Quando tutto ebbe inizio

Lena era nata nell’indifferenza e per questo scelse il silenzio.
Mentre la sua mente costruiva immagini ricche di suoni e parole, la sua bocca si contorceva ferita dallo sfregare di denti pur di non emettere sillaba alcuna.
Fin da bambina scrutava chi le si avvicinava cogliendo nelle persone un’ecatombe di significati. Non comprendeva quel loro assurdo bisogno di comunicare, di uscire da se stessi, di privarsi dell’anima. Ogni volta che vedeva il muoversi delle labbra, il sollevarsi del petto nell’atto di prendere fiato avrebbe desiderato essere un granello di polvere ed insinuarsi furtivamente in quelle aperture.
I suoi occhi rispondevano alle ripetute, banali domande.
Perché non parli? Chissà quale trauma hai subito, piccolina?
I suoi erano occhi che avevano visto troppo, malinconici come l’ultima stella del mattino se pur vivi ma di un’esistenza regalata, non voluta.
– Nascere non è forse stato un trauma?
– Non parlo, OK e allora? Non ho niente di insignificante da dire, può bastare?
Aveva cinque anni quando tutto ebbe inizio nella vecchia casa di famiglia, povera e spoglia.
Una lavanderia a stento illuminata dalla debole luce di una piccola fiammella.
Lena era la piccolina di casa, la femminuccia arrivata dopo tanti anni di sofferenza della madre, tenuta in grembo nel corso di una gravidanza a rischio e messa al mondo dopo un travaglio di trentasei ore.
La sua nascita fu considerata un miracolo.
La sua lotta per la sopravvivenza era iniziata.
Nata con una malformazione cardiaca, Lena doveva fare attenzione ai suoi giochi. Per questo, per la sua timidezza e per l’indifferente cecità socio-affettiva dei suoi genitori, in primis della madre, raramente le era dato modo di frequentare i coetanei dopo l’orario di scuola.
I suoi compagni di avventure diventarono così i boschi, che circondavano la casa malandata, nata con lei; i suoi confidenti, tutte le creature che vi si aggiravano e che li popolavano.
Il suo più grande affetto, il suo confidente, il suo migliore amico: Argo, fide esemplare di meticcio dal pelo lungo e bianco.
Lena aveva circa tre anni quando suo padre una sera varcò la soglia di casa tenendo in braccio un piccolo batuffolo a quattro zampe. Da quel momento i due divennero inseparabili.
Con Argo, la piccola Lena crebbe senza temere la propria timidezza e iniziò a capire che comunicare con parole dai significati stereotipati non era poi così importante, non era prassi per lei, anzi non le interessava.
Interfaccia con il mondo di fuori divennero i suoi verdi occhi, luminosi ma taglienti, caldi ma agghiaccianti, teneri ma disperati. Occhi che sapevano scrutare e cogliere ogni se pur minimo
particolare della realtà in cui era stata catapultata, occhi indagatori, occhi inquisitori, occhi a volte senza vita, senza speranza, rassegnati.
Nel suo mondo di dentro, una mente congegnata per andare al di là di stereotipi e convenzioni e un’anima ribelle, perennemente in fuga dai rumori della modernità di cui gli occhi sapevano filtrare tutti i nonsense.
A cinque anni per la prima volta la piccolina, prendendosi al testa fra le mani, iniziava a ripetere come fosse un mantra:- Voglio morire, io devo morire!
La madre da tempo era caduta in un forte stato depressivo. Stanca nel fisico, labile nell’anima aveva dato la sua libertà per la famiglia d’origine, poi la sua vita per i figli lavorando senza sosta, senza mai concedersi uno svago e, soprattutto, senza mai fermarsi ad osservare, ad ascoltare, a crescere con loro.
Lena coglieva il suo lento deperimento, a partire dal viso che si faceva via via più scheletrico ed informe, con labbra che a stento si aprivano ad accennare un sorriso ed occhi resi opachi dai farmaci.
Lena aveva notato tutto ciò prima del padre e dei fratelli e si era ripromessa che l’avrebbe salvata. Ogni mattina, prima di andare a scuola si presentava in camera da letto dei genitori e aiutava la madre ad alzarsi e vestirsi, accompagnandola in cucina dove le preparava la colazione e poi in bagno dove le pettinava i lunghi e soffici capelli, che raccoglieva in un’elegante coda adornata da un fiocco colorato, da lei stessa confezionato con resti di stoffe variopinte custoditi in un vecchio baule di legno.
Al ritorno da scuola, la madre era seduta immobile sulla stessa poltrona su cui l’aveva lasciata. Il padre lavorava tutto il giorno e non tornava a casa per pranzo; i fratelli molto spesso si fermavano da compagni di classe pur di ritardare il rientro. Così la bimba si metteva ai fornelli e si ingegnava in piatti particolari e sfiziosi, ma la donna non reagiva.
I pomeriggi trascorrevano fra lo svolgimento di compiti assegnati dall’insegnante e i monologhi da lei intessuti con quel fantasma, in cui si stava trasformando la figura femminile che l’aveva generata nonostante l’universo intero si opponesse.
Improvvisamente, una domenica mattina Lena sentì una dolce melodia provenire dalla lavanderia al piano terra. Il sole si ergeva timido all’orizzonte e la sua luce fioca regalava sfumature rosate ad un cielo che si mostrava già terso ed ebbro della vita dei suoi ospiti.
Senza nemmeno infilarsi le ciabatte, attraversò lo stretto corridoio e scese velocemente le vecchie scale di legno scheggiato. Al piano terra, la cucina era stata riordinata e un intenso aroma di caffè si diffondeva al suo interno. La voce della madre intonava arie dalla Carmen di Bizet. Lena timidamente si affacciò alla soglia della piccola lavanderia, dove un esile corpo vestito di bianco, chino sulla vasca di pietra, immergeva la biancheria in acqua, cenere ed aceto. Quando la donna si accorse della figlia e i loro sguardi si incrociarono, la melodia si interruppe