Dal poemetto bilingue Geminario vergato in un idioletto neo-volgare umbro-sabino e in lingua italiana:

GEMINO PRIMO -I -

(In memoria del padre e della madre)

Piagnìanu ‘n bianche
piste de renella
su ‘nparcite panche
de nicchia o cappella,

ru friscu de nòa
erbetta e de luna,
benanche que piòa
orbata furtuna

aprile era dorce
de celli e sperella,
a buju re torce
e ra marturella,

ru feru battutu
‘nchioatu su legno
sonava chercutu
ru puoru congegno

e l’arba s’arzava
slargata de luce,
de sopra ‘n’ottava
ru cantu recuce,

madonne de tera
un suffiu de voce
clinata maniera
rensegue veloce.

Ra luna pasquale
ajamà calante,
su ru capezzale
un radiu sclarante

vejetti d’aprile,
e pàrimu suoru,
derentro ‘n suttile
bajatu tesuoru

que iju quarantottu
que m’ia fijatu
arìa mo’ rottu
ru sugnu sugnatu

de ‘na roscia tera
cummunista e mansa,
doppo fame, guera,
prescione e mattansa.

GEMINO PRIMO – II -

Piangevano in silenzio lungo bianche
stradine, impervi, renosi sentieri,
dentro nicchiette, su tarlate panche,

la pungente frescura della luna,
dell’erba rugiadosa, benché triste
cada la pioggia e malvagia fortuna,

dolce stagione era d’aprile, bella
di passeri nel tiepido del sole,
fiaccole a notte poi la marturella,

ferro battuto inchiodato nel legno,
con il rintocco sordo un chierichetto
mesto cantava musica d’ingegno

e l’alba cristallina risuonava
schiusa alla luce tremula di rosa,
l’armonia si alzava di un’ottava,

madonne di ceramica muschiata
e quegli occhiuti, rapidi bisbigli
correvano tra gente inginocchiata.

Pallido raggio di luna pasquale
volta ad oriente, già in fase calante,
malfermo lume intorno al capezzale,

il padre solo stava nell’aprile,
quasi temendo ferita di luce
nel suo spirto segreto e gentile:

quel millenovecentoquarantotto
tempesta che mi aveva generato
sogno sognato avrebbe presto rotto

di un comunismo buono e rossa terra
per uomini e animali generosa
dopo prigione, genocidio e guerra.


Da Il felice giogo delle trecce:

Treccia del platano che guarda

Se il platano che guarda la maestosa piana
nell’ampia cerchia azzurra dei monti in filigrana
negli occhi tuoi s’attarda, quando sera s’azzurra
del viola più intenso, (ma indolente se penso

alle rondini, al volo che precipita e plana),
dal suo bel simulacro la mente ora allontana
e da un rorido suolo, da un più verde lavacro,
altro platano appare che ti guarda e scompare.

In fuga di luce
da un buio ostinato
si cela e riluce
un canto neonato.

Diverso sguardo sorge che non vedi e ti guarda
su quel filo continuo come fiocco da carda
e una musica porge dal ritmo discontinuo,
ondeggiante dei rami, con preludi e richiami:

è il platano del cuore che nella mente splende,
tra i raggi si nasconde, poi in silenzio discende
in un limbo incolore. Si dilegua. Sulle onde
risale del ricordo, meraviglioso accordo.

L’albero del suono
tace. Poi riaffiora
con dolce frastuono
in luce d’aurora.


Da Trecce sparse:

Treccia delle stelle di agosto

(In viaggio verso l’Estonia)

Ho indagato il timore che mi assale d’agosto
quando penso le stelle delle notti di agosto…
quell’intimo bagliore…fulminee gazzelle…
…rose ardenti nel buio divorate dal buio

e i volti che mi sono così cari dispersi
dentro le mie pupille nel gorgo di universi
dal radente abbandono: fughe, voli, scintille
dove l’amore è pietra, la sabbia canto e cetra.

Nuda tra le stelle
nude erra la terra
ed io tra le stelle
erro nudo in terra.

Un brivido mi corre lungo la schiena. Oh magra
cerchia di quelle vette spoglie che nella sagra
dell’anima precorre le mie visioni elette
negli azzurri del cielo! Confine parallelo

che, timido, s’incise perenne nella mente
e ora e sempre mi salva. La montagna umilmente
mi è sorella. Sorrise la roccia agli avi e salva
fu la memoria e il sangue più limpido altro sangue

generoso sogna.
È là a passeggiare,
ma va la cicogna
per nuvole e mare.