La penna e il badile

“Siccome avevo preso un altro brutto voto, mio padre mi disse:
– Va bene, allora oggi verrai con me a lavorare. Così vedrai come si fatica!
Mio padre faceva il giardiniere, e andava in giro per i giardini altrui. Andava a potar piante, rastrellare foglie e tagliare erba col suo potente tagliaerba. Quel giorno doveva occuparsi niente meno del giardino dei terribili Lorchitruci.
I Lorchitruci erano la famiglia più ricca e potente della collina. A me facevano paura due cose di loro: il nome, perché mi veniva da pensare a degli orchi molti truci; e il giardino, appunto, perché era chiuso da una muraglia gigantesca dietro la quale chissà che cosa mai si nascondeva.”
Cercavo sempre di stare alla larga da quell’enorme muro di cinta, all’uscita dalla scuola preferivo allungare la strada del ritorno a casa piuttosto che costeggiare quella specie di fortificazione, con la paura che da un momento all’altro mi potesse accadere qualcosa di terribile. Ora era giunto il momento di varcarlo,ero intimorito dal grande cancello in ferro battuto e dal lungo viale alberato,ma soprattutto dai due doberman che ringhiavano a chiunque passasse davanti all’ingresso della villa.
– Eccoci arrivati,- disse mio padre – ora imparerai la differenza tra lavoro e studio,tra penna e badile. Per prima cosa inizia a togliere le foglie lungo tutto il viale, e fai un bel lavoro altrimenti sentirai la voce del signor Lorchitruci.
Queste ultime parole aumentarono le mie paure al punto tale da non farmi sfuggire nessuna foglia, neanche la più piccolina, stavo facendo un bel lavoro quando una folata di vento le sparse di nuovo per buona parte del viale. Tutto da rifare, sotto lo sguardo severo di mio padre e dei due doberman che tranquilli girovagavano per il parco ma soprattutto sotto i raggi cocenti del sole. Terminato il mio compito, fatto con certosina pazienza e con enorme fatica mi diressi verso una panchina del parco per offrire un po’ di sollievo alle mie povere gambe quando sentii la voce burbera di mio padre:
– Non è questo il momento di riposare, ci sono da raccogliere tutti i rami secchi che ho tagliato dagli alberi. Non ero ancora arrivato alla panchina che dovetti stancamente cambiare direzione, mi avvicinai alla gigantesca muraglia per iniziare a raccogliere tutto ciò che mio padre aveva appena tagliato dagli alberi che l’accompagnavano lungo tutto il perimetro del giardino. L’avevo vista sempre dalla strada e mi chiedevo con apprensione cosa ci fosse stato al di là,e adesso avevo la risposta, alberi, alberi, alberi e con tanti rami secchi che dovevo raccogliere. Avevo così sfatato una delle due paure che avevo di questa famiglia,la seconda venne meno quando,terminato il lavoro al momento di andarcene si avvicinò il signor Lorchitruci in persona il quale mi accarezzò il capo facendo i complimenti a mio padre per avere un figlio così bravo ed educato. Ero stanco morto, le gambe mi si piegavano, avevo le mani arrossate e indolenzite, sicuramente avevo imparato a distinguere una penna da un badile, senza dubbio era di gran lunga più simpatica la prima, promisi a mio padre che da quel momento in poi avrei studiato con più entusiasmo e alla maestra non avrei più risposto “Parigi” quando mi avrebbe richiesto il nome della capitale dell’Inghilterra.


