“GIOVE“
Romanzo di Patrizia Bellei.

SINOSSI DEL TESTO

Modena 1943

Lui vorrebbe evitare la chiamata alle armi e si mette delle robe strane sotto le ascelle per provocare la febbre. Non se la bevono e finisce a fare la guerra coi piccioni. Piccioni da combattimento li chiamano. In realtà portano dispacci in un’epoca in cui ci sono telefoni e radio, telescriventi e radar.
Ma il regio esercito italiano quello si può permettere: i piccioni.
Per sfuggire alla cacca d’uccello e alla noia mortale che lo attanaglia, fa richiesta di essere trasferito al battaglione dei paracadutisti e da qui in poi il suo breve servizio militare è la storia delle fughe con destrezza che gli permettono di riallacciare contatti con compagni di sbronze e di bravate e gli consentono anche qualche incursione conoscitiva nelle ancor vaghe e incerte iniziative contro il fascismo di Mussolini.

Natale 1944
C’è un mitra sul tetto del camion, dove l’hanno chiuso. Giove sa a cosa serve.
E’ il dissuasore per aspiranti fuggitivi.
Nel viaggio in cui ha l’impressione, fondata, di stare andando incontro alla morte, rivede la sua vita fino a quel momento. Dai giorni di galera immediatamente precedenti con le torture e gli interrogatori interminabili, indietro, indietro fino a quando studente, ha conosciuto i classici, le sigarette, le ragazze, le bevute con gli amici: Mario e Vittorio, Umberto e Sauro tutti a frequentare il bar Modena nei lenti pomeriggi d’estate, a inventare vite e a contestare tutto.
E ha conosciuto la bambina, la strana Dora con capelli come serti di fiori e occhi famelici e indagatori come quelli di un falchetto.
Sono cresciuti lui e Dora, ma lei, con cinque anni di meno, non ha alcuna curiosità per quel ragazzo dai capelli rossi che le sorride ironico, quando la vede. Lei pensa ai gatti e va incontro ai guai. E, quasi sempre, ci va di corsa.

Poi gli torna in mente il suo primo volo. Gettarsi da un aereo fidando nel paracadute è una bella botta si adrenalina, ma per lui, che tendenzialmente è uno che coltiva dubbi, oltrepassare la soglia del portellone è stato anche tuffarsi in un nuovo modo di prendere le cose.

Nei ricordi c’è anche, ancora sospesa, la faccenda di Sonia Solieri,:
“Ti sei messo con SS … ma tu sei scemo … dimmi che non è vero.” gli ha detto il suo amico Mario.
“Siamo stati insieme due o tre volte …” gli ha risposto lui “… dopo delle feste o delle cene a casa di Vittorio … e io ero più ubriaco di una poiana ubriaca e lei mi stava sempre addosso …”
Mario non fatica a credere a quello che gli viene detto. Se c’è uno che non prende iniziative in amore, è quella testa rossa del suo amico, che spesso sono le donne a concupire non il contrario. Quello che lo stupisce è il luogo d’incontro.
“Da Vittorio??? Ma quella è fascista.”
“La madre e la sorella di Vittorio vogliono mantenere buoni rapporti con tutti … sai, con l’azienda … non si sa mai.” spiega Giove “e poi ha due tette … e due gambe anche …”
“Ma va’,anche due gambe?” dice Mario.
“Sì, te le mette sotto al naso e le muove del tipo apri-chiudi, accavalla-scavalla … una troia. Ma a me le troie mi fanno impazzire”
“A te ti fanno impazzire tutte … troie o no, ben poco te ne cale”
“Giusto, hai ragione, sono una merda … una merda.”
“Ecco, appunto, sei una merda … però … forse …”

E la bella pensata di Mario è stata quella di farlo diventare una specie di spia, con tutto che Giove è imbranato e poco adatto alla menzogna e al raggiro.

