RIORDINO COSMICO

Mancava poco alla sua nascita. Tutto era stato preparato per la venuta dell’intelligenza suprema che avrebbe cambiato il corso degli eventi su un mondo bisognoso di guida e di cure.
Nel profondo vuoto siderale una supernova stava per scagliare il frutto di passioni cosmiche. Il suo ventre di luce, calore e fuoco, si sarebbe sgravato da una gestazione durata eoni.
Ora il frutto era maturo e poteva adempiere al compito per cui era stato concepito.
L’intensità di luce aumentò alla contrazione cui seguì l’improvvisa espulsione del neonato Messia. Il tutto in un silenzio assoluto, poiché il vuoto assorbiva ogni suono.
Una bolla di nulla circondata da luminescenza intensa si staccò dalla supernova e prese a vagare nel mare siderale in cerca della meta cui era destinata sganciandosi dall’orbita materna.
Vagò per millenni crescendo in volume e intelligenza, finché l’istinto di cui fino ad allora non aveva avuto coscienza, la fece deviare verso la periferia di una galassia ricca di stelle e pianeti chiamata “Via lattea”, per la bianca scia luminescente che la caratterizzava.
Individuò il tondo sasso cui era destinata e, dopo aver sfiorato il sole si immise sulla rotta di quella sfera azzurra e del suo piccolo satellite d’argento.
Si eccitò all’idea della missione che l’aspettava, ed il cuore racchiuso nel vuoto protettivo come una placenta, si mise a battere più forte.
Quando fu vicina, si lasciò attirare dalla gravità del pianeta, atterrando su un grande campo verde e solitario.
L’intelligenza pensò di aver sbagliato posto, visto che il mondo da redimere era abitato da esseri che da secoli aspettavano la sua venuta.
Decise di aspettare l’evolversi degli eventi e rotolò in un angolo del campo, in attesa.
Era così immersa nei suoi pensieri che non si accorse di un ostacolo sul suo cammino, e si ritrovò prigioniera in una rete.
Improvvisamente sentì un boato simile a quello di un’eruzione solare, che la spaventò.
Come spuntati dal nulla, uno sciame di esseri vocianti ed esagitati apparve tutto intorno al campo, mentre un gruppo di essi vestiti con una stana divisa, correva verso di lei.
Due mani la presero e la sollevarono in alto, sopra quella che sembrava l’imitazione mal riuscita di un globo, come lei.
Il boato si ripeté più forte quando fu scagliata violentemente in un’altra rete, opposta alla precedente. Tutti si alzarono gesticolando e urlando “GOAL”.
Capì di trovarsi nel luogo giusto ed intuì che quegli esseri che la rincorrevano erano i sacerdoti del culto per cui era stata generata.
Rotolò trionfante e felice sul campo capendo di poter istruire e dominare i suoi adepti trasmettendo loro la sua vuota intelligenza.
Nel nulla c’era spazio per tutti e quella sarebbe diventata la palestra perfetta per allenare le loro menti.
Avrebbe creato altri vuoti simili a lei e li avrebbe sparsi in quel mondo bisognoso di guide rotolanti.
Era iniziato il cammino verso un cambiamento epocale di quella razza primitiva che, grazie a lei avrebbe ritrovato l’equilibrio raziocinante e si sarebbe rimessa in partita per vincere il derby con la propria ignoranza.
La strada per giungere alla perfezione fu lunga, cosparsa di sangue e lotte, ma alla fine bastò pronunciare solo il suo nome per far sì che l’ordine del vuoto regnasse sovrano.


LE MILLE SPERANZE CHE CI AFFLIGGONO

O. uscì da casa presto quella mattina di Maggio, era nervosa e si sentiva oberata di impegni che considerava tutti importantissimi e irrinunciabili.
In realtà l’unica cosa irrimandabile era il pagamento della bolletta del gas che, se non saldata, avrebbe comportato una mora consistente.
Il resto poteva attendere: le scatole di pomodori non erano indispensabili e neppure l’insalata fresca perché il pranzo e la cena, per quel giorno, erano rimediabili. La città era piena di rosticcerie, bastava sceglierne una ma lei, quel giorno, non aveva la serenità necessaria per dare le giuste priorità alle cose.
La giornata uggiosa e non certo primaverile non aiutava il suo umore già grigio e rugoso come la carta vetrata, che scricchiola fastidiosa se la si tocca.
Scelse come prima cosa di andare al supermercato per caricarsi di cose inutili ma assolutamente irrinunciabili, riservandosi la seccatura della posta come ultima tappa.
