L’attesa

A lungo ti ho atteso
per ballare con te
merengue e salse scatenate
a piedi nudi
sul pavimento freddo della cucina
mentre il mare occhieggia
tra la tenda di giunco tremante:
quei ritmi latini che ti piacciono tanto.
L’affresco incompiuto sul muro
aspetta ancora
che la tua mano d’artista
gli dia l’equilibrio e la pace.
I fichi selvatici
Si spaccano di dolcezza
Inutilmente
sull’albero sotto la casa
e una birra messicana ghiacciata
la tua preferita
è pronta a dissetare l’ombra della tua sete.
Un rumore veloce di treno
che passa e ritorna
senza portarmi te
scandisce i miei giorni estivi
e le mie notti insonni.
Tu
il mio sogno lontano
non verrai
perché sei figlia dell’irrequietezza.


Natale

Due cose solo ricordo
dei miei natali bambini:
un’immagine e un sapore,
ma così vivi che mi sembra adesso.
Svegliarsi la mattina di natale
In una stanza gelida e scaldarsi di meraviglia
per un piccolo tenero alberello
uscito dal nulla della notte
sempre lo stesso ma sempre nuovo
nei suoi fili d’argento e nelle lucide sfere colorate.
Accanto, un povero presepio di terracotta
ogni anno più sbrecciato.
E il sapore dolce fluido e caldo
della cioccolata
nella tazza fumante
al ritorno dalla messa solenne.
Leccornìa semplice
da inzupparci i biscotti,
colazione coi fiocchi, colazione di natale.
Prima di quel sapore
C’era un anno d’attesa…