Quando la situazione con Sonia diventa insostenibile, nel senso che ogni cosa è pronta per il matrimonio ed è previsto pure il trasferimento della coppia nella Parigi occupata dai Nazisti, i tempi sono maturi per assumere il suo definitivo nome di battaglia e andarsene in montagna. Va a sostenere la lotta del Partito d’Azione, di cui nel frattempo è diventato un adepto, grazie al fratello di Mario, Franco Allegretti che fornisce informazioni e documenti sui movimenti antinazisti in Europa e nel mondo.
Ricorda le riunioni, i discorsi, le consegne di volantini, le discussioni con Mario che è più scavezzacollo di lui e vorrebbe avere armi e attrezzature subito, quando invece le disposizioni del Pd’A sono di fare accoliti intorno alle idee fondanti di Giustizia e Libertà e di smantellare i concetti fascisti di violenza, arrivismo, falsa propaganda, prevaricazione e particolarismo.
Ricorda Parri e Pertini e l’emozione provata nel conoscerli. “Dobbiamo sradicare il fascismo negli Italiani e anche dentro di noi …” aveva detto Parri.

Mentre sta riandando con la mente a tutte queste cose, il camion si ferma e Giove si accorge di essere a Verona, Piazza delle Erbe e di non avere nessuna voglia di morire come un topo in un campo di lavoro tedesco.
Allora semplicemente scende.
Se ne frega del mitra sul tetto e incomincia a correre.

ADESSO!! CORRI!! Corri tra la gente, a zig zag tra le bancarelle. Non possono sparare a casaccio sulla folla … see hai voglia se possono … beh, fregatene.
No, mi spiace, non posso comprare i suoi peperoni. Spostati ragazzino, non vedi che sono in fuga dalla morte. Scusi signora se la urto, mi scappa di vivere: un istinto incontrollabile. CORRI evita il vecchio, se inciampi è finita. Salta il banchetto. Devi diventare una molla. Devi balzare, scansare driblare. Attento! La bicicletta … schivata. Tra un po’ finisce la piazza! Finita la gente. Li avrai addosso. Nasconderti o correre. Se corri devi scegliere! Il Sud. Dov’è il Sud? A sinistra. OK Modena è a sinistra. Sì, è così. E’ certo. Più veloce adesso. CORRI. Devi diventare un cavallo alato, un ippogrifo, un’anatra, quello che ti pare, ma corri, non ti fermare, non voltarti. Se mi volto posso diventare una statua di sale. Non mi volto. Io sono le mie gambe, i miei muscoli, i legamenti, i nervi … No, adesso corri. Corri e basta. Non ascoltare il tuo cuore. Non fermarti. Pensa ad altro. A cosa. Pensa ai piccioni. Sì, se proprio devi pensare a qualcosa, pensiero neutro: i piccioni. Porca vacca è finita la strada. Finita la città. Una pattuglia PORCA VACCA PUTTANA…

E qui la storia del partigiano Giove, imprigionato in Accademia a quota “pipistrelli” per una soffiata, mentre cercava di nascondere due soldati russi, prende tutta un’altra piega e diventa quella di tutti i giovani alle prese con le pulci e il freddo, gli scontri ideologici e la mancanza di cibo, la voglia di divertirsi e i morti ammazzati, le barzellette e le storie di torture.

Ormai c’è un gran casino nella baracca dove è ritornato dopo la fuga.
Sono a Farneta festeggiano il ritorno di Giove e sono tutti ubriachi.
“Hoi, questa era pesa, cosa ti hanno dato da mangiare in Accademia, eh Giove? Topi morti?“
“Ma stai zitto tu, che se facciamo una gara … quella di prima sembrava l’eruzione di un pozzo nero“
“Ragazzi mi fate schifo“ fa Sauro“Va beh l’azzeramento dei freni inibitori, ma qui siamo ben oltre la bestialità …“

Si sa che il lambrusco è come la coca-cola: tutte le bollicine che vanno dentro, sono impazienti di tornare fuori per rimescolarsi all’aria. Talvolta portandosi dietro qualche miasma.
“GARA DI RUTTI“propone Max e, nel dirlo dà l’esempio.
“Ecco appunto, siamo al Ritz, mesdames e messieurs“ stigmatizza Sauro scuotendo la testa.
“Sai qual è il tuo problema?” fa Mario che ha raggiunto un buon livello alcolico “E’che non bevi, se continui a fare l’astemio, mica lo passi l’inverno, ti ammazziamo prima noi” E si fa una gran risata da cui esce pure un rutto di tutto rispetto, breve ma possente. Convengono tutti su un otto ben meritato.
“Io non faccio l’astemio, io SONO astemio … se bevo vomito …“ gli risponde Sauro.
“Ma ci devi provare … devi metterti d’impegno…“
Max, a questo punto, esegue l’inizio dell’Internazionale con un unico rutto.
E’ un dieci a furor di popolo.