Restava la visita all’ospizio dove era ricoverata una vecchia zia che a stento la riconosceva, ma verso la quale si sentiva in obbligo morale, anche se ne avrebbe fatto volentieri a meno.
Trafelata, perché voleva fare rientrare tutti gli impegni nella mattinata, si mise alla guida diretta all’ipermercato del rione.
Il parcheggio era semideserto alle 8,30 del mattino e lei poté addirittura scegliere il carrello meno sporco, ma l’ansia le gonfiava lo stomaco e la fretta non le faceva godere il piacere di girare tra i corridoi deserti.
Pagò alla cassa con la carta di credito, sbuffando a causa dell’interruzione della linea e guardando male la cassiera che, gentilmente e con il sorriso sulle labbra, si scusava per il disguido.
Finalmente uscì, riempiendo il bagagliaio della macchina di sacchetti biodegradabili, pieni zeppi di prodotti inquinanti ma insostituibili per un bucato perfetto, poi si diresse verso l’ospizio.
Quel luogo di parcheggio in attesa della morte le dava angoscia e doveva fare uno sforzo su se stessa ogni volta che ci entrava.
Aveva comperato le caramelle al miele tanto care alla zia, che trovò come sempre davanti al televisore con tutti gli altri ospiti dell’ospizio.
I vecchietti guardavano senza vedere, sentivano senza capire, non parlavano perché incapaci di esprimersi e pensare: non volevano pensare.
Speravano che altri pensassero e vivessero per loro, si erano arresi alla palude della vecchiaia.
I loro occhi erano vacui, i loro sorrisi erano maschere che accentuavano un’espressività ebete, avulsa dalla realtà.
Chissà se quei poveri anziani capivano la disgrazia in cui erano precipitati, accantonati in una sala comune davanti ad un moloc preposto a sostituire affetti, attenzioni e carezze?
Forse qualcuno sì, forse qualcuno ancora sperava di tornare a casa per morire nel proprio letto, forse sperava di essere amato anche se puzzava di piscio e naftalina.
Ad O. si strinse il cuore, combattuta tra pietà, rabbia e fatalismo.
Sperò di non arrivare mai a quel punto, di non perdere la ragione imprigionata in una foresta di spine con il cervello ferito che cola ricordi e consapevolezza.
La zia la salutò scuotendo il capo, come i cagnolini di pezza sul cruscotto delle macchine,
e allungò la mano verso le caramelle. Ne scartò subito una e si mise a succhiarla come se fosse l’unica dolcezza in grado di assaporare.
Come molti, era seduta su di una carrozzina, da cui non si alzava se non aiutata.
Un passo dopo l’altro O. la portò ad un tavolino del salotto, cercando di iniziare una conversazione, senza riuscirci. Se ne andò dopo venti minuti, sfinita da quella visita dovuta e inconcludente, sperando che nessuno si accorgesse della sua fretta.
Mancava un quarto a mezzogiorno e sperò di arrivare in tempo alla posta. C’era traffico e rimase imbottigliata in un ingorgo causato da un camion che non riusciva a fare manovra, bloccando la strada. Si augurò che arrivasse in fretta un vigile per dare una multa alla macchinetta che aveva parcheggiato in divieto di sosta, obbligando il tir a quella manovra e gli automobilisti ad aspettare che si districasse la matassa.
Nell’attesa, O. si rosicchiò tutte e dieci le unghie e le pellicine annesse, facendone sanguinare qualcuna.
Guardò sconsolata il risultato della sua impazienza pensando che mai avrebbe avuto le mani perfette, per cui era inutile sperare in un miracolo della manicure e nella ricostruzione delle unghie. Avrebbe fatto indigestione anche di quelle e a caro prezzo.
Devastata dall’ansia si mise a suonare il clacson, contagiando tutta la fila davanti e dietro di lei e, finalmente, il camion si mosse tirandosi appresso tutte le macchine.
Arrivò in posta all’una, un minuto prima che chiudesse e sperò nella comprensione dell’impiegata che, vedendola agitata e tutta rossa in viso, le permise di pagare la bolletta, facendole però presente che non l’avrebbe favorita una seconda volta.
O. la ringraziò a denti stretti ma, disse, mancava ancora un minuto alla chiusura dello sportello e che quindi, era suo diritto essere servita.
L’impiegata non commentò, limitandosi a guardarla con sufficienza e sperando, in cuor suo, che la bolletta fosse fuori tempo massimo per farle pagare il massimo della mora.
In preda al panico, O. si precipitò in macchina fissando l’orologio, angosciata dal terribile ritardo che stava accumulando.
Doveva ancora preparare il pranzo e suo figlio sarebbe tornato da scuola tra venti minuti!
