MURIX

RACCONTO DI PAOLA VOLPE

Murix si avviava verso il suo quindicesimo anno di vita. Il suo vero nome non era questo, ma lo preferiva in quanto le piaceva pensare di essere come un gasteropode della famiglia dei Muricidi: quelli che presentano un canale sifonale molto lungo e pieno di spine pungenti che formano una specie di pettine. Nel guscio l’animale si rintana e, chiudendosi al suo interno, diventa imprendibile per i nemici. Il carattere della ragazza la portava a non offrirsi agli altri: era piuttosto restia ad esprimere i suoi pensieri e le emozioni più profonde. Il suo nome ufficiale, scelto dai genitori e attribuitole col battesimo, non le era mai piaciuto e comunque faceva parte dell’apparente sistema di esteriorità sociale, che conferiva alla gente il diritto di connotarla come “individuo”. Quel nome ufficiale era ben lontano dall’avere qualcosa in comune con la bellezza e la forza del gasteropode: il Murex Pecten che comunemente é chiamato “il pettine di Venere”.
Era una ragazza con i piedi in terra e non aveva la tendenza a proiettarsi nel futuro, salvo nei rari momenti in cui era obbligata a progettare qualcosa, ma mai a lungo termine. Aveva visto già troppe situazioni tristi nella sua breve vita ed era spontaneamente tesa a difendere un suo equilibrio interiore, molto personale. Non voleva che gli altri le sottraessero le sue forze o interferissero con le sue scelte comportamentali. Aveva osservato troppo spesso gli adulti criticare i figli e i loro amichetti.
A chi da bambina le aveva chiesto cosa volesse fare da grande, la sua risposta di solito era la prima stupidaggine che le passava per la testa.
“Non pensi di sposare un principe azzurro?”
“Ma certo, io sposerò il principe azzurro della favola di Biancaneve”.
Il suo pensiero le aggiungeva: “È ridicolo! come possono gli adulti pensare che esiste un principe azzurro che con un bacio ti sveglia, ti sposa e ti farà felice per sempre?”.
Fondamentalmente non era da considerarsi un’asociale, anche se di indole molto silenziosa, e non si sottraeva mai a qualunque domanda le venisse rivolta.
Sospettava, chissà per quale intuito, che la felicità fosse un’utopia e sapeva che lei eccezionalmente aveva la fortuna di vivere in un mondo incantato che non apparteneva agli umani. Per lei diventare “grande” significava perderlo, quel mondo incantato. Erano gli adulti ad avere la necessità di parlarne, proprio per il bisogno di recuperare lo stato di beatitudine che in un modo o nell’altro viene smarrito nel tempo. Murix osservava che gli adulti non erano mai allegri e ridevano poco. Tutto sommato si ritrovavano addosso prevalentemente doveri e obblighi di ogni genere. Vedeva gli esseri umani come tanti automi e certe volte sembravano privi d’anima e piuttosto indifferenti alla vita. Perché quindi proiettarsi nel futuro? Perché pensare di cambiare la propria condizione privilegiata? Lei non aveva alcuna fretta di crescere e certamente non aveva la minima voglia di diventare come loro.
Qualcuno dei suoi pochi amici talvolta aveva parlato della libertà dei cosiddetti “grandi” ormai presi da una vita fatta di obblighi e doveri, facendo anche notare che: “mamma e papà fanno tutto ciò che vogliono” come se quello fosse un loro importante ed esclusivo privilegio. Invece lei, in verità, sapeva di essere già libera di fare le cose che desiderava. Forse era merito di sua madre che la lasciava nel suo mondo incantato e le permetteva di portare a termine le sue piccole scelte senza ostacolarla mai? Neppure le imponeva assurdi e frustranti divieti, come invece molto spesso facevano altri genitori con i propri figli.
La madre, donna che aveva sofferto molto nella vita e probabilmente era infelice, pur sforzandosi di non farlo capire, voleva che sua figlia fosse autonoma e forte. Diventava sorridente quando vedeva la figlia giocare gioiosa e misurarsi con nuove esperienze che attivavano la sua creatività e la rendevano abile nell’usare il proprio corpo.
Murix intuiva che c’era qualcosa di grigiastro nello stato d’animo di lei, senza saperne dare spiegazioni. Ciò le conferiva un sottofondo di sottile mestizia. Lo sentiva costantemente dentro di sé, ignorando che in qualche modo lei rifletteva a specchio quanto apparteneva alla madre. Quello era il suo oscuro tormento che la portava a rintanarsi come il gasteropode nel proprio guscio.