In tutto questo c’è anche Emiliano, il fratello di Giove, ottimista a oltranza e cultore del baratto. Raggiunge suo fratello in montagna e riesce ad affrontare guai e complicazioni, col suo entusiasmo e l’assoluta mancanza di dubbi.
E c’è Dora, anche lei col desiderio di unirsi ai partigiani, che arriva un giorno e dice: “Rimango qui.”
Giove è contento di vederla, è diventata bellissima e fiera, ma ha conservato una certa propensione a cacciarsi nei guai e siccome lui non ha bisogno di complicarsi la vita, la rimanda a Modena, dove, dopo qualche giorno, viene prelevata per ordine di un ufficiale tedesco che si è incapricciato di lei.
Viene portata in Accademia, quartier generale dei crucchi, ma non sta a quota “pipistrelli”, bensì due piani sotto, nella zona delle stanze di ricevimento e dei salotti, delle sale da ballo e delle camere da letto con alti baldacchini.
Una di queste viene assegnata a Dora, insieme a una cameriera personale, una parrucchiera e una sarta. Dora scalpita, prova a fuggire, ma alla fine capisce che rischia la vita e riesce a tenere finalmente sotto controllo la sua linguaccia impertinente e a fare leva sulle sue abilità di donna, piuttosto che quelle da maschiaccio, per procrastinare e illudere, seminare false speranze e ritrarsi.
Insomma riesce a temporeggiare e aspetta gli eventi.

Giove tutto questo non lo sa.
Lui adesso deve vedersela con le battaglie e i paesi rasi al suolo, l’organizzazione, gli approvvigionamenti, la sistemazione e l’armamento dei moltissimi che vengono dalla pianura e si uniscono alle brigate partigiane.
Sono cattolici, socialisti persino qualche anarchico. Non hanno armi, solo ideali.

Sonia, incinta di tre mesi e senza notizie di Giove, è partita per la Francia su ordine di suo padre che la vuole mettere al sicuro dagli attacchi Americani, più probabili ora, dopo lo sbarco in Sicilia e in Normandia, dopo due bombardamenti su Modena e le sempre più esigue speranze a proposito dell’arma segreta che i Tedeschi continuano a tenere, appunto, segreta.


VIA SANT’ORSOLA

ROBERTO

C’era un ragazzotto più grande di me che faceva l’apprendista nel negozio d’idraulico all’angolo di via Sgarzeria. Tutte le volte che passavo di lì, lui faceva dei suoni come a chiamare un gatto.
Io, ovvio, credevo che avesse un gatto.
Ma un giorno mentre passo mi tocca un braccio e mi dice: ‘Fermati’
Io lo guardo interrogativa e lui fa:‘Ma non ti sei accorta che ti faccio il filo?’
Io che non ho le idee molto chiare sul filo, me ne sto zitta.
“Ti punto insomma…”
Rimango muta e divincolo il braccio.
Non è che a dodici anni una debba sapere proprio tutto tutto.
Mi fermo ancora davanti alle vetrine dei negozi di giocattoli e due minuti dopo, con lo stesso interesse, davanti a quelle di cosmetici o di scarpe coi tacchi.
Sento spesso mia madre raccontare di questo bizzarro atteggiamento alle sue amiche sorridendo.

