VISITARE GLI INFERMI

La mattina è umida e scura.

La luce bianca del reparto e l’acre odore del Betadine ci feriscono.

Ci hanno chiamati e adesso nessuno sa dirci nulla.

Nel silenzio solo il respiro artificiale delle macchine.

Attesa.

La vetrina asettica ostenta la sua merce:

quattro corpi in svendita, nessun valore, nessun prezzo.

Il nostro sguardo percorre lentamente lo spazio al di là del vetro

soffermandosi con curiosità sui corpi anonimi.

L’ultimo letto è protetto da un paravento di alluminio. Si intravede appena la massa intrecciata dei

tubi e dei fili collegati a macchine impietose.

Uno alla volta.

Possiamo entrare solo uno alla volta.

L’ultima volta.

Camice verde e mascherina.

Dentro, l’affanno meccanico sovrasta ogni altro segnale.

Non mi riconosce. Una mano è legata: il braccio livido è inerme sotto il flusso dei farmaci che

ancora si illudono della loro impresa. L’altra mano si muove inquieta lisciando ritmicamente il

risvolto del lenzuolo.

Un colpo di tosse, poi il fischio prolungato della macchina respiratoria e una luce rossa sul monitor;

ancora tosse secca e graffiante e il risucchio del catetere in profondità

Volta la testa da una parte, la rivolta verso di me.

Mi avvicino in attesa di un segno, ma tutto è inutile.

Un minuto.

Dal vetro mi fanno cenno: il mio turno è finito.

Dentro un altro.


DISTANZE

Cammino muovendo lentamente i fianchi

Sotto i tuoi occhi neri

Sguardo da pirata.

Mi sembri un dio antico

Non Eros né Apollo.

Piuttosto Ares

Perché è la guerra che mi dichiari

Sfuggendo i miei occhi.

Ed io resto lì

Come punto interrogativo nel vuoto.

La tua gioventù mi affascina

La tua timidezza mi fa audace.

Potrei allungare una mano

A sfiorarti i capelli che porti più lunghi dei miei, nero corvino

O la barba lasciata appena incolta.

Ma il tuo rossore e lo sguardo smarrito

Sottolineerebbero il mio errore.

Sorrido della tua confusione

Mentre mi porgi il resto sbagliato

E fingo – materna – distacco

Mentre metto in moto l’auto

E parto.


MAESTRI

Ogni giorno i miei maestri mi pesano di fino.

Ogni giorno mi misuro con due arcigni ed esigenti

Artisti di virtù.

L’uno sa, ha l’occhio attento,

Mi scruta come chi ha già raggiunto la sua meta

E con saggezza è pronto ad istruire.

Mi esamina con gli occhi spalancati

In attesa della mia risposta esatta.

Io tentenno e non sempre ci azzecco

Potrei essere più accorta,

Concentrarmi ed impegnarmi.

Ma non sono allieva esemplare

Né persona da imitare

Per ciò che non so fare mi potrà perdonare?

L’altro mi guarda duro

Mi insegna il silenzio e l’essenziale

A guardare oltre l’apparenza

E a lottare senza cedere sul campo.

Ma parlo sempre troppo

E non so negarmi l’eccedenza.

Eppure leggo i suoi pensieri

E cerco di andare in fondo

Senza perdere coraggio.

Ciò che mi chiede va oltre ciò che sono

E spesso annaspo.

Potrà perdonarmi per ciò che non ho fatto?

Ho ancora molto da imparare

Da questi sfrontati

Aguzzini innamorati!