Il primo libro
che non ho bruciato.
Lo dedico a tutte quelle parole che,
dopo averle scritte,
ho cacciato lontano da me,
perché non volevo ascoltare.
Lo dedico a tutti quegli uomini
che guardano il mondo
dal basso,
perché ogni marciapiede
è troppo alto.
Lo dedico a tutte quelle voci
che, quando tremo
per gambe assenti,
mi dicono:
“Tu hai le ali”.
E io, un po’,
voglio crederci.
Lo dedico ai marinai.
Quelli che non pescano
e non indicano
la rotta-cometa.
Marinai che – discreti –
lanciano una zattera
se ti sei smarrito.
E sussurrano i segreti
delle bussole e delle stelle.
Lo dedico
a tutti quegli occhi
e orecchi
che hanno sentito
pulsare le parole.
Non gettarle
– mi hanno detto –
respirano.
E lo dedico a te,
Pierangelo,
cantore della vita.
Forse lo dedico
alla stessa vita.
Anche se lei,
distratta,
non ci ha insegnato
a camminare.
Alveari
La luna guarda le nuvole,
maschere che scorrono lente
verso destini ignoti.
Il tempo sembra fermarsi
nel freddo.
Troppo facile
percepire il movimento infinito.
La stessa luna
di questo istante
ha toccato battaglie antiche,
ha forse visto i primi vortici,
ha forse udito voci
per noi mute.
Difficile,
invece,
è spiegare.
Paura della vita senza risposte,
debolezza delle domande.
Quanto
osiamo chiedere?
A volte è ipocrisia,
a volte non voler navigare
con solo una zattera sotto i piedi.
Così, ci accontentiamo.
Un dio
per cantare la grandiosità della natura.
Ma di cosa sa egli dar conto?
Della sofferenza,
della sopraffazione,
dello sterminio calcolato?
Delle lame che tagliano cuori?
Non chiedo risposte a improbabili dei.
Guardo alveari gerarchici,
costruiti da api operaie,
che ingrassano pigre regine.
E interrogo il mio specchio.
Non è a te,
macchiata, sfilacciata luna,
che porgo enigmi, rabbia o stupore.
Ma è bello guardarti e respirarti,
trovar pausa
nel turbinio quotidiano.
Esplode il tramonto
Esplode il tramonto.
Chiacchierano
foglie.
Ho un cavallo indomito
nel cervello.
Non vuole fardelli.
Mi chiede di liberarmi
di questo corpo ostile,
che non sa condurlo
per le vie del mondo.
Neuroni addormentati
spingono
lenti
muscoli da bradipo.
Ma il mio spirito,
dimentico di cellule infide,
inventa l’emozione di piedi
che si muovono in un ballo.
Impara, senza corpo,
le vibrazioni di un corpo libero.
Mani col camice bianco
mi raccontano
di un solo corpo – mente.
Comunque uniti.
Io ci credo.
Il mio cervello no.
Scatola di latta
Nella scatola di latta
quanti amori sfiorati,
quanti incontri non colti.
Troppo spesso
inchiodata nel vuoto
dal dubbio:
“E poi, domani?”
Ora guardo ulivi
che pettinano al vento
foglie vibranti.
E ripercorro tra righe sfocate
i mille rivoli che ho corso.
Cantando, piangendo, volando.
Tra i rami spelacchiati di una scuola,
volevi cercare per sentieri lontani,
oltre oceano.
Troppo giovane, insicura nel cuore
per gambe sgraziate,
chiedevo al mio sangue
di abbaiare in silenzio alla luna
perché non desideravi
intrecciare il tuo destino al mio.
Vent’anni
non sanno obliare
la dolcezza di un bacio mai sgorgato,
o forse solo inventato.
Non so, oggi, chi sei.
Ma saprei riconoscerti
nella strada assolata:
schiena ampia,
cammino generoso.
Vive, in me,
la tua voce calda, pacata.
E poi tu,
altro volto, altri battiti
innescati un giorno
che chiedevi semplice sale.
Con occhi cerbiatti
rubavi istanti di vita,
e li fermavi in una foto
per farmene dono.
E poi tu,
che porgevi poesie;
e tu,
che volevi un’ancora per uscire dal nulla.
Tu,
che portavi premure su una motocicletta;
tu,
ammaliato da solitudini stregate
e capelli ribelli,
forse curioso di un’anima bizzarra.
E tu,
esitante dinanzi al corpo impietrito,
che tante volte non riconoscevo mio.
Tu,
che per timore d’amore
hai congelato confuse tenerezze
che sgorgavano ignare.
Nella scatola di latta
quanti amori gridati, bagnati, improbabili.
Mai sbagliati.
Ora
conosco il luogo
da cui ricominciare.
La Brigante
Scalpita
Brigantessa.
Rifiutata e poi ignorata.
Annullata.
Ha atteso in silenzio,
congelata dal mio rancore.
Ora
il mio sguardo su di lei.
Piano l’odio si scioglie.
Lei chiede pavimenti e mattoni
e selciati, e terra, e erba.
E sudori.
Accetto.
Prima,
mediazione coi piedi.
Sanno,
ma non vogliono sapere
che hanno forza debole
per stare dritti sul mondo.
Sussurro loro di viaggi.
Prometto:
li condurrò a sfiorare
sabbie e ciottoli e asfalti.
Non possono schiacciare le vie,
allora
li porterò ad accarezzare.
Andiamo talloni,
corriamo, ruote briganti.
Medusa, la rossa
Cavalcando Medusa, la rossa,
senza briglie e senza morso,
ho esplorato emozioni subacquee,
e paure.
Medesime onde hanno modellato
i miei crespi capelli
e sinuosi, aspri filamenti.
Siamo andate lì,
dove la mente si frantuma,
dove un solco di sabbia divide
consuetudine e follia.
Siamo andate lì, nella caverna,
dove pochi vogliono entrare,
dove chi entra non vuole uscire.
Siamo andate lì, a bagnarci di buio
e a smarrire ogni consistenza.
E poi siamo riemerse,
cittadine di due mondi,
soffiando via
polverose essiccate monotonie.
Ora ci piace
l’ubiquità delle tenebre e dell’aurora.
Corriamo tanto.
Con filamenti al posto dei piedi,
o con ruote briganti.
E ridiamo.
Eravate qui
Ho imparato da voi
a scansare la ragnatela del buio,
e non ho bisogno del giorno
per vedervi.
Eravate qui, la scorsa notte,
sulla soglia.
Non mi sono alzata.
Ci sono momenti in cui
non bisogna agire;
ho lasciato la testa sul cuscino.
Vi ho sentito.
Mio compagno
dalla bianca fronte,
pensieroso e altero;
mia sorella
dall’innata eleganza,
desiderosa di comunicare;
mio amico dagli occhi verdi
e indisciplinati,
sempre pronto a scherzare.
Ho respirato piano.
Ho trattenuto la carezza,
per non dissolvervi.
Ho vuoto, ho dolore.
E ho anche amore.
E c’è un piccolo graffio,
come di gatto,
su un lembo della notte.