Fatto sta che quella prima volta, mentre scappo via, perché non ho niente da dire, mi volto un attimo a vedere se quello lì non abbia sbagliato persona e vedo che mi segue con lo sguardo, mi fa ciao con la mano e mi lancia un bacetto.
Allora decido di pensarci su e chiedo in giro agli amichetti maschi dispensatori di grandi verità su come nascono i bambini e quelle cose là. Chiedo se si rimane incinte a parlare con uno per la strada.
Loro dicono che non sanno. E ti pareva? Fanno i sapientoni poi quando si arriva ai fatti …
Alla fine però si informano e mi dicono che no, non succede niente finché non si dorme insieme.
Così, la volta che di nuovo il ragazzo Roberto mi rivolge la parola, io ascolto e rispondo con educazione.
‘Allora, tu che lavoro fai?’ dice lui
‘Io vado a scuola.’ rispondo:‘Faccio la seconda media.’
‘Io faccio l’idraulico.’
‘Eh, lo vedo, sei sempre qui in mezzo ai tubi e ai cacciaviti, cosa dovevo pensare che facessi, il mugnaio?’
‘Ehi ragazzina, mettiamoci d’accordo, se vuoi essere la mia ragazza, devi abbassare la cresta con me. Sono io il maschio.’
‘La tua ragazza come? Che poi ci dobbiamo sposare e dormire insieme?’
‘Oh, adesso non correre …’ dice questo sorridendo ‘… sei un po’ matta eh tu?’ e mi mette un braccio intorno alle spalle attirandomi verso di sé.
Io mi divincolo e ancora una volta scappo via presa dalla paura di avere capito l’otto per il diciotto.

La mia amica Simonetta che ha due anni meno di me, ma sa più cose perché ha i fratelli maschi, mi dice: ‘Oh, ma lo sai che adesso che sei la sua ragazza lo devi baciare?’
‘Baciare come?’ chiedo.
‘Come fanno nei film’ dice lei.
‘E come fanno nei film?’
‘Ma sì dai, girano la testa di qua e di là, sai no? Così…’ e si mette a muovere la testa con le labbra sporte in avanti, unite a forma di cuore.
‘Aaah, così…’ e provo a imitarla.
‘Sì, ma devi chiudere gli occhi. L’importante è avere gli occhi chiusi.’
‘Così?’ dico io.
‘Sì’ fa lei ‘Così dovrebbe andar bene’

Dopo la lezione dell’amica Simonetta e svariate interviste agli amici maschi e rassicurazioni sull’inefficacia del bacio a scopo procreativo, mi sento pronta per il terzo round.

Sono passate settimane e la primavera ormai alleggerisce i vestiti e fa togliere i pesanti calzettoni di lana.
Esco oggi e mi sento grande, con un vestito a fiori di cotone giallo e le scarpine nuove di vernice nera che mi sembra di essere Audrey Hepburn.
E’ l’ora in cui lui torna al negozio col padrone, dopo il lavoro della giornata.
Io vado a prendere il latte.
Lo vedo. Mi vede.
Davanti alla vetrina che espone rubinetti, sgorga lavandini e assi da cesso, lui, ritto in piedi a gambe larghe come un cow boy, mi chiama e quando sono di fronte a lui, fa un fischio e dice: ‘Come siamo belli oggi, dove devi andare?’
‘Solo oggi?’dico io.
‘Come solo oggi?’ fa lui.
‘No, dico, siamo belli solo oggi?’ sottolineo le parole spazientita.
‘No, no, sempre.’ Poi dice: ‘Vieni qui, perché stai così lontano?’
‘Per farmi guardare, no?’
‘Vedi che sei simpatica quando vuoi … vieni qui, ho detto.’
‘Perché?’ chiedo io.
‘Uffa … allora vengo io’
E in quella mi afferra per un braccio e mi guarda un po’ di traverso poi mi trascina dentro un portone lì di fianco.
Io oppongo una debolissima resistenza, giusto per salvare la dignità; in effetti, sono molto curiosa di tutta questa faccenda.

E proprio lì, dentro quel portone, con le mie scarpine nuove e il vestitino giallo, ricevo il mio primo bacio.

‘MA CHE SCHIFO!’ urlo io, pulendomi la bocca e sputacchiando ‘C’è proprio bisogno di tutta questa saliva?’ aggiungo.
Il ragazzo Roberto ci rimane un po’ male, ma dice: ’Finora non s’è mai lamentata nessuna’
‘E poi sai di ferro …’
‘Di ferro?’
‘Sì di ferro, blàh, di ferro’
Allora lui ci riprova. Stavolta mi oppongo strenuamente.
‘Non mi va, no, non mi va, smettila.’ E faccio mulinare le mani cercando di graffiarlo.
‘Sei una gatta selvatica, eh?’ dice lui ‘Ma io ti domerò, vedrai’
‘Lasciami andare’ faccio io, seria.
‘Ma sì, vai, ma chi ti vuole …’ dice lasciandomi: ‘scappa, scappi sempre tu …’
Me ne vado e mi sembra di essere sporca e che anche il mio vestitino e le mie scarpe non abbiano più il fulgore di prima.