Autunno americano

Ci avevano detto:” Per andare a Washington, vi conviene prendere l’aereo. In
meno di un’ora ci siete”.
Ma io avevo insistito per prendere, invece, un treno. In questa mia breve vacanza
newyorkese, avevo pensato di dedicare un giorno alla visita della capitale
americana, ma volevo andarci in treno, per vedere la campagna.
Non avevo visto altro che grattacieli, splendidi, terrificanti, incombenti.
L’America non era quella, non poteva essere solo quella. E i treni attraversano le
campagne, i paesaggi, i posti veri, reali. Andando in treno, si può vedere come è
fatta una terra da vicino. Non come dall’aereo, che viaggia ad altezze
stratosferiche, non come dalla metropolitana, che corre nelle viscere della terra,
dove non è mai giorno, non come dalle automobili, che sfrecciano sulle
autostrade ed escludono i luoghi più belli, in nome della fretta, della velocità.
Fin da bambina, io amo i treni. Hanno sempre esercitato un fascino particolare su
di me. Un treno significa partire, viaggiare, andare altrove, ma rimanendo a
contatto con la terra. Il treno va, ma è sempre immerso nel paesaggio e, anche se
parti per distaccarti da un luogo, da una persona, lo fai dolcemente,
gradatamente, con la natura che ti corre incontro e che ti abbraccia, protettiva,
consolatoria.
Perciò avevo detto:”Andiamo in treno”. E anche perché avevo letto da qualche
parte che i colori dell’autunno, in questo angolo d’America, sono particolari, e
volevo vederli.
Mia figlia ed io, su un treno, andavamo a Washington. Mia figlia ed io ci eravamo
ritrovate, dopo mesi di lontananza.
I contorni dei grattacieli sfumavano nella nebbiolina del mattino, e sopra si
apriva un cielo incredibilmente azzurro, ripulito dal gelido vento che soffiava
dall’Atlantico.
Eravamo già in campagna, nel New Jersey, lontani ormai dalla metropoli,
immersi nel paesaggio lento, dolce, tranquillo, dove il verde dei prati era ancora
così brillante.
Ogni tanto un paese, fatto di casette allineate, variopinte, col piccolo giardino che
dà sulla strada… Forse è questa l’America vera, umana, dove la gente cucina, fa la
spesa, manda i bambini a scuola, chiacchera col vicino al di là della staccionata…
Poi, improvvisamente, li ho visti, mi sono venuti incontro i boschi dell’autunno:
uno spettacolo incredibile, da mozzare il fiato… Boschi di piante caduche che, in
quella fine di ottobre, stavano cambiando il colore delle foglie, ogni albero a
modo suo, incurante dell’albero vicino.
Reminiscenze scolastiche mi ricordano che il cambio di colore è causato dai
pigmenti azzurri che, ritirandosi per primi dalla pagina della foglia, lasciano gli
altri pigmenti gialli e rossi in tutto lo sfoggio del loro splendore.
Ed erano veramente uno splendore quei boschi di aceri, querce, olmi, frassini,
che, tra l’indifferenza degli abeti sempreverdi, esibivano in maniera sfacciata le
mille sfumature dei rossi, dei gialli, degli arancioni, degli ocra. Erano piccole
boscaglie, tra le quali si aprivano radure dove si nascondevano case graziose e
quiete, erano file scomposte che costeggiavano una strada, un corso d’acqua, una
ferrovia.
I miei occhi si tuffavano in quelle macchie, in quei contrasti di colore, in quegli
incendi che, anche alla luce del giorno, non perdevano nulla delle loro fiamme. E i
gialli, i rossi, i marroni erano come scintille che si alzavano da grandi falò e mi
venivano incontro.
Una meraviglia che temevo potesse finire da un momento all’altro, e invece
continuava, per chilometri e chilometri, interrotta solo da un paio di grosse città.
Non mi sembrava vero tutto quello sfarzo, quello spreco di colore, e solo io stavo
guardando, incredula, dal finestrino. La gente intorno a me, indifferente, stava
mangiando, stava leggendo, stava sola coi suoi pensieri. Mia figlia si era assopita.
Aveva navigato attraverso le turbolenze di una lunga e difficile adolescenza. Ora,
miracolosamente riappacificata, dormiva abbandonata sulle mie ginocchia.
Ci sono stati anni in cui non riuscivamo a parlarci, perché le parole si ritorcevano
contro di noi, lasciandoci sfiniti, diffidenti, amari, arroccati ognuno nella propria
posizione.
Ora eravamo qui, io, la madre, e lei, la figlia abbandonata sulle mie ginocchia,
come quando era una piccola bambina. Tutto ritorna, tutto rifluisce…
La natura, in autunno, esibisce i suoi tesori. La figlia torna dalla madre dopo
lunghe assenze dell’anima. Eravamo in pace.
E, mentre non osavo muovermi per timore di svegliarla, avevo nelle orecchie la
musica di “Mediterranea”. Stavo ascoltando musica in cuffia. Incredibile ma vero
anche questo.
Avevo sempre rifiutato questo aggeggio, avevo criticato i ragazzi che, usandolo di
continuo, finiscono con l’estraniarsi dal mondo che li circonda.
Adesso stavo ascoltando musica, le note di “Bullfighter’s Dream” che, col suo
ritmo, accompagnava lo sferragliare del treno, e “The Cry and The Smile” perché
la vita è pianto e riso, e “Sunrise Dance” perché il sole americano del mattino
danzava tra gli alberi.
Guardavo e mi veniva da piangere, ma non perché fossi triste. Avrei voluto
continuare così all’infinito, avrei voluto che quel viaggio non finisse mai. Avrei
voluto lasciarmi trasportare dalla corrente della vita, come quel corso d’acqua
che, mentre andava, catturava i colori dell’autunno americano e li chiudeva in sé
come in uno scrigno di ricordi.
Dormi, figlia mia, noi siamo qui, insieme, con le emozioni, le sensazioni, i
sentimenti non detti, ma presenti e visibili in un sospiro, in uno sguardo, in un
abbraccio che, ogni tanto ci scambiamo così, senza motivo…
“Per andare a Washington, vi conviene prendere l’aereo” ci avevano detto