“ E noi che pensiamo la felicità
come un’ascesa, ne avremmo
l’emozione quasi sconcertante
di quando cosa ch’è felice, cade. “
( Rilke, “Elegìe duinesi“, x )

Su materiali poveri,
strenui residui dei giovani deliri,
fuscelli facili al montaggio,
incardino ora i miei giorni.
E’ finita la diaspora,
e le sirene più non ascolto
dei mulini a vento.
Dalla lavagna cancello
parole e disegni tracciati con gesso spavaldo.
Poto, sfrondo, disbosco…
Ma l’usura è matrice di nuovo
assetto : minimo,
e pur regge all’impatto del caso,
campo magnetico
che energie latenti attiva in fertile osmosi.
Assilli abusi ferite
nell’alveo dormono
di questa rinata cadenza di vita.
Il disarmo non è resa,
il rifiuto non si fa rinuncia
né esorcismo di cura,
ma canone di mutato contrappunto,
discrimine certo
tra essere stati
e poter essere ancora.
Dal tempo passato
le mie radici cauta allungo e intrido
nel tempo che verrà.


Settembre a Makrinitsa

Grandine di stelle,
nella notte settembrina
senza luna,
sui lunghi opachi sonni
che solo al respiro del mattino
si aprono al sogno.
Ora “die Sonne tönt”
sulle scaglie
di plumbea ardesia,
corre leggero il vento
a cavallo dei tetti,
e l’occhio è luce
che dilaga lungo il pendìo
e accende laggiù
il mare di Volos
caro a Giàsone.
Sulle stradine sghembe, ripide
di sassi antichi
i miei passi radenti i vecchi muri
che arroventa e scontorna
l’ora meridiana deserta
d’ombra e di umana presenza.
Pensieri di memoria,
di attesa:
un nomade dio,
genius loci,
si profila al margine di un’erta
e subito dispare,
lampo che abbacina
e trapassa ogni difesa di palpebra.
Ἐποχή del mondo,
e io non so più
il peso delle membra,
la fatica di pensare
alla vita, alla morte,
al tempo che m’infosca.
Nel silenzio:
il mio silenzio.


COSMOS/CAOS

I miei armadi, i cassetti,
i mobili in cucina,
i libri sui ripiani degli scaffali,
le piante che disseto dal sole
sulla terrazza
sono in ordine perfetto :
niente sciatterìe né fuoriposto.
Mi riposo e consisto
nella ferma geometrìa
degli oggetti
a tal punto che smotto
al minimo scarto.
Anche le pagine dei miei giorni
provo a disporre in silloge ordinata
sì che il dopo
dal prima
derivi la sua necessità
e l’oggi prepari
un sensato domani.
Ma sono sempre sparigliate,
negate ad ogni griglia
di sintassi.
Solo perdite sprechi avarìe
si offrono alla caccia
della memoria,
omissioni e rinunce
che non capisco più,
ma sono state mie,
me sono diventate.
Un retablo
di figure e segni scomposti
si rifiuta
irriducibile
alla mia preghiera
di disegno o condono.
Dove, quando ho perso
il filo? E c’è un filo
che dall’inizio alla fine
si dipani pietoso di colpe, di errori?
Dalla nuvola l’acqua
le rose dal rosaio
dagli scogli la roca risacca
la stella dal caos:
e io? Da dove?
E fino a quando?
Al silenzio
che mi risponde
non scampo.