” 45..46..47. Il mio posto!” Sollevai il bagaglio e lo appoggiai sul sediolino accanto. Non mi sedeva nessuno di fronte o vicino. Feci cadere la testa all’indietro e socchiusi gli occhi. Ero stanco.
Mancava qualche minuto alla partenza quando una sagoma snella prese forma dietro la porta traslucida della cabina. Dopo qualche istante si aprì ed entrò una ragazza, molto giovane, ancora acerba nei lineamenti. Mi guardò silenziosamente, e facendo cenno con gli occhi capì che avevo occupato il suo posto con il mio zaino. Lo tolsi frettolosamente e mi scusai. Poi parlò “Figurati”. Un’unica, solitaria, vagabonda parola, così insignificante, ma sorrisi di gusto.
Dopo poco il treno iniziò a viaggiare, ma io non potevo dormire. Io dovevo guardarla negli occhi e da quel posto non potevo farlo. Mi alzai e mi misi di fronte, e sussurrai “Mi piace stare vicino il finestrino, mi piace guardare la strada” Lei alzò il mento e aggiunse “Anche a me, sembra di volare” E rise, teneramente imbarazzata.
‘Non fermarti, continua a parlare. Ingozzami di pensieri, impressioni, parole a caso’ ma non disse altro.
Faceva freddo, lei indossava un ingombrante pullover, che sottolineava la sua minutezza, ed un cappello di lana color carne che le si adagiava sulle spalle, quasi a riprendere fiato. Ricordo una gentile treccia di capelli castani che le tramontava sulla guancia. E se ne stava lì a giocare con un elastico per capelli, niente cellulare, niente musica. “Dovete ne vai?” domandai all’improvviso. Non me lo aspettavo neanche io. Mi guardò “Dai miei nonni, e ne approfitto per staccare un pò il cervello. Ne ho bisogno, davvero.” Riabbassò la testa, le si infreddolirono gli occhi, le spalle si strinsero al petto e serrò le gambe “Spero allora che troverai la tranquillità che cerchi” risposi io. Non volevo vederla così, come un fiore inumidito. Così le offrii un ombrello, e la invitai a ripararsi. E lei mi raggiunse.
Parlammo per ore, senza sosta, una frase dopo l’altra, spontaneamente. Sorridemmo, ci guardammo. Abbiamo riso tantissimo. Ed intanto il tempo passava, sempre più in fretta, perchè non voleva vederci ridere. Ad ogni respiro notavo un particolare in più. Ad esempio aveva un tono di voce per ogni emozione: tristezza, passione, malinconia. E quando si intimidiva, si aggrappava alla treccia con entrambe le mani, come se fosse l’unico modo per non sprofondare. Aveva una risata delicata, piccola, discreta. E quando si abbandonava ad una risata un pò più scomposta, si copriva la bocca con le mani, come se volesse tenerne un pò per se, solo per se. Ad un certo punto le chiesi cosa volesse fare nella vita, e rispose qualcosa. Non ricordo cosa. Cioè, io provai a concentrarmi su quello che mi diceva, ma quando iniziò a parlare delle sue ambizioni, io mi persi. Ma realmente. Le si dipinse in viso un sorriso così semplice ed intenso che non credevo. Le labbra le si arricciavano di continuo, e quando sbadigliavano dovevo trattenermi dal non sorridere apparentemente senza motivo. Ma c’era un dettaglio che spazzava via tutto il resto, un unico specifico dettaglio. Il suo sguardo. Era sensuale, innocente. Era infinito. Mi ci stavo smarrendo. Avrei voluto che quello sguardo fosse solo per me, l’ho desiderato con tutto me stesso. Io volevo che quello sguardo lo conoscessi solo io. Chiudi gli occhi, ed aprili solo per me. Nascondilo, e spoglialo solo quando te lo chiederò io. Non potrei descriverlo, non potrei. Sentivo però di non poterne più fare a meno. Ad un tratto si ammutolì per guardare il paesaggio fuori. I suoi occhi si coloravano delle sfumature di colore che le piante e gli alberi riflettevano sul vetro. Ogni tanto accennava un riservato broncio, appena percettibile, e si incantava, e con il pensiero galoppava ben più veloce degli occhi.
Amava disegnare, era una piccola artista, ma come tutte le donne non ammetteva di essere brava. Eppure era chiaro non le importasse nulla, a lei piaceva farlo e questo bastava ampiamente. Mi raccontò perfino che amava la pioggia, l’aria fresca e l’odore di erba bagnata. Amava camminare senza una meta e guardarsi attorno, amava i dettagli, le cose nascoste, i segreti. Abbiamo parlato di tutto, e per qualche ora mi sono sentito affamato di qualcuno, per la prima volta nella mia vita. Avidamente le domandavo, e lei generosamente mi sfamava.
Dopo un pò ci guardammo, e i nostri sguardi si presentarono per la prima volta. Il blu dei miei ed il nocciola dei suoi si fusero in un singolo colore, irripetibile.
Ma l’appuntamento durò poco. Abbassò gli occhi e rimasi da solo a fare l’amore. La investì una spietata ventata di tristezza. A momenti rompeva l’elastico che stringeva tra le dita, e il labbro che iniziò a mordersi temevo se lo divorasse. “Non parlo spesso con gli estranei, per questo mi sono fermata” Le sorrisi con gli occhi, ma dentro di me ridevo sguaiatamente. Forse ero riuscito ad imprimerle una lieve impronta. Lo speravo, lo desideravo. Lei, invece, mi aveva marchiato a fuoco nel petto.
Quando mancavano dieci minuti alla sua fermata, mi feci coraggio e le chiesi “Dobbiamo rivederci” con un malcelato tono di profondo entusiasmo. Lei allora mi fissò per qualche secondo e mi rispose “Io mi trasferisco dal prossimo mese, ecco perche sono qui ora” Annuì senza dire altro e le sorrisi forzatamente.
Il capotreno chiamò la sua fermata. Lei si alzò, prese il piccolo zainetto che portava a mano,deliziosamente colorato a pastello, forse quando a scuola si annoiava tra un professore e l’altro, e si voltò verso di me. “Io scendo qui” La guardai e la salutai con un bacio sulla guancia. Adesso che avevo sentito anche il suo profumo,  non potevo più cancellarla. Scese sola così come era salita. Scese dalla mia vita così come era entrata, per sbaglio.
Con quel comico pullover e quelle scarpe da ginnastica un pò malandate.
Non la rividi mai più, e ora sono qua a disegnarne il viso nel riflesso del Sole sul mare. Poi all’improvviso una voce, un profumo, uno sguardo.