Nei giorni successivi mi trovo a fare larghi giri dell’isolato per evitare di passare davanti al negozio dell’idraulico. Finché un giorno, dopo qualche settimana, la mia amica Simonetta mi dice che ci posso passare tranquillamente perché pare che il ragazzo Roberto non si veda più. Sembra sparito. Forse ha cambiato lavoro.

Non aveva cambiato lavoro. Era morto.

Ma dico io, una da un bacio a una persona, il primo bacio della sua vita e quello scriteriato insolente che l’ha baciata, va a morire sotto i ferri per un intervento di appendicite!?
Una ci rimane di merda e nella sua testa di bambina i pensieri fanno dei cortocircuiti che neanche i fulmini di Giove Pluvio.

Così per un bel po’ di tempo ho continuato a tirare gli stuffioni con la cerbottana, ad andare in giro con i miei amichetti in cerca di tesori e a fare lunghe partite a calcio in cui mi toccava sempre stare in porta dato che ero la più alta di tutti.

Non che mi mancasse qualcosa, anzi, mi era rimasta come una specie di ribrezzo unito a inquietudine per quella cosa là del fidanzarsi.

Non capivo perché le altre ragazzine a scuola si riempivano i diari di foto di attori e cantanti e si sdilinquivano a commentarle e confrontarle fra loro e ripetevano estasiate quanto quei tizi erano fighi e forti e quanto loro avrebbero voluto vederli e toccarli e avere i loro autografi.

– Mah … – pensavo – Forse bisogna che mi trovi qualche foto anch’io. – ma poi mi mancava la voglia e me ne dimenticavo.

Quando ho conosciuto Mara C. che anche a lei dei ragazzi non poteva fregargliene di meno, tutto è diventato più fluido.
Non mi sentivo più così diversa e, con lei, ho cominciato a sfogare le mie energie nell’atletica leggera.
Andavamo a fare allenamento tre volte a settimana. Lei passava a prendermi e mentre andavamo verso il palazzo dello sport ci fermavamo alla pizzeria col forno elettrico che c’era in Piazza Roma e ci pappavamo una doppia pizza quadra a testa e poi correvamo leggere come grilli.

Era una latenza del sentire. Le energie incanalate nell’atletica erano quelle che altre usavano per arricciarsi i capelli, depilarsi le gambe e parlare di ragazzi.
Io e Mara C parlavamo di medaglie e di primati.
Io corsa a ostacoli, lei corsa veloce: 100 metri piani.
Finché ho vissuto in via S.Orsola, quello è stato il mio mondo, ma le cose dovevano cambiare e lo fecero molto velocemente.


TRENO

Carrozza non fumatori.
L’uomo fuma con la testa fuori dal finestrino. E’ alto e sta molto piegato.
Il sedere è a settanta centimetri dal mio naso, quando m’infilo nell’unico posto libero. Vicino al finestrino

Finita la sigaretta, si siede di fronte a me.
Bel naso – narici perfette
Bocca carnosa. Taglio sobrio.
Camicia tenera e cravatta.
Movimenti misurati e sicuri.