Non sapeva come render lieta la vita della mamma. Le donava sempre mazzolini di fiori raccolti dai cespugli e dai prati sui quali si era sempre divertita a correre e ruzzolare. Proprio la madre le aveva insegnato a divertirsi in quel modo e lo faceva lei stessa con la sua piccola quando insieme si recavano a perlustrare i campi. In quelle occasioni le faceva notare che l’azzurro del cielo c’era sempre, anche al di là delle nuvole quando lo rendevano invisibile. Insieme osservavano la bellezza delle farfalle dai colori variegati e ascoltavano il canto degli uccelli. Murix aveva imparato da lei a distinguere le bisce dalle vipere e non ne aveva paura.
Gli altri genitori non erano come i suoi. La sua condizione di bimba privilegiata nasceva forse proprio da quel recondito tormento della madre che sicuramente desiderava per la figlia cose migliori rispetto a quelle che avevano caratterizzato la propria vita. “Puoi fare qualunque cosa” le diceva, “purché valuti che non ti fai del male. Impara a riconoscere la qualità delle tue azioni e delle tue scelte. Devi sapere sempre fin dove puoi arrivare e lascia via dalla tua vita le persone di cui non ti puoi fidare”.
Murix in effetti si sentiva libera e sarebbe stata contentissima se fosse riuscita a dare alla madre qualcosa di speciale.
Purtroppo la tristezza di fondo, che caratterizzava quella donna, non scompariva mai nel tempo.
Probabilmente la mamma era infelice perché il babbo non era la persona adatta a lei. Egli le delegava tutto e apparentemente il loro rapporto coniugale era sereno: non litigavano mai! Forse gli si poteva attribuire il torto di non averla mai aiutata ad uscire da chissà quali vecchi problemi. Oppure, pur avendoci provato, non ci era mai riuscito. È pensabile che fra i due non fosse mai nato un rapporto costruttivo e realmente comunicativo.
Nella testa della bambina questo tipo di considerazioni aveva iniziato a subentrare nella sua consapevolezza già durante gli otto anni. Lei, per certi versi presa già dall’amore per la vita, si rese conto un giorno di conoscere il dolore: era quello di sua madre, la quale faceva di tutto per non fornire mai la certezza delle proprie sofferenze e degli stati d’animo che, quando era sola, non le permettevano mai di sorridere. Si sforzava di nascondeva sempre il malessere e le emozioni negative. La figlia le recepiva e le portava dentro se stessa senza sapere di cosa si trattasse. Ormai troppo spesso, non vista, aveva osservato lacrime colare dagli occhi di quella donna che, sempre più nel corso del tempo, era dominata da una tristezza senza fine e costantemente mascherata.
Murix si rintanava nel suo guscio quanto più poteva.
Il giorno del suo quindicesimo compleanno il padre la informò che la mamma era ricoverata in sala di rianimazione dell’ospedale locale: era stata investita da un’automobile ed era in condizioni piuttosto gravi. I medici avevano vietato le visite.
L’idea della morte della madre equivaleva alla scomparsa del mondo: per Murix significava l’annullamento di tutto. Provò un’insolita emozione che forse poteva chiamarsi “paura”, esattamente ciò che quella donna non aveva mai desiderato per la figlia.
Nella testa si accumulavano le frasi ascoltate negli ultimi mesi: “Sei grande ormai e non hai bisogno di me” e: “Non ho più ruoli nella vita: manca ancora poco e tu te ne andrai ed è giusto che sia così”. Tante volte aveva ripetuto di essere stanca e di non farcela… L’unica verità detta era proprio quest’ultima: la mamma era stanca e non ce la faceva a vivere. Inoltre erano mesi che non la si vedeva mai sorridere e tendeva a restare il più possibile chiusa dentro casa. Tutto poteva essere interpretato come un desiderio di morte! Era giustificabile sostenere che l’incidente fosse un vero e proprio tentativo di suicidio. Quella figlia era certa che fosse così.
Tutto ciò non poteva chiamarsi amore!!! Un gesto simile annullava ogni ipotesi d’amore. Comunque la mamma era ancora viva.
Murix, chiusa nel suo guscio spinoso, provava difficoltà a formulare i pensieri: erano terribilmente confusi e non le fornivano certezze. Oltre al dolore e all’inquietudine in lei albergava un forte senso di impotenza non esente da una pungente rabbia. Nonostante tutto doveva cercare un cielo azzurro: quello che le incombeva addosso era di color nero infernale.
Trascorse la giornata nella sua stanza. Quando il padre rientrò a casa, dopo esser rimasto tutto il giorno all’ospedale, le disse che non c’erano novità: la madre ancora non aveva ripreso conoscenza ed era sempre in terapia intensiva. Avendo riportato delle fratture ed una emorragia interna, l’avevano operata d’urgenza. I medici si erano riservati di fornire notizie più precise nelle successive ventiquattro ore, anche se gli interventi chirurgici sembrava avessero avuto un buon esito.