Decise che si sarebbe tolta dai pasticci con i surgelati nella speranza di accontentare il figliolo, molto esigente in fatto di cibo.
Arrivò a casa, sperando di trovare il parcheggio nei pressi, ma non fu fortunata perché tutta la via era occupata: fu costretta a mettere l’auto in garage sobbarcandosi il peso dei sacchetti della spesa per un bel tratto.
Ansante, sudata, scarmigliata e con il trucco sfatto, camminava lungo il marciapiede sperando che qualche gentiluomo si offrisse di aiutarla, ma era già tardi e la via, deserta.
Finalmente aprì la porta di casa con l’affanno di un malato di cuore e, buttata la spesa in un angolo, si precipitò ai fornelli con la testa che pulsava.
Mentre i surgelati friggevano, preparò la tavola e, puntuale come un orologio svizzero, arrivò il figlio esclamando:
“Spero che tu abbia cucinato qualcosa di buono. Ho una fame nera!”
O. fu presa dal panico ma, ostentando autorità e mettendogli nel piatto le crocchette di pollo, lo aggredì con:
“C’è solo questo, spero che ti piacciano. Stamani ho avuto talmente tanto da fare da non riuscire a preparare altro”
“Speravo proprio che tu facessi le crocchette mamma, ne avevo veramente voglia”
O. si sedette, svuotata di energie, inappetente, con una gran voglia di cioccolato e notizie belle in tivù.
Il telegiornale stava trasmettendo immagini dal Giappone sulla centrale nucleare ed il commentatore, parlando di contaminazione radioattiva, esprimeva la speranza che si riuscisse a raffreddare il nucleo in breve tempo.
Lei sperò che riuscissero a scoprire l’assassino di quella povera ragazza, a sistemare i profughi di Lampedusa, a vietare la vivisezione, a debellare il tarlo asiatico, a sospendere i programmi spazzatura, a ripristinare l’educazione civica nelle scuole. Mano a mano che scorrevano i titoli, lei sperava e sperava e sperava!
Il figlio, satollo, si ritirò in camera sua e lei si mise a sparecchiare pensando a come occupare quel pomeriggio uggioso e grigio che non accennava a migliorare.
Sperò di farsi venire qualche idea originale e gratificante che non fosse solo quella di preparare la cena e, poiché le piaceva dipingere, decise di prendere colori e pennelli per dar vita ad una tela immacolata.
Raccolse qualche oggetto di casa disponendolo sul tavolo per copiare una ‘natura morta’, un tema a lei molto caro e tranquillizzante.
Il tempo passava tra uno schizzo e l’altro, una pennellata e un ripensamento, una sosta per il caffè e il sapore dei colori ad olio in bocca, perché aveva il vezzo di spremere i tubetti con i denti.
“Mamma, ma come ti sei conciata?!”, la rimproverò il figlio. “Non sai che alcuni colori ad olio contengono del metallo e sono tossici? Spero che tu non ti stia avvelenando!”
Lei sbuffò, sperando che il ragazzo si facesse i fatti suoi e la lasciasse libera di gustare i suoi colori, anche se tossici.
Alla fine guardò il risultato dei suoi sforzi e ne fu soddisfatta, sperando che lo fosse anche il marito, sempre molto critico, perché figlio di un pittore.
Speranza inutile perché trovò immediatamente un sacco di difetti sulla prospettiva, sordo alle sue spiegazioni e paragoni con famosi pittori che, ad arte, avevano trascurato quella regola.
Sperò di essere capita, di essersi spiegata con l’esigente consorte, ma i suoi sforzi risultarono vani di fronte alle ferree regole geometriche.
A cena, a tavola, si parlò come sempre dei fatti del giorno e lei elencò tutti i disagi sopportati entrando nei minimi dettagli esprimendo la speranza di giornate meno frenetiche per la sua resistenza psichica e fisica.
Mentre parlava il marito ed il figlio l’ascoltavano in silenzio, scambiandosi sguardi complici fino a che uno dei due sentenziò:
“Ti stai esaurendo, devi prendere la vita con più calma”.
Lei ci pensò su, poi convenne che avevano ragione, sperando di ricordarselo anche il giorno seguente.
Dormì tutta la notte, aiutata da una tisana alle erbe miracolose e il mattino successivo si svegliò fresca e riposata.
Splendeva il sole, l’aria era tiepida, perfetta per una partita a tennis, il suo sport preferito che praticava con il marito.
Insieme decisero di giocare un’oretta nel circolo dietro casa e lei sperò di non rovinarsi la schiena, come era successo l’ultima volta, per colpa di una torsione che l’aveva bloccata un mese intero e costretta alle cure di un fisioterapista.
