A spasso in Paradiso

I mortai e le cannonate furoreggiavano per tutto il territorio infestato dalla battaglia. I soldati americani cadevano come mosche attaccati furiosamente dalle mitragliatrici e dai carri armati tedeschi nella campagna padana.
Tom, giovane di nemmeno 25 anni, con il suo fucile si era riparato in un fossato. Ma tremava, mentre pallottole e proiettili gli fischiavano intorno. Balbettava un padre nostro. Cercava di prendere la mira, sparando a casaccio. L’ordine era di resistere, in attesa dei rinforzi. Il suo tenente era stato ferito, ma aveva raccomandato gli uomini di obbedire: non far avanzare il nemico, opporgli un’accanita resistenza fino all’arrivo dei rincalzi e degli aeroplani.
Tom vedeva i compagni morire intorno a sé. Era colto dal panico. Ma sparava, sparava, sparava come un automa. Udiva le grida di dolore e di orrore dei compagni e il crepitare delle cartucce, cercava di resistere,non al nemico, ma alla sua paura, al suo terrore, al suo sgomento. «Non indietreggio! Non scappo!»: erano questi i moniti, che nella sua mente s’imponeva di rammentare a se stesso. Dopo qualche istante di esitazione, corre avanti a zig zag, schivando i proiettili e le schegge nemiche, mitragliando all’impazzata. In quei momenti non pensa, non vede, non sente. Lui e la sua arma sono una cosa sola. E la sua arma sputa fuoco. La sua voce: grida disumane di orrore e di terrore. Tom raggiunge un’altra buca e vi si butta dentro a pesce. È il momento di respirare, riprendere fiato, raccogliere i pensieri. L’ordine è quello di resistere, bene lo si sta eseguendo egregiamente. Si chiede dove sono i suoi compagni, il sergente e il tenente caduto. In preda al panico di nuovo, si sente solo.
Finché intorno a sé non esplodono granate nemiche. Restare nella buca significa salvarsi la pelle. E un altro soldato s’infila dentro, affannato. I due s’incrociano con lo sguardo. Si scambiano cenni d’intesa e sguardi. Sono di nuovo fuori e corrono sputando fuoco. I sangue di Tom ribolle di rabbia e di paura nel contempo, ma avanza, avanza, avanza. Una pallottola lo prende di striscio. Cade semisvenuto. Ma il fragore della battaglia è tale che si risveglia di colpo. Fa mente locale in un secondo. Il suo compagno di prima è sparito. No, è lì: colpito, caduto, morto.
Lui riprende a correre. Piange. Lacrime gli bagnano le guance e gli annebbiano la vista. Le cartucce del suo fucile mitragliatore sembrano interminabili. Ma a un certo punto l’arma s’inceppa. Impreca. Si protegge dietro un tronco d’albero, toglie il caricatore e lo reinserisce. Il mitra spara ancora. Ma intorno a sé non scorge il nemico, che si cela dietro gli alberi, i cespugli, le rocce, l’erba alta. Intorno a sé vede solo cielo, erba, sassi, alberi e… i compagni cadere.
No. Non vede solo questo. Ma gli sembra di rivedere il padre, la madre, la sorella, la fidanzata, la sua casa, la sua terra, il Massachusetts. Ha un grido di dolore. Delle pallottole lo hanno centrato in pieno petto. Non sente nemmeno più le grida dei compagni: «Barella! Barella!». Sono solo pochi istanti. Dove si trova ora? I suoi pensieri lo portano a quando era bambino. Ed ecco che corre di nuovo. Ma non c’è più la guerra. C’è una pianura. Ma è molto più bella. Vi sta andando a spasso. Non indossa una divisa. Non porta l’elmetto. Non ha un’arma in mano. Sta andando a spasso. In Paradiso.


Il tuo caldo abbraccio

Il tuo caldo abbraccio,
che piacevole trappola hai ordito!
La mia anima si lascia avvolgere.
Nuda.
Perdendosi nell’Infinito.


Una stretta al cuore

Il sole troneggiava nel cielo di un azzurro carico e spandeva una luce e un calore che donavano gioia a ogni essere vivente sulla terra, persino i colombi e i passerotti, i gatti randagi e i cani al guinzaglio dei loro padroni, mostravano avidamente di godere di quei raggi luminosi e pieni di tepore.
Anche Ilaria apprezzò quell’inizio di giornata limpida e serena di un autunno mite e sgombro di nuvole. Sull’asfalto le foglie cadute e quelle danzanti nell’aria si accingevano a formare un lungo tappeto di color caffè, dove le ruote delle automobili o delle moto circolavano con il rombo dei motori quasi attutito. La bicicletta di Ilaria correva come un cavallo alato lungo il tragitto che la portava al lavoro e il sorriso della ragazza faceva trasparire che quella gioia intensa provata sul momento era solo sua e ne era gelosa.
Il negozio in cui lavorava aveva ancora le saracinesche abbassate. Poteva prendersela comoda. Fermarsi al bar vicino e fare colazione: cappuccino e cornetto, serviti al banco in mezzo a clienti ancora addormentati oppure inquieti e in ansia per un altro giorno da trascorrere con le sue identiche, solite e monotone abitudini.
La giovane stava sostando davanti a un semaforo, l’ultimo prima della piazza dove, in una via trasversale, era situato il negozio di abbigliamento in cui lavorava come commessa. Sentì d’un tratto uno stridio di ruote dietro di sé. Ma non si allarmò, voltandosi notò un’altra bicicletta, più piccola della sua. A tenere il manubrio erano due manine. Avrà avuto dieci anni. Indossava un maglione chiaro che faceva risaltare ancora di più la pelle bianchissima, color latte, del suo volto di bambino. Aveva uno sguardo intenso e tenerissimo. Come quello di tutti i bambini del mondo. Che chiedeva protezione e di dedicargli un po’ di attenzione. Seppure dimostrava un’aria decisamente indipendente, e per nulla smarrita. Ilaria e quel ragazzino, entrambi a cavallo di una bicicletta, si fissarono distrattamente. Pensò di sorridergli, lo fece, e le labbra di quel bambino s’aprirono per ricambiare il sorriso e mostrare due piccole finestre ai lati delle guance.
La cosa strana era che quel fanciullo non era accompagnato da un adulto. Circolava solo sulla strada, addirittura sul viale centrale, dove le automobili potevano costituire un pericolo per quelle due piccole ruote quasi invisibili. Il bambino rivolse a Ilaria una domanda esplicita: quale strada faceva e se poteva farla anche lui. La richiesta suonò strana alla ragazza. Ma di fronte al candore dell’infanzia rispose con dolcezza. Indicò il nome della via e gli consentì di fare un pezzo di tragitto insieme a lei. Avrebbe voluto chiedergli dei suoi genitori o se aveva dei fratellini. Non volle indagare. Il verde del semaforo non glielo permise, o meglio i clacson delle auto impazienti di ruggire sull’asfalto avrebbero di certo soppresso all’udito la sua voce, e così la sua attenzione ritornò alla strada davanti a sé, si riaccomodò sul sellino e fece ruotare con energia i pedali. Ma non mancò di raccomandare a quel ragazzino che poteva seguirla per un po’.
Mentre pedalava, la curiosità fece capolino nella sua mente e nel suo cuore. Chi era quel bambino? E perché se ne andava tutto solo in bicicletta? I suoi genitori perché non stavano con lui? Ancora un paio di isolati e avrebbe raggiunto il negozio. Il bambino la seguiva: era allegro e provava piacere nel lasciare volentieri che il vento gli spettinasse e arruffasse i capelli.
Ilaria si voltò di nuovo. Un ciao detto con un tono di voce gentile, tenero e vivace la sorprese. Il bambino cambiava strada, si allontanava, e di lui non avrebbe più potuto sapere né il nome, né l’età, né dove stavano o che facevano i suoi genitori. Fu una stretta al cuore. Una sensazione di tristezza le pervase l’animo. Era lei la persona adulta che avrebbe dovuto prendersi cura in quel momento di quella creatura, perché il bambino a lei si era rivolta. Ma non aveva preso nessuna iniziativa, aveva solo acconsentito che lui la seguisse con la sua piccola bici da passeggio per un tratto di strada. Le saracinesche del negozio erano ancora chiuse. Poteva entrare nel bar e fare colazione. Forse avrebbe potuto invitare quel bambino a entrare nel bar e offrirgli un bicchiere di latte e una pasta. Per tutto il giorno quello strano incontro la turbò. Ma non ne parlò con nessuno. Nemmeno con la sua collega, che era mamma di due bambini. Forse sarebbe stata la persona adatta a cui accennare di quel bambino da solo in bicicletta che si era avvicinato a lei: la sensibilità di una madre poteva comprendere meglio qualcosa e diventare complice di quella sensazione di malinconia, che le aveva trasmesso quel ragazzino sconosciuto, solo, su una piccola bici da passeggio, in mezzo a un traffico anonimo, quella mattina d’autunno insolitamente rallegrata dal sole.


Sono legato a te

Sono legato a te
come la nuvola al cielo,
come la luce al sole.
E né vento, né tenebra
ci separeranno mai!


In un mare profondo

In un mare profondo
m’immergo felice!
Dentro i tuoi occhi
– qualcosa mi dice –
vi si trova tutto l’amore del mondo!
E tu me lo trasmetti
in ogni cosa che vedi,
che senti, che tocchi!


È bastata una carezza

Il mio cuore:
un abisso di miseria,
dall’inquietudine e dall’oscurità
insidiato, tradito, violato.
Poi sei comparsa tu.
È bastata… una carezza.
Restituendomi della vita
il profumo, il battito, la bellezza.