Murix quella notte crollò dal sonno, fortunatamente. Era riuscita a chiudere le tristi emozioni che annebbiavano la sua esistenza nelle profondità del suo guscio e, al mattino seguente, scelse di andare a passeggiare lungo le sponde del fiume in prossimità della foce. Nonostante tutto, come al solito subiva il fascino dell’acqua che scorreva con una certa energia per confluire verso il mare azzurro. Doveva imporsi di non scivolarvi dentro per farsi trascinare, ma le sarebbe piaciuto che fosse così: non sarebbe stato poi tanto male, se lei fossa morta prima della madre.
Il sole era caldo e lei lo sentiva che era caldo. Il cielo era luminoso e lei lo vedeva bene che era luminoso. L’aria pulita, gli odori delle erbe, dei fiori, dei giunchi, i ronzii degli insetti e gli strani rumori quasi impercettibili le erano tutti dentro. Incredibile! Niente perdeva la sua bellezza. Oltretutto la trovava sempre quando la cercava. Lei era lì, fusa con la natura e fuori dal suo guscio di Venere.
All’improvviso sul terriccio ripieno di sassi bianchi lungo l’argine del fiume e al di là di un basso cespuglio erboso una macchia scura attrasse il suo sguardo: un cane del tutto immobile. I suoi occhi erano aperti: macchie nere, pietose e gelide. Dormiva? Troppo immobile per dormire. Era una carcassa in decomposizione! Lungo le congiuntive degli occhi, scivolavano contorcendosi strani animaletti bianchi vermiformi. Gli stessi occupavano numerosi le cavità delle orecchie: vi pullulavano dentro e inoltre entravano e uscivano dagli angoli divorati della bocca ridotta ad una macchia nerastra dovuta certamente a sangue fuoriuscito e ormai coagulato. Anche su alcune ferite del corpo albergavano quegli strani esserini. Piccoli o grandicelli il loro colore era bianco come un latte appena munto. Molto probabilmente si trattava di larve di mosconi, gli stessi che, neri, lì si affannavano, volando attorno a quella carcassa di cane, certamente sia per nutrirsi e sia per deporvi le loro uova. L’aria che lì attorno avvolgeva quel funereo scenario era decisamente maleodorante.
Murix si chinò a guardare quello spettacolo di morte-vita e per la prima volta osservò che la morte produce vita e quindi non era vero soltanto che la vita è irrimediabilmente morte. Abituata alla matematica che la appassionava sempre, le venne in mente che era possibile rappresentare questo concetto con una sequenza a doppia freccia: vita↔morte.
Cosa avrebbe potuto fare per il cane? Non aveva alternative: andava lasciato lì, tanto più che lei non avrebbe mai potuto modificare il percorso delle cose.
Andò via molto rattristata. Non aveva mai visto “tanta” morte: il cane era grosso e rappresentava alla grande la “tanta” morte… insieme alla mamma…
