Il cammino affannato del viandante

Come è celere il tempo,
egli passa come un ‘ombra
la vedi e non l’afferri
la copri e lei si sposta,
legato dalla vita fatto a cenere dal tempo
preso dalla notte in tacito silenzio.

Sotto di quel monte mi lascio gongolare,
e tu notte fai da curatrice,
la seggiola è li, sul fianco della porta
all’uscio della notte ,al piede del mio tempo.
E suona il liuto,la lira ed il cembalo,
che muovono ,muovono quanto di più caro
su questo mio monte ,ed il tempo e la notte,
la luna si fa specchio a tratturo illuminato
m’aggrappo ad una siepe di felce biancospino,
fuggo dal mio tempo e siedo sotto il monte.
Dimmi monte tu serbi alla vita da scure del passato
e queste tue creature ignare del proprio fato
s’aggirano in silenzio,
e seggo e scruto taccio e penso,
ghirlande di ginestre sul ceppo pergolato di sopra la mia testa.

Dimmi tempo che sarà della sete umana
ostile a tutto il resto?
E tu monte tu siedi da che tempo?

Ed irto è il tuo sguardo
Ed irto è il tuo passo,ed irto sono io,
ed irto il mio tempo.
Eppure a sforzo e a sfarzo di ogni cosa
cammino e scruto,
il giuggiolo che punge quella tela tessuta da quel ragno,
la quercia maestra con foglie sgranellate,
la notte è lieve, la notte è miele
e teme il tempo.
Il vento scellerato spinge sino affondo il tempo,
e veglio,
e chiedo a te notte ,di queste tue premure
cosa ne sarà,
e quanti su questa pietra di inerzia si son seduti
sottratti dal tuo grembo,
e penso,e penso
sul silenzio settembrino di vento a mio sfavore
che appiana quest’alba posata sulla sfoglia d’erba,
il sole è sull’urna del monte svezzato dalla notte
avaro della luce.
E vago errando,scrutando
e penso ,cos’è mutato da qui all’età mia fanciullesca
quando su quel monte sedevo senza meta
e a niente io pensavo,
sole tu che accendi questo monte
perché ti sei mutato da lucerna grana
a solco infuocato?
E dimmi la mia infanzia e la mia giovinezza
seguono te come maestro?
Oppure al contrario del tuo passo vanno.
E taccio al suono delle campane sorde giù in paese che fan festa,
e penso,
quando l’età era lieve gioivo nel paesello
ma adesso sono qui assorto da quel grembo
che sembra immacolato,
e penso,
penso io a che servo ,a chi servo!
Dolce è il suono dell’augello vivace
dell’ aquila maestra e rapace di quel cielo,
e ad onde ad onde nuvolette di pensieri ,
e penso
noi creature oggetto di malarie , malanimo
di logica e pensiero
a cosa ci apprestiamo?
E seggo e taccio,
penso all’umana mano che percuote tutto questo
ignara del cammino che l’aspetta,
sorge il mio paesello, e altri ancora
schiacciando tutto questo.
Umano distruttore non chiedi e poi tremi,
e più tremi e meno vedi tutto quanto questo.
Scendo e m’affaccio innanzi ad un lago
pur egli artificio umano
qui il sole si nasconde
è notte,è notte.


VENIR CON TE

Mi sei tremendamente cara terra,
quando conosci me che son seduto qui
adornato e supplicato dalle tue creazioni,
quando a sera giro scalzo al contrario del tuo passo,
quando sporchi queste mani che ti strappano a dolore,
e trascendi dal mio corpo come scudo
che protegge sale sotto il mare,
come spine a tormentare chi le tocca.
Non mi lasci mai,
non mi cerchi mai e sei li,
stesa assorta dalle nebbie
che perenni pungono il mio gambo.
Prendo spunto da te,
dalla tua bellezza,
la vera e sola parte che mi impressiona
schiacciato da un soggiungere di emozioni
da una suggestiva e singolare abitudine
che contempla la tua anima.
E per te che sono qui
Muto e azzittito dall’irreducibile cospargersi di sapori
dai velieri solitari nella notte
navigando nel corallo vagabondo.

Quante putride volte scordata e calpestata,
derisa e derubata,
sommersa e ripudiata.