Si alza.
Ma dov’è che va?
Ehi! Lasciami guardare! Tanto mica ti disturbo. Gli occhiali a specchio dissimulano e disperdono il mio sguardo indiscreto, invadente, inverecondo.
Torna. Si gira a prendere un giornale dalla reticella.
Di nuovo il suo posteriore in primo piano e stavolta non di profilo.
Sedere perfetto, stretto e tondo. Godimento per gli occhi; voglia di dargli una palpatina.
Si risiede. Ai raggi x gambe solide, muscolose e slanciate.
Sfoglia una rivista e d’un tratto alza lo sguardo e perfora i miei occhiali. Che sono A SPECCHIO.
Mi sembra che vagamente sorrida.
Mi sento rossa.
Naaa! Impossiiiiibile!
Però….
Naaaaa! .
Abbasso gli occhi sul mio libro.
L’Austria. Il Capo Divisione Tuzzi. L’Azione Parallela. E la poesia delle parole.
Musil mi porta con sé dentro le pieghe dell’anima di Ulrich.
Dalla fessura esterna degli occhiali entra lo scorcio di due scarpe che si muovono.
Timberland! In Luglio!
La moda che si coniuga coi vermi ai piedi .
La grande beffa americana.
Cosa è meglio dei mocassini! E invece lui, l’americanizzato, che osa guardare dentro i miei occhiali a specchio, lui se ne frega dei ritmi della natura, delle leggi antiche delle grandi praterie, dei bufali, della magia, della ritualità,
Per lui l’America è il ponte di Brooklin. E Rambo.

Maturo astio. Bene. Serve ad assemblare la spessa coltre di gelo necessaria.
Pusillanime codarda.
Esorcizzi!
E solo perché, FORSE, ha scoperto il tuo gioco dietro gli occhiali a specchio.
Anatema e vilipendio!
Non riesci neanche ad essere all’altezza delle tue sfrontatezze sporadiche.
O.K.cambiamo rotta subito.
In fondo chi l’ha detto che la sfrontatezza è meglio non coniugarla al femminile?
Come chi l’ha detto? Lo so benissimo chi l’ha detto. La nonna…
Nonna, muori davvero, finalmente!
Schioda il tuo fantasma di perbenismo e rossori dalle mie vulnerabili cellule.
Non è cosa.
Non è tempo.
Chi se le fila più le tue idee, oggi!
Va beh, guardiamocelo insomma.
Mica si consuma.
E poi chi se ne frega se se ne accorge.
Fruisco.
Lo sguardo scorre il suo profilo.
Riccioli scuri sulla fronte e dietro le orecchie.
Disegno dolce delle sopraciglia. Pelle chiara – naso dritto.
S. Barnaba del Botticelli col capo reclinato. In lettura.
E l’occhio fluttua sulle righine azzurre della camicia. Si appoggia sul blu dei pantaloni e sulla bella mano chiara abbandonata.
Inciampo nel Rolex!
Un po’ volgare come oggetto, ma gran bell’effetto di luccicanza.
Indulgo sull’oro. Metallo morbido, colore caldo. La sua vista sempre mi agguanta di piacere.
La spilla rotonda a topazio della nonna, con intarsi di oro bianco e oro giallo. Pietra al centro. Solare. Delizia per gli occhi.
E poi l’oro dei Celti e dei Normanni, reso sacro dall’utilizzo.
La maschera di Agamennone. Miracolo di perfezione.
Oro, dio del tempo, adattabile ed eterno.
Perfetta materia.
E perfetta metafora.
Sì, nonna, c’è oro anche dentro di noi.
Basta trovare l’equilibrio tra i metalli preziosi e il letame.

Il treno sibila sciogliendo i contorni delle immagini.
Quasi Bologna.
Mi preparo a scendere.
Raccolgo le cose. Mi alzo in fretta. Penso con apprensione agli impegni.
Inciampo in una gamba.
Non ci posso credere, ha davvero tentato di farmi cadere?
Naaa. Sarà il caldo che arruffa le mie percezioni.
Abbasso su di lui uno sguardo vuoto. E incontro due lenti scure e un sorriso sfacciato.
Intollerabile presuntuoso! AH, ma con me non funziona mio caro!
Unica bambina in un caseggiato di soli maschi, sempre legata al palo degli indiani, o a fare il portiere; sempre a stare nella capanna mentre loro andavano alla guerra.
O impari in fretta o sei fregata. E guai ad andare in lacrime dalla mamma per un’angheria. Era da FEMMINA. Perciò, o una impara subito a prevenire gli sgambetti e a rimanere in equilibrio su una gamba sola, o soccombe.
Mentre mi sciolgo dal groviglio di gambe, sorrido non vista e penso che vorrei giocare.
Il treno si ferma. Senza più l’aria che entra dai finestrini, il caldo mi chiude la gola.
Siamo a un chilometro, forse due, dalla stazione. Baracche agli argini e orti per gli anziani.
Mi risiedo. E’ una di quelle carrozze aperte, senza scompartimenti, che hanno sedili ai due lati e, adesso che tutti si sono alzati e sono stipati davanti alle uscite, trovo posto sul lato in ombra, a qualche metro da lui.
So di essere osservata. So che i fiori rosa dei miei pantaloni aderiscono alla pelle mentre mi piego e mentre distendo o accavallo le gambe.
So che, in questa posizione rilassata di tre quarti sul sedile, il contorno delle natiche
fa tutt’uno con la linea della coscia e della gamba fino alla caviglia.
E’ probabile che, se guarderò dalla sua parte, incontrrò i suoi occhi inclinati a seguire quelle linee come i contorni di un’isola che si guarda da una collinetta.
Non ho bisogno di guadare. Mi sento bene nella mia pelle, il mio profilo gli può bastare.
Pesco un libro, mi accomodo meglio, allungo le gambe sul sedile di fianco.
Appoggio i piedi sul bracciolo. Tanto non c’è nessuno.
Lucia dice che, per la mia mania di stare comoda, riesco ad assumere posizioni impudiche anche negli ascensori.
Lei riesce a stare seduta composta a una conferenza per almeno due ore. A me la noia mi uccide.