Durante il giorno Murix continuò ad avere davanti agli occhi l’animale scuro e marmoreo che giaceva lungo il margine del fiume, con quelle larvette così piene di vita. Contemporaneamente si ritrovò a parlare alla madre, come se l’avesse di fronte e l’ascoltasse con massima attenzione: le diceva che non era rassicurata affatto al pensiero che ognuno doveva morire come quel cane. Le uscì un urlo acuto rivolto alla immagine fantasticata, vista come se fosse parte della realtà di quel momento: “Tu no! Tu nooo! Non devi morire”. Con la potenza di un altoparlante acceso a tutto volume, un “NON ANDARTENE” risuonò dappertutto nell’aria.
Dove potevano mai giungere quelle onde sonore? Certo è che se qualcuno le avesse udite, avrebbe colto tutta l’intensità del dolore di Murix che ormai si ritrovava piegata in due su se stessa e piangeva disperatamente.
Sognò durante la notte quella carcassa inanimata. La accompagnava in una peregrinazione attorno al pianeta Terra la cui superficie era completamente invasa dalle acque e privata di tutto: nulla affiorava da quella smisurata superficie. Lei e il cane, insieme e con la leggerezza di due piume, scivolavano lungo uno smisurato viottolo di poco sopraelevato rispetto all’immenso mare… l’infinito oceano… Insieme si dirigevano verso un lontano orizzonte. L’animale recuperava sempre più l’uso delle gambe ed era visibile che tutte le ferite si stavano chiudendo. Pian piano le camminava a fianco: saltellava con fare gioioso, scodinzolando, e le dava sicurezza in quella visione così desolata. Lei sentiva che tra loro due stava accadendo qualcosa di molto forte, neppure definibile come una speciale amicizia, bensì qualcosa di sovrumano ricco di una energia vivificante, al di là di quell’oceano che aveva invaso tutto, senza lasciare tracce di vita.
Al risveglio Murix di nuovo immaginò di dialogare con la madre che le chiedeva: “che significato daresti a ciò che hai visto?”. La ragazza non ebbe esitazione a rispondere che il mare – invasore – distruttore nel sogno poteva anche essere la morte, ma lei ne stava al di sopra. Aggiunse che sentiva di aver ridato vita al cane. Inoltre il cane-vita l’avrebbe seguita per sempre, come un grande amico.
Murix in qualche modo aveva fatto resuscitare il cane: aveva restituito un impulso vitale a ciò che sembrava morto.
Provò un forte impeto rigenerativo: qualcosa stava cambiando davvero!
Senza attendere notizie dal padre, si recò a vedere la mamma. Correva lungo la strada che la portava verso l’ospedale. Era certa che si stava risvegliando dal suo sonno profondo. Doveva farle vedere che lei era lì presente quando avrebbe riaperto gli occhi. Mentre si recava all’ospedale, sentiva che qualcosa si stava sciogliendo dentro se stessa: la rabbia… Non aveva alcun senso averla: distrugge e basta; rovina la vita e… uccide. Qualcosa le fece intuire che quello era anche il problema irrisolto della madre.
La mamma riaprì gli occhi mentre aveva la figlia accanto. Il sorriso di Murix aveva qualcosa di speciale, come se fosse animato misteriosamente dalla magia dell’amico cane, anche se nessuno lo sapeva.


