ormai mesi che non si produceva e Gianni stesso sembrava risentirne. Il fatto che Clara non fosse sua madre gli era ignoto, visto che Anna era subito morta di parto e lui non ne conosceva neanche l’odore.

    Suo padre, poi, non poteva egli stesso dire di averla amata. Quella sua compagna di giochi del dottore, quella streghina coi codini e le lentiggini… neanche fosse nata in Austria! Eppure era talmente fragile che si sapeva già essere quella la sua fine.

    E anche a questo, Ignazio non amava pensare: non era nato in Novembre, né di nervo saldo. Poi tutto ciò cui è destinato il ruolo di ricordo, non destava il suo interesse. Forse era un Acquario, come impostazione, benché le sue gelosie fossero di chiara matrice taurina.

    Oh, infine, poco importa. Quel che era chiaro è che nell’insieme c’era qualche dettaglio imperfetto e anche imperfettibile, purtroppo, in questo suo momento di vita.

    Era forse Gianni che lo preoccupava? Forse la sua carriera universitaria ammezzata, di triste confronto con la scrupolosità didattica della sua compagna Clara? Il punto è che Ignazio non era un uomo d’azione e il lasciarsi vivere era un po’ la sua prerogativa. Doveva esserci uno stimolo per risvegliare la sua creatività: e – di fatto – Clara per lui era questo. Non gli faceva tanto onore la cosa, ma nel montare quel suo piano, quel suo piedistallo luminoso su cui adagiare la sua stella, c’era il gusto sottile del possesso; il piacere subdolo di rapirla alle formiche, di prenderle del tempo e un po’ di energia che gli era così positiva. Per lui e per l’inconsapevole Gianni. Gianni che dormiva e rubizzava di gote in quel clima spintamente primaverile.

    Era il momento buono per il 684512, e direttamente lo compose, tanto più che l’apparecchio non aveva filo e a parlare poteva andare forse in cucina.

    Nessuno rispose.

    Neanche una formica.

     


     

    Quando aspetti per incontrare un amico,

    aspetti e le ore t’importano un fico;

    t’importa un fico quello che fai,

    basta che tu non ti metta nei guai…

    t’importa un fico la notte o il giorno,

    se non ti disturba chi ti è d’intorno.

    Finché l’amico non entra nella stanza

    e la tensione scende abbastanza:

    non scende del tutto, in verità,

    perché subito ti chiedi quanto tempo si tratterrà.