La sosta è più lunga del previsto.
Questo ritardo comincia ad agitarmi.
Chiudo il libro e mi giro.

Tutti i sedili vuoti, anche quello del provocatore.
Delusione.
Lo cerco con lo sguardo. E’ sparito.
Smaterializzato.
O.K. Mi alzo.
Raccolgo tutto. Voglio scendere, insomma! Mi sento prigioniera. E poi non ho tempo da perdere. Mi prende un trip assurdo da ansia claustrofobica.
Apro i finestrini, guardo fuori.
Rotaie e fiume.
Dalla parte dei finestrini, al sole, le colline bolognesi avvolte in una nebbiolina di calore abbagliante.
L’immobilità del pomeriggio estivo surriscalda la carrozza e rischia di farci andare arrosto.
Lunghi minuti di caldo ancora, poi la ferraglia cigola e il treno si muove.
Oltrepassa il fiume, affianca la tangenziale, le case, supera il sottopassaggio e lentamente, mooolto lentamente entra nella stazione.
Ciiiiigola e si ferma.
Prendo terra con un sospiro, come tutti.

Gente. Una marea. Si affrettano all’uscita, verso gli autobus e i taxi.
Cammino al loro passo. Avvolta
Nuche – Spalle – Qualche profilo – Ondeggianti.
Si cammina veloci, senza guardarsi, fianco a fianco.
A un tratto una faccia.
Il flusso di gente si apre per evitarci.
E’ lui.
Sorride, si affianca.
Camminiamo.
Tace.
Che sia muto?
Taccio anch’io e continuo a camminare al suo fianco.
Vicini tra mille, ora, in questa frazione di tempo in cui, per caso, condividiamo anche lo spazio.
I nostri occhiali si incrociano.
Mi prende una mano e mi trascina.
Tagliando la folla di lato, arriviamo al primo binario.

Treno per Roma.
Si ferma davanti alla scaletta.
Mi guarda. Divincolo la mano.
Sale rapido e ricompare al finestrino di fianco.
Lo guardo dalla piattaforma.
Nessuna parola è stata spesa, nè i nostri occhi hanno abbandonato la barriera protettiva degli occhiali.
Saluto educatamente con un cenno del capo, mi volto e mi allontano pensando alle linee di due vite su un asse cartesiano. Una sinusoide e una parabola. Tangenti per un attimo poi tendenti all’infinito. Ti dà da pensare. Sicuramente preferirei essere la sinusoide.

Il treno si muove dal primo binario.
La sua carrozza mi passa di fianco. Lui fa ciao con la mano e mi dice dei numeri.
06 44689220. Allora non è muto.
Sorride e, mentre il treno si allontana veloce, ripete, urlando
0 6 4 4 6 8 9 2 2 0
Quei numeri sono un filo sottile lanciato tra due curve. Ci posso camminare sopra
in punta di piedi, come un’equilibrista. Oppure lasciare il filo a ondeggiare nel vuoto siderale.