GREVE IL CIELO

Greve il cielo
su viali spogli
e strane cose:
rumori di strade
di gente
e memorie echeggianti…

Vaghi profumi
di terre bagnate…
mentre alita il mare
la sua salsedine…

Sfera di cristallo
l’aria umida
che rifrange
e spezza
invisibili onde…

Immobile
nell’eterno tempo…
qualcosa fugge lungo un asintoto
senza toccare mai…

Non si può correre
per i viali spogli
urlando
nella piovigginosa sera.


MENTRE TU NON CI SEI

Se piovesse!
Uscirei a bagnarmi
in questa notte
fredda e buia
Fuori tutto è silenzio
Qui solamente
ascolta
un desiderio ritmato
d’acqua che cade e mi bagna
Ascoltalo il mio desiderio!
Non voglio i tre metri quadri
del mio pavimento
né quei pochi cubi
della stanza squallida
insignificante e chiusa
Non voglio morire
ma sentire qualcosa
che viene da fuori
o te
o la pioggia
Te
per parlarti
per dirti il mio desiderio
che ora non ascolti
La pioggia
per bagnarmi
ed essere meno triste
oltre questa stanza
mentre tu non ci sei.


IL POLLETTO racconto di Paola Volpe

Quel 5 marzo 2013, passato il mezzogiorno, Marcellina aveva una fame da lupi. Il nervosismo le accentuava l’appetito, anzi: le stimolava una vera e propria voracità che sicuramente avrebbe potuto indurla a ingoiare il pasto di tre persone.
Aveva trascorso la mattinata a casa nel tentativo di mettere ordine alle idee e decidere cosa fare. Controllati ancora una volta gli armadi, i cassetti e i sopramobili del salotto, aveva elencato dettagliatamente tutto ciò che quel disgraziato di Fabrizio le aveva rubato, oltre al denaro in contante e i gioielli sottratti dalla cassaforte. Le aveva portato via i pochi e antichissimi oggetti ereditati dal nonno che a sua volta li aveva ricevuti dai componenti dell’antica famiglia.
Si sentiva un’emerita idiota, perché nella storia amorosa con quell’uomo, si era fidata completamente di lui fino a fargli vedere quel che aveva nella cassaforte inserita nel muro dietro un quadro di valore lasciato lì, sicuramente perché troppo grande e scomodo da portar via senza che fosse notato. Era scomparso tutto il meglio di ciò che possedeva!
Quello stronzo malandrino l’aveva proprio raggirata! Ma si sentiva lei stessa una emerita deficiente per il fatto di avergli aperto le porte, l’anima e la cassaforte. Avrebbe dovuto spalancargli solo e unicamente le gambe, senza lasciarsi abbagliare dal godimento che quella carogna le sapeva dare. Eh sì che dal punto di vista sessuale era proprio bravo! Eppure quel “coso” che aveva dentro le mutande non era per niente un “fuori misura”, ma nessuno poteva immaginare quanto quel maschio fosse speciale nell’usarlo.
Immersa nei pensieri e nella crescente rabbia, lo stomaco gorgogliava e chiedeva cibo, ma lei non aveva voglia di cucinare. La cosa più importante era capire cosa fare relativamente a tutto quanto era accaduto.
Divorò tre banane una dopo l’altra e decise di andare al supermercato a comprare un pollo arrosto. Di solito, quando le andava, ne comprava soltanto una metà e ne mangiava un quarto. Quel giorno acquistò l’intero polletto e se lo sentiva che l’avrebbe divorato tutto. Forse non sarebbe stato neppure sufficiente. Vi aggiunse una bella vaschetta di patatine fritte, anche se di solito evitava di mangiarle. A completare il pasto scelse una doppia dose di “tiramisù”, proprio lei che non amava granché cibarsi di dolci.