Ma tu giocata te ne stai,
sai essere da sola ,eppure mai sconfitta
complessa nel mostrarti.
Le gialle vesti d’autunno,
le bianche vesti d’inverno,
le mute gesta in primavera,
soave rosso in estate,
quanto sei grande che entri nel mio spazio piccolo
che t’apprezza in tutto questo e d’altro.
Non finire mai o io sarò bruciato.

È così che giunco a te
senza manco la freschezza che donasti
quando ancora spoglio e tenero all’età della mia infanzia,
tu che a volte tenebrosa ci minacci
ti sollevi con il vento sino all’aria,
tu che piangi sin dai cieli con la pioggia,
tu che muovi con tremore ogni cosa a questo mondo.

Perdona queste infauste mani che non sanno cosa fanno
quando cieche di colore ti percuotono a dovere,
che non son nemmeno degne di un tuo frutto
di un tuo sguardo
o terra
di quante angosciose giostre umane ti sei nutrita.


ALL’ITALIA

Che rimane delle falci che mietevano il tuo grano
nel soave emozionale stivaletto a tricolore
ondeggiato sotto un mare costellato da ornamenti,
sei tu la natia terra del solenne giuramento?
Non mi sembra se ti mostri cosi spenta.

Che ne é stato dei vessilli ,sventolanti
a tua immagine e fierezza
colorati dalle braccia combattenti,
in quei dorsi tenebrosi a versi spenti
dirompenti nei navigli del silenzio
che spaccavano quei cuori quasi arresi.

Questo avverso sentimento di persone
che si tingono a signori del pianeta.

Ci stringiamo a cantare il connubio della notte
noi che menti costruite sulle tracce del passato.

Eremita ,partigiana e combattente
io mi siedo nel candore arroventato
e mi accascio su un ricordo pianeggiante
che rimbomba con la voce del tuo nome
nel pregare sul nevischio colorato dal tuo sangue,
noi pensieri camminanti sulle orme della storia
e sia voce a richiamar le giuste odi del tuo tempo.
Quanto è fine il tuo scorrere nel ruscello
dissipato da quei pianti del coraggio
in risposta a quei dannati distruttori del mio tempo,
tu a tre lati e tre strati nel pioviscolo notturno
quasi affranchi la mia vita da viandante ostinato.

Le tue alpi si dividono nell’abbraccio delle valli
con un cantico di sommerso ed orato turbamento
e compongo taciturno il poema del silenzio
in speranza del risveglio delle menti addormentate.

È sempre più remando che m’affliggo ,
ma cos’hanno da tremare!
E la riva schiaccia anche questa pallida amarezza,
di tela in tela come esile e grezza tessitura
ci chiediamo di chi fosse la cortezza d’esser nati.
Vieni a me che sempre attento
al tuo docile versante di promesse,
e son qui a condannare tutto il resto in una voce
dal tuo pianto che si spoglia della cera di stoltezza
in risposta a quei tremendi condottieri di ossa e pietra.
La vedetta del Gianicolo che rimbomba
ci fa onore e ci divide poi scendendo

O Italia se ti svegli e ti riveli
quante serpi di cristallo fai tremare,
tu che scendi da Torino alla Roma imperatrice
sino ancora ad un’esule barchetta di Sicilia,
e ci abbracci coi tuoi mari
agghiacciati dai più freddi sentimenti.
Io mi chiedo quando questo finirà
e mi serbo queste riga che già lacrimano al tramonto ,
in tuo segno volgo il grido
richiamando alla battaglia
i soldati esulati sull’altare dell’assenzio,
ove pongo il mio sguardo
lì son certo ascolteranno ,
giacche son le periferie le più dimenticate,
in quei borghi dell’inganno che s’affliggono ridendo.

Queste membra celeranno quel dialetto
di dolore mentre passa il candeliere con la fiamma quasi spenta.

All’unisono quei cuori fatti ferro dal coraggio
nella terra dei cervelli,
ora sorge dalla storia degli arditi combattenti
e riprende ciò che è.

Hai violini mi rivolgo che si sono affievoliti
ai maestri della pietra come eterni monumenti,
alla docile scrittura
che si esprime abbandonata
in quei fogli di clemenza così scura.