Fortunatamente sgambettò sul campo senza conseguenze e sperò di continuare a farlo per i mesi a venire, fino all’estate, quando si sarebbe dedicata al nuoto, sempre sperando in una buona stagione, naturalmente!
L’inverno era stato brutto e piovoso e le vecchie malelingue sostenevano che era preludio di un’estate altrettanto pessima. Sperò che si sbagliassero.
Soddisfatta e felice, scaricata da tutte le tensioni, piacevolmente stanca ma con la mente libera, si sentiva pronta per una seduta dal parrucchiere, sperando che non sbagliasse il taglio come l’ultima volta.
Prese appuntamento per il pomeriggio e alle 16 era comodamente seduta sulla poltroncina del salone a rimirarsi davanti al grande specchio che esaltava ogni più piccola ruga.
Decise di affidarsi alle amorevoli e costose cure dell’estetista sperando in un risultato duraturo che le togliesse una decina d’anni, costringendosi a credere nei miracoli ‘ senza se e senza ma’. Espressione molto in voga nel mondo politico ma senza speranze di essere attuate.
Rimessa a nuovo, scintillante e fresca come una pesca, tornò a casa sperando che il marito si accorgesse di quella giovane luminosità e levigatezza che le rischiarava il viso.
Si sentiva pronta ad affrontare tutto, era come rinata, un bruco divenuto farfalla in grado di volare negli azzurri cieli dell’ottimismo e a posarsi sui petali di una roseo futuro.
L’ospizio, la zia, le impiegate arroganti, le code nel traffico, i carrelli sporchi del supermercato, i bollettini meteo, i programmi spazzatura erano piccole cose, sciocchezze ingigantite dal suo malumore, dalla sua ansia ingiustificata che giurò di non provare mai più.
Ma tutto, prima o poi finisce, anche l’ottimismo e i buoni propositi perché per lei era in agguato una dura prova: la morte improvvisa della zia e la burocrazia per l’eredità, che lei sperò fosse consistente.
L’esistenza di una cassetta di sicurezza, vuota, che la vecchietta aveva sigillato con un lucchetto di cui aveva perso la chiave, fu la goccia che fece traboccare il vaso.
Alla presenza del notaio, di un funzionario delle imposte, della responsabile bancaria delle cassette di sicurezza, di un fabbro munito di tenaglia, si procedette a recidere il lucchetto.
L’ansia l’assaliva ad ondate nell’assistere a quell’operazione domandandosi a cosa mai servisse tutto quel cerimoniale per un contenitore vuoto.
Lo capì quando ricevette la parcella del notaio e l’eredità lontanissima per le lungaggini di un iter pensato per favorire le banche.
Sperò che bruciassero tutte in un unico grande falò che avrebbe annunciato l’inizio di una nuova e serena stagione, come facevano i contadini nel medioevo per propiziarsi un buon raccolto.
Passarono i mesi e la vita continuava tra alte e basse pressioni, stanchezze immotivate ed esaltazioni che sfioravano il lirismo, speranze deluse e speranze sperate, luci e ombre buttate sulla tela, parole scritte e parole pensate, consapevolezza del tempo fuggente e tentativi di ingannarlo con creme e tinture, palestra e testardaggine.
E l’amore? Quello c’era, da sempre rifugio sicuro nelle braccia di suo marito. Non era una speranza, ma una certezza, una ricchezza, una vincita al Superenalotto. La sua famiglia era un Superenalotto! Ma allora, perché talvolta si deprimeva e non aveva fiducia nelle sue capacità di recupero, che poi scopriva di possedere in grande quantità?
Gli esseri umani sono una razza ben strana e Dio sa benissimo che ci dobbiamo guadagnare la speranza con la fatica di vivere e lei non faceva eccezione, quindi doveva impegnarsi.
Le venne in mente il noto proverbio che sentenzia:‘la Speranza è l’ultima a morire’ e i proverbi sono saggi perché basati sull’esperienza di intere generazioni, ragione per cui doveva fidarsi, accantonando quel po’ di diffidenza che la accomunava ad un altro proverbio: ‘Se non vedo, non credo’. Che fosse una piccola ‘Tommasina’ glielo avevano detto in tanti, ma tra i suoi difetti c’era anche la testardaggine.
Poiché era anche introspettiva e volendo elevare l’atto dello ‘stirare’ ad un impegno letterario, tra uno sbuffo di vapore e l’altro, si accinse ad elucubrare sulla qualità delle tante speranze che ci tormentano, rendendosi conto che nel corso della sua storia l’uomo aveva imparato, a nutrire, concepire, sorridere, sorreggere, balenare, esaudire, svanire, dare, infondere, togliere, avere, riporre, Speranza, barcamenandosi più o meno bene in un dedalo di reggenze verbali.