Si era accomodata ad uno dei tavolini a disposizione del pubblico e lì iniziò a “strappare” la prima coscetta coi denti, dopo averla fissata con un’insolita intensità dello sguardo, tanto che qualcuno, osservandola, avrebbe detto: “Caspita! Le deve piacere proprio tanto: se la sta mangiando con gli occhi pieni di libidine”. Non era esattamente così: quello sguardo era divorante e veicolava sul pollo qualcosa di rabbioso che Marcellina aveva dentro e doveva scaricare in qualche modo. Si preparava a eseguire un rituale quasi tribale. Lei, seduta lì da sola, in verità stringeva tra le mani non il polletto, bensì quel figlio di puttana di Fabrizio, che nell’arco della loro relazione amorosa (ma quando mai amorosa?) l’aveva spolpata ben bene e in ogni senso usufruendo di lei e delle sue carni. Era riuscito a conquistarla con arti ipnotiche e tantriche finché lei, più o meno nell’arco di un paio di mesi di tempo, gli aveva dato l’accesso alla propria casa, mettendogli a disposizione persino le chiavi permettendogli di usufruirne liberamente, finché dopo l’ultima notte trascorsa insieme nell’ultimo week-end non era scomparso dalla circolazione con tutto ciò che aveva avuto il coraggio di rubare.
Lo aveva cercato per tre giorni senza trovarlo e accorgendosi che quello l’aveva imbottita di bugie. Chiaramente non rispondeva al cellulare. Una voce diceva che quel numero era inesistente. Risultava inesistente anche nella casa dove le aveva fatto credere di abitare con degli amici.
Fabrizio, il grande seduttore, aveva programmato tutto! L’aveva rincoglionita con quel sesso così unico e particolare. Bisognava dire che ci sapeva fare molto bene: nessuno sapeva farlo come lui, con quella passionalità, la calda lentezza e quelle modalità che stimolano un crescente stato di eccitazione paradisiaca. A pensarci bene gli uomini che lei aveva frequentato non avevano dimostrato di possedere quelle afrodisiache abilità.
Nella testa le risuonava ripetutamente una frase: “Tu, mio caro puttano, mi hai fatto pagare a caro prezzo tutti quegli orgasmi speciali”. È vero: le prostitute più brave di solito non sono remunerate con tanto denaro.
Erano passati tre giorni sì, ma la rabbia di Marcellina era elevata all’ennesima potenza. Eppure guardando la coscetta del pollo… rivedeva le gambe di Fabrizio, così belle, tornite, muscolose al giusto punto. Viveva uno strano momento di follia: il piccolo corpicino del pennuto arrostito si trasformava divenendo l’immagine di una statua ellenica, di una purezza estetica difficile da reperire. Non l’hanno neppure coloro che stanno sempre nelle palestre. Un Apollo sì, un bellissimo ragazzo greco simile alle antiche statue del museo di Atene… ma si trattava di Fabrizio… nell’edizione “Amore” proprio con l’A maiuscola… Le sembrava di impazzire solo al ricordo e lì, davanti a tutti, riviveva quelle calde sensazioni… e rivedeva le proprie mani scorrere su quelle cosce, mentre egli si eccitava… Porca miseria! Quanto le era piaciuta la storia con quell’uomo! L’aveva fatta uscire di senno e lui le aveva permesso di credere che quella fosse una relazione seria, importante ed eterna. Proprio così: eterna! L’aveva fatta sognare con progetti variegati per il futuro. Tutto sembrava una promessa di felicità.
“Sei stata davvero una grande stronza!” e… giù: a strappare le carni di quella coscia. Se la teneva tra le due mani. La mordeva e la succhiava, così come faceva con la pelle di Fabrizio risalendo dai piedi verso l’inguine. Divorò tutto, anche le cartilagini che rivestivano le articolazioni delle coscette. Mentre lo faceva esprimeva sempre di più la rabbia accumulata negli ultimi tre giorni. Mozzicava anche le ossa, stringendole con le ganasce così tanto da ridurle in piccoli schifosi pezzettini che venivano sputati mentre diceva a se stessa: “Non esiste un’imbecille come te: lo sapevi bene che non bisogna mai fidarsi degli uomini. Ci sei cascata come una pera cotta. Hai creduto a tutto”.
A chi la osservava, Marcellina dava l’impressione di gustare alla grande ogni suo boccone: lo accompagnava emettendo gemiti che venivano interpretati come espressione di soddisfazione. Così sembrava e gli uomini non le toglievano gli occhi da dosso. I loro pensieri erano sostenuti da immagini sessuali di lei e si domandavano “Come lo fa?” con l’idea che fosse non solo brava ma anche speciale: una libidinosa porcellona coi fiocchi!!