Morire per un lavoro

Violeta, romena di Iasi, cittadina di 300 mila anime nell’estremo nordest della Romania, alta, mora, un corpo da indossatrice, dimostra più dei suoi 20 anni. Nata nell’immediato post Ceausescu, quando, sconfitta la dittatura, si cominciavano ad assaporare i primi venti di libertà, Violeta lasciò presto la sua famiglia. Anzi, a dire il vero, fu lei ad essere stata abbandonata dai suoi genitori alcuni anni prima. La madre, Catrinel, pensò bene di scappare con un giovane russo facendo perdere le proprie tracce, mentre il padre Mircea era troppo preso dall’alcol per pensare a lei. Per due anni visse con la nonna materna, ma quando questa venne a mancare si ritrovò sola ad affrontare la dura realtà. Trovando molte difficoltà ad andare avanti, Violeta accettò la proposta di un’agenzia a trasferirsi all’estero, dove le probabilità di trovare lavoro erano maggiori. Detto e fatto. Qualche giorno più tardi arrivò a Roma e venne fatta alloggiare in un appartamento nei pressi della stazione ferroviaria di Termini insieme ad altre due ragazze, una sua connazionale ed una bulgara, anche loro in cerca di un lavoro. Per alcuni giorni filò tutto liscio, le tre ragazze erano oggetto di gentilezze e premure da parte degli organizzatori del viaggio, visite turistiche durante il giorno e ristoranti chic per la cena, per terminare le serate nei locali alla moda. Il tutto in attesa di iniziare il lavoro per il quale erano giunte in Italia, Violeta e la ragazza bulgara come impiegate grazie al loro diploma di ragioniere, l’altra come cameriera. Fu proprio durante una di queste serate che le cose cambiarono repentinamente e fecero capire a Violeta dove e con chi era capitata. Era quasi mattina quando, insieme al suo accompagnatore e due suoi amici, uscirono dal “Blue Moon”, uno dei locali più “in” della capitale. Dopo un giro disintossicante per le strade deserte di Roma, al momento di congedarsi dal suo accompagnatore e dagli altri due individui, questi pretesero di entrare con la forza in casa. Qui le cose precipitarono. Violeta venne scaraventata violentemente sul letto da uno dei tre, mentre gli altri due si occuparono delle altre ragazze, richiamate dalle grida della loro amica. Le malcapitate vennero ripetutamente colpite con pugni e calci fino a che, stremate e sanguinanti, cedettero sessualmente ai loro aguzzini. Le violenze durarono diverse ore, tra le lacrime delle ragazze e le violenze dei tre delinquenti, fino a che in tarda mattinata i tre lasciarono la casa chiudendo a chiave le tre donne, dopo aver preso loro i passaporti e dopo averle pesantemente minacciate e terrorizzate di non chiedere aiuto. Alle tre sventurate non restò altro che leccarsi le ferite e riprendersi dal forte trauma subìto. Nemmeno il tempo di realizzare ciò che era loro capitato, che nel tardo pomeriggio della stessa giornata gli aguzzini si ripresentarono davanti ai loro occhi, comunicando loro, con dei sorrisetti alquanto sarcastici, che era giunto il momento di prendere servizio nel loro nuovo lavoro. Aprirono una piccola trolley e tirarono fuori, mettendoli sul letto, alcuni indumenti, dicendo alle ragazze di indossarli che sarebbero state le loro nuove divise. Le poverine sgranarono gli occhi e impallidirono nel vedere super minigonne, calze a rete e corpetti che non lasciavano niente all’immaginazione. Ora era tutto chiaro, purtroppo per loro. Erano capitate nelle mani di un’organizzazione dedita allo sfruttamento della prostituzione. Sembravano pietrificate, le poverine, non avevano la forza di fare neanche una minima mossa, mentre i loro occhi iniziavano a gonfiarsi di lacrime. Ma gli aguzzini non avevano tempo da perdere e si scagliarono con la solita violenza contro le ragazze strappando loro di dosso i vestiti e obbligandole ad indossare gli altri. Mezz’ora più tardi, come avevano temuto, si ritrovarono su un marciapiede di una strada semibuia e abbastanza trafficata. Non ci volle molto per vedere la prima auto fermarsi accanto a Violeta. Era una ragazza bellissima, con un corpo altrettanto bello, messo ancor più in risalto dall’abbigliamento impostole. Purtroppo, o fortunatamente, per lei le auto come si fermavano, vedendola piangere incessantemente, ripartivano in un batter d’occhio, con evidente disappunto dei suoi aguzzini che la osservavano nascosti comodamente in macchina. Inevitabili erano i pugni e gli schiaffi che era costretta a subire per non “impegnarsi” nel lavoro. La nottata volse al termine e le tre ragazze vennero riaccompagnate nel loro appartamento, dove furono trattate di nuovo a suon di schiaffi e pugni per il magro guadagno della serata. Rimaste sole, le tre ragazze si abbandonarono ad un pianto scrosciante, abbracciate l’una all’altra. Rimasero così qualche minuto, poi Violeta si chiuse in bagno ed aprì il rubinetto dell’acqua calda nell’intento di riempire la vasca. Si sentiva sporca, i tre rapporti sessuali consumati con altrettanti sconosciuti nell’arco della serata avevano fatto sì che sentisse il suo corpo puzzare terribilmente. Sprofondò nell’acqua fumante della vasca continuando nel suo pianto, con le lacrime che scendevano sulle sue guance e terminavano la loro corsa nell’acqua calda. Man mano che passavano i minuti la casa sprofondò nel silenzio di Morfeo, interrotto di tanto in tanto da qualche incubo delle ragazze che si svegliavano di scatto fino a che, con il sole già alto, vennero destate definitivamente dai loro aguzzini. Uno di loro entrò prepotentemente in camera di Violeta e la trovò vuota. Si diresse allora sbraitando verso il bagno, aprì violentemente la porta e la trovò nella vasca immersa in un liquido densamente rossastro. La bocca era aperta e gli occhi sbarrati, un coltello giaceva accanto alla vasca e ai polsi due vistosi tagli. Non aveva retto alla vergogna, aveva preferito interrompere la corsa della sua vita in quel modo tragico piuttosto che entrare in un mondo che non le apparteneva e del quale non voleva assolutamente farne parte, un mondo lontano da lei anni luce che purtroppo una società capitalista basata sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo cercava di imporle con la forza e la violenza.


La Morte

Mi addormentai sereno,
l’anestesia fu implacabile.
Da molto tempo
aspettavo quel momento.
Tutte le preoccupazioni
sarebbero sparite,
avrei ritrovato
la vita di ieri,
i figli, il sorriso,il lavoro.
Improvvisamente
si presentò lei,
col suo lugubre sorriso
e il suo mantello nero.
Cercava me, mi reclamava.
“E’ l’ora – sembrava dirmi
– dobbiamo andare”.
No. Non può essere.
Non è giusto. Dissi.
Lottai con tutto me stesso
mentre lei era lì,
davanti a me,
impaziente di prendermi.
Alla fine stanca di aspettarmi,
se ne andò a mani vuote.
Aprii gli occhi
e rividi i miei cari.
Per il momento avevo vinto.