Per non parlare degli aggettivi che la definiscono: poca, molta, debole, fondata, calda, fervida, ultima,vana, ecc. ecc.
Ma quella che più ci è rimasta impressa e ci perseguita mettendoci di fronte alle nostre responsabilità è la minaccia di Dante: “Lasciate ogni speranza o voi ch’entrate!” e che poi ci consola con : “Da caldo amore e da viva speranza, Che vince la divina volontate”.
E se la Speranza ha “Fior del verde” o “un fiorito e verde prato”, ben vengano tutte le sfumature di questo colore che ci bea di cinabro, smeraldo, veronese in tutte le varianti di chiari, scuri, brillanti.
O. si sentiva rinfrancata, rincuorata, rinvigorita da tali immagini pittoriche che cancellavano la tetra inquietudine in cui stava per precipitare.
O. pensava, filosofeggiava sul significato teologico del termine, mettendo sulla bilancia le sue speranze e giunse alla conclusione che essa, per essere profondamente significativa, deve nascere dal dolore e non da sciocchezze passeggere.
Si vergognò di sperare perché non ne aveva motivo. I profughi avevano il diritto di sperare, i poveracci, gli ammalati, quelli che combattevano per una vita più giusta, i cassaintegrati, le donne sole, quelle maltrattate, gli orfani: l’elenco era lungo.
Tuttavia il verbo ‘sperare’ era sulla bocca di tutti: dei ricchi e dei poveri, dei miseri e dei fortunati, delle collaboratrici domestiche e delle gran signore, dei potenti e dei tiranni, (forse ). Anche qui l’elenco era lungo.
Si rammentò di quando andava a scuola, alle elementari, e la maestra faceva coniugare i verbi; a chi rispondeva esattamente dava una caramella che prendeva da un cestino poggiato sulla cattedra.
Il verbo ‘sperare’ fu preso in considerazione in ritardo rispetto ad altri perché fu data la precedenza agli ausiliari, ai modali, al verbo ‘amare, vedere, fare ecc. ecc.’, sviscerandoli nei tempi e modi che l’analisi grammaticale esige.
Quando si arrivò a ‘sperare’, il tempo verbale più difficile da imparare fu il condizionale, non solo per le desinenze impegnative che inceppavano la lingua, ma anche per quel senso di incertezza che suggeriva.
Quell’“io spererei di essere promossa”, implicava già il dubbio, l’incertezza della promozione.
Mentre “io spero di essere promossa”, era più tranquillizzante, lasciava una concreta speranza di esserlo, era scaramantico.
Poi c’era il fatidico “speravo di essere promossa” che sentenziava la disillusione, il dato di fatto ma, ancor peggio, era il passato remoto che, con il trapassato, chiudevano la questione in attesa della punizione con annesso disonore e vergogna; almeno a quei tempi.
Ora è tutto diverso, i tempi ed i modi della speranza si sono livellati su uno standard di piatta semplicità, vale a dire il presente indicativo.
Ma i ragazzi, cosa sperano oggi? Si chiese O. preoccupata, riconoscendo che la speranza è un diritto, ma anche un dovere per tutti.
Perché senza speranza non c’è futuro e i giovani sono il futuro, ma se non sperassero cosa succederebbe?
Tale dilemma prese a tormentarla, spingendola a visioni catastrofiche di un mondo fatto di zombie dal corpo palestrato e l’anima vuota, da seni tondi come palloni e facce da bambola che giravano con l’IPad di ultima generazione, gli occhi incollati sul touchscreen, immersi in un mondo virtuale che speravano fosse quello reale.
Rabbrividì, sforzandosi di scacciare al più presto dalla mente un simile orrore, e l’unico modo per farlo era quello di distrarsi, confrontarsi con l’opinione di altri nel modo più veloce e attuale: il computer.
Lo accese collegandosi a Facebook per proporre la sua amicizia a degli sconosciuti sperando di avere risposte convincenti e consolatorie.
Ricevette di tutto e di più con commenti di straordinaria varietà interpretativa ma, alcuni di essi la spaventarono; uno in particolare che accusava la speranza di essere l’oppio delle menti deboli, l’alibi dei vigliacchi, il sostegno dei pavidi e altre oscenità.
Non poteva accettare una simile interpretazione, frutto di una parossistica schizofrenia sfociata in un cinismo estremo e sostenuto da un pessimismo esistenziale pericoloso.
O. decise di farsi paladina della Speranza prendendo le sue difese contro tutto e tutti, ma un tale impegno necessitava di un approfondimento sul termine partendo dall’etimologia:sperantia, latino e, sul suo biglietto da visita, fece aggiungere la scritta” impara a sperare”, con grande meraviglia di tutti coloro che le chiedevano spiegazioni.
Lei era ben felice di accontentarli e, grazie alla speranza, fece nuove amicizie.
Scrisse un articolo sull’argomento e, per evitare ripetizioni, si affidò ad una serie di sinonimi per nominarla come: aspettazione, desiderio, sogno, miraggio, lusinga, speme, prospettiva, possibilità, ma nessuno di esso riusciva a rendere il concetto come il termine originale.
Per tale ragione non si preoccupò di ripeterlo all’infinito a costo di apparire monotona e priva di fantasia.
Scoprì in sé una determinazione che non pensava di avere e con essa la pazienza che, con la speranza, andava a braccetto.
Infatti, chi spera in modo frettoloso, non ne ha benefici ma dubbi ed incertezze, con il risultato di diventare cinico.
Ci vuole pazienza e dedizione per capire la speranza e accettarla come discreta compagna, forse pedante, a volte capricciosa, altre oscura, ma indispensabile consigliera per sopportare una giornata storta, un periodo difficile, una vita dura.
O. era felice di averlo scoperto dopo anni di ignoranza e ‘bicchieri mezzi vuoti’, convincendosi addirittura che ‘non tutto il male viene per nuocere’, prendendolo come motto del vivere quotidiano.
E cosa, se non la speranza, poteva produrre un simile cambiamento?
Si sentì forte e sicura di sé, pronta ad affrontare le piccole e grandi avversità… sperando di riuscirci.
Quei puntini di sospensione raccolti in un angolo del cervello potevano risultare inadeguati al suo nuovo stato d’animo e dare l’impressione di essere un labile paravento dietro cui nascondersi in caso di necessità.
Tuttavia la prudenza non è mai troppa e bisogna essere pronti in caso di necessità, in quel momento remota, molto remota.
Per fortificare la concretezza della sua speranza, le affiancò l’aggettivo fondata, e il verbo esaudire non ritenendo gli altri consoni alle sue aspettative.
Infatti se si può contare su una fondata speranza, si è certi di non sbagliare, di essere nel giusto e, quindi, esauditi.
Questa logica, a monte di tutte le elucubrazioni precedenti, non faceva una grinza ed O. si predispose a seguirla militarmente, senza farsi sviare da ripensamenti, tentennamenti, dubbi o trappole psicologiche di vario genere.
Uscì di casa diretta in centro per fare alcune spese, senza darsi una priorità e pianificare l’ora del rientro.
Non si preoccupò di trovare parcheggio dove avrebbe voluto e il traffico congestionato non intaccò la sua pazienza.
Per il pranzo, avrebbe mangiato all’ora del rientro e suo figlio si sarebbe accontentato di un panino al prosciutto. Non era disposta a sopportare proteste e neppure a sentirsi in colpa per un giretto in città.
Era di ottimo umore e ben predisposta verso il prossimo, anche con le impiegate arroganti.
Trovato un posto macchina in un parcheggio sotterraneo, si apprestò ad una lunga camminata per arrivare a destinazione. Pazienza, la giornata era bella ed una passeggiata non le avrebbe fatto male.
Camminava da un po’ ed iniziò a sentire un fastidio dietro il tallone della scarpa destra che le fece storcere la bocca: forse le stava venendo una vescica perché i mocassini erano nuovi di zecca anche se, provandoli, li aveva trovati comodissimi.
Entrò in una farmacia per comperare dei cerotti e risolvere quel piccolo problema, prima che le rovinasse le giornata.
Medicato alla bell’è meglio quell’inizio di vescica, riprese il suo giro per compere concedendosi anche una sosta al bar per un cappuccio con brioche ripiena al cioccolato.
Seduta ad un tavolino all’aperto si guardava attorno soddisfatta, con la gente che le passava accanto.
Senza che se ne rendesse conto, si mise ad osservarla per indovinare a che tipo di speranza si appellassero in caso di bisogno.
Un giovanotto aitante, vestito all’ultima moda Dolce e Gabbana, fu il primo della lista ad essere classificato guadagnandosi l’appellativo di” belle speranze”, subito seguito da uno studente dall’aria trasandata, esageratamente emaciato cui stava a pennello un “di poche speranze”.