All’apparenza quella carne di pollo doveva essere proprio eccellente e quegli spettatori non avevano mai visto una bocca divorare in quel modo. Per loro quella donna stava godendo.
Marcellina non era particolarmente bella, ma aveva il dono di una capacità espressiva del viso decisamente molto calda. Le sue emozioni scorrevano l’una dopo l’altra attraverso una mimica molto variegata di quel volto dai lineamenti semplici e armoniosi. Riusciva solitamente a stimolare la fantasia dei maschi e quel giorno, lì al supermercato, era diventata un centro di attrazione libidica. Nessuno coglieva l’aspetto rabbioso del suo azzannare ed ingoiare e sembrava che ciascuno dei suoi osservatori fosse in grado di entrare nei ricordi delle scene e delle sensazioni sessuali che Fabrizio le aveva procurato ed erano rimaste molto vive nel suo corpo, che continuava a fremere, lì nel reparto rosticceria del supermercato fra gente sconosciuta. Sembrava che non potessero fare a meno di osservarla. Le donne la guardavano con la coda dell’occhio. I maschi si sovreccitavano a vedere quegli insoliti atteggiamenti, le contrazioni del corpo di Marcellina e la sua lingua che leccava: tutto era una vera e propria immersione libidica. Il petto del pollo era alquanto rinsecchito, come sempre del resto, ma ad occhi chiusi se lo mise a mordicchiare come se fosse il cibo più delizioso del mondo. In verità, così come per le cosce, aveva in bocca il petto di lui, quello dalla pelle liscia e sempre profumata, quello dalle forme equilibratamente rotondeggianti. Se lo mise a succhiare come se lì ci fossero i capezzoli di Fabrizio: a lui piaceva da impazzire quando lei si scatenava su quelle macchie scure. “Porca miseria! Lo mordo, lo demolisco, lo ammazzo quel maiale delinquente che mi ha abbandonato e mi ha portato via tutto! Si è preso gioco di me ed io gli ho creduto”… e lo azzannava, il pollo… tritava coi denti anche le sottili ossa toraciche, dopo aver fatto scempio della cartilagine sternale.
I suoi spettatori non capivano che quella donna era accecata da una forma irosa e lei non si rendeva conto che qualcuno viveva lo spettacolo con una certa cupidigia. Non vide un paio di maschi che al di là di un tavolino muovevano la propria mano strofinandosi in mezzo ai pantaloni, mentre i volti erano arrossati, le labbra contratte e dalla bocca uscivano strani mugugni. Le donne invece passavano fuggevolmente e facendo finta di nulla.
Il polletto venne pressoché demolito. Persino l’immangiabile collo e le alette furono ridotte a briciole sputate via con senso di schifo. Le patatine? Anch’esse finite. Restava il dolce e, mentre Marcellina si apprestava a farlo fuori, un uomo dagli occhi stranamente accesi e molto lucidi si avvicinò con un viso tutto rosso e alterato. Con una voce stridente e tutt’altro che gradevole le chiese con un’impensabile sfacciataggine se potevano uscire insieme. “Mi piaci da morire e vorrei portarti in un albergo” le disse. Lei non rispose. L’istinto le suggeriva di infilargli un coltello in pancia o di colpirlo violentemente al viso. Ebbe il buon senso di frenarsi. Lo guardò con disgusto urlandogli “Brutto porco” e con la tempestività di un fulmine gli scagliò in faccia il Tiramisù e gli vuotò addosso il bicchiere pieno di coca-cola. Quello, sbigottito, rimase fermo là e nessuno osò inseguire Marcellina che corse via velocemente con tutta la rabbia del mondo addosso.
Era andata lì a mangiare il polletto sapendo che doveva prendere delle decisioni. In effetti aveva ben poco da scegliere: non poteva ammazzare quel ladro traditore. L’unica cosa saggia da fare, anche se scarsamente risolutiva, era di andare dai carabinieri a denunciare quell’essere immondo di nome Fabrizio. Così fece.