Una donna anziana, claudicante, sorretta da un bastone rappresentava certamente le “speranze vane”, mentre per la ragazza giovane e procace che la seguiva la speranza era “fondata” e “calda” per il ragazzo che la stava fissando.
Un gruppo di stranieri accompagnati da una guida turistica con un cartellino rosso, potevano ritenere la speranza “fervida”, mentre per la loro guida era senza alcun dubbio “molta”.
O. si stava divertendo e fu sfiorata dalla tonaca di un sacerdote di “viva” speranza che la riportò all’urgenza di continuare il suo giro.
Fatti pochi passi dovette fermarsi perché il piede le faceva molto male, come se la scarpa fosse di due numeri più piccola: non solo il tallone la tormentava, ma anche la cipolla dell’alluce che sembrava volesse forare il cuoio.
In quelle condizioni non poteva continuare ed aveva due scelte: o si comperava un paio di pantofole o chiamava un taxi per tornare.
Poiché era vanitosa optò per la seconda soluzione, sperando che il piede non si fosse troppo rovinato compromettendo l’uso di altre calzature.
Ecco che la speranza aveva fatto di nuovo capolino in una circostanza banale e lei era stata colta impreparata da quella piccola trappola mentale.
Giurò di non ricorre più alla speranza se non in casi gravissimi e, composto il numero per la chiamata del taxi si piazzò sul bordo della strada, seccata e di malumore, perché la giornata non era riuscita come se l’era immaginata.
Il tassista arrivò dopo cinque minuti e lei si liberò del tormento restando con il piede nudo.
L’uomo parlava, parlava decantando la bella giornata di sole e inveendo contro il governo per i tagli alle spese, sperando che cadesse al più presto.
La sua era decisamente una ben “misera” speranza se confidava in una soluzione veloce della faccenda!
Lei taceva, quel logorroico bla, bla, bla la infastidiva, sperando che il viaggio fosse quasi finito.
Speranza volle che il traffico fosse esiguo e si trovò davanti al portone di casa senza accorgersene.
Si rinfilò la scarpa, pagò e salì in casa zoppicando. Avrebbe portato i mocassini dal calzolaio quello stesso pomeriggio per farli allargare, sperando che servisse.
Ma era giovedì, il giorno di chiusura pomeridiana dei calzolai ad eccezione dell’artigiano che lavorava nell’ipermercato del rione.
O. si stava innervosendo perché non aveva concluso nulla di ciò che voleva fare, anzi tra poco sarebbe tornato il figlio affamato come un leone e lei si sentì una cattiva madre incapace di nutrire a dovere il suo cucciolo.
Trafelata scongelò una bistecca nel microonde e preparò un contorno di patate fritte, gli occhi fissi all’orologio della cucina per non perdere neppure un minuto.
Aveva ancora quella familiare sensazione di gonfiore allo stomaco e ingurgitò un Maalox sperando che passasse.
Speranza”vana” perché al gonfiore si aggiunse il dolore che, unito al fastidio al piede tutto incerottato, la fecero sentire intrappolata nel caos delle responsabilità.
Il figlio divorò tutto mentre lei riuscì solo a mangiare un boccone davanti al televisore che sciorinava una notizia più catastrofica dell’altra.
Rassettata la cucina si concesse un riposino sulla poltrona preferita ma lo squillo del telefono interruppe il pisolino: era la voce registrata di un call center che le offriva vantaggiosi prezzi sull’acquisto del vino novello.
Si arrabbiò per quel tormento che puntualmente si presentava un giorno sì ed uno no e sperò vivamente che qualcuno di influente dichiarasse fuori legge quelle torture per violazione della privacy.
Sapeva che la sua era una speranza “vana”, ma le piaceva pensare che fosse realizzabile per la pace di molte famiglie.
Ormai la pennichella era rovinata, così si mise al computer per contattare gli amici di Facebook e riprendere il vecchio discorso sulla speranza, raccontando della sua giornata
e “disattesa” speranza che tutto andasse bene.
Come sempre il suo grido d’aiuto fu raccolto e tutti diedero una definizione diversa di speranza secondo il loro punto di vista in relazione alla situazione che lei aveva vissuto.
Si convinse che non si poteva selezionare una speranza e rimanervi fedeli per sempre, perché essa aveva mille sfaccettature, come la vita.
A volte brillava, altre era cupa, ma sempre e comunque indispensabile, come le avevano insegnato al Catechismo.


SERENO VARIABILE

Nel sole abbagliante dell’estate, nel vento di esaltante libertà, su un mare deserto di ostacoli, navigava invaghita di quella bellezza splendente in cui era immersa e di cui respirava la gioia! La vela era gonfia di energia che la spingeva ai confini dello sguardo e ingigantiva il suo senso di benessere. Il cielo terso, privo di minacce, era conciliante con quel mare stirato dalla brezza che labbra segrete donavano al suo vagabondare.
I pensieri urticanti li aveva lasciati alle spalle: tra la folla, tra il rumore di disordinate esternazioni, tra le stonature di disarmoniche armonie, tra gli stridenti accostamenti di esagerazioni quotidiane. Ora poteva bearsi solo di se stessa, egoisticamente, senza sensi di colpa per chi non era in grado di seguirla in una solitudine rigenerante!
Pensava, spaziando lo sguardo libero da confini quando, l’increspatura di una piccola onda che accarezzava la chiglia, prese forma rivelandosi in un volto a lei sconosciuto, ma stranamente familiare. Sorpresa, si stropicciò gli occhi feriti dal sole, pensando che la visione fosse una conseguenza del riverbero. Si sporse cauta, virando a dritta per cercare conferma ai suoi dubbi. Il volto era sempre lì, disegnato sull’acqua accanto alla piccola barca! Cercò di scacciarlo lanciandogli contro il sasso che fungeva da ancora, ma ne disturbò solo per un breve attimo il sorriso, che si ricompose immediatamente dopo aver ingoiato quel solido intruso. Impaurita, si preparò a fuggire, quando il sussurro del mare la trattenne cullando i suoi timori con dolci richiami . Le spalle irrigidite dalla tensione, si rilassarono e volse il capo verso quello strano compagno di viaggio che l’aveva scelta tra tanti solitari naviganti per comunicarle qualcosa di importante. Ma perché proprio lei, cosa la invitava a fare, che senso aveva tutto ciò? Facendo uno sforzo per dominare la paura, girò lentamente il capo e fissò le pupille di profondo blu che, subitanee ,agganciarono la sua volontà in un ipnotico invito! Cercò di resistere, di riappropriarsi della sua autonomia decisionale dibattendosi ostinatamente per liberarsi da quell’amo che penetrava sempre più a fondo in lei ogni qual volta cercava di divincolarsi per strapparselo dalla mente, invano. Alla fine, spossata come un pesce intrappolato nella rete, si arrese e seguì quell’invito imposto con il sorriso. Vide il blu profondo venirle incontro, partorendo immagini dapprima confuse e caotiche, e poi sempre più nitide mano a mano che si accorpavano. Scorse in esse una bimba solitaria tra altri bimbi chiassosi, che si isolava tra i rami di un ciliegio intenta a gustare un enorme pezzo di cioccolato con le nocciole. E mentre i suoi compagni di gioco si azzuffavano per un ruolo di leader, lei fantasticava di fate e gnomi, di cavalieri e principesse, di sirene e marinai, di spadaccini ed eroi, di Re e Regine. Osservava le fronde ombrose del suo rifugio trasudanti di vita:ne gustava i dolci bocconi, creava gioielli preziosi con le lacrime ambrate dei tronchi, e sconfiggeva giganteschi ragni nascosti negli anfratti del suo magico giardino. La fontana dei pesci rossi rispecchiava la sua immagine alla ricerca di mostri marini mentre, lontane, risuonavano le grida dei giochi che lei aveva abbandonato per frugare nella fantasia. Lo sguardo forò un altro strato di massa d’acqua, più profonda, e vide una fanciulla annoiata dalle chiacchiere di piccole donne borbottanti di piccoli amori. E poi osservò la timida ragazza, cocciuta di chiari traguardi, nel percorso di difficili adattamenti, di gratificanti conferme, di felici intuizioni e scelte, di tentennante solitudine, di lacrime, risate e, alla fine, di vagiti d’amore!
La protagonista si muoveva su scenari mutevoli, a volte agitati da spunti di ribellione, ma sempre gestiti con il buon senso che tracciava la trama della vita.
Lo sguardo si caricò di vigore sbattendo le palpebre per penetrare i segreti di quell’abisso e capire il senso della continuità.
E si rivide bambina, imbrattata di cioccolato, che sognava ad occhi aperti il suo futuro nel cammino che si era scelta. Si scosse:il volto liquido era sparito, forse non era mai esistito! Fissò l’orizzonte disturbato da piccole nubi sfilacciate che avanzavano sospinte da un vento di Sud-Est. Stava rinforzando e non era certa di poter governare la barca in sicurezza.
Invertì la rotta verso la costa, verso casa e la quotidianità di sempre. Respirò l’aria salmastra, trattenendola nei polmoni affinché le particelle di sale ne riempissero gli alveoli e ne trattenessero l’ancestrale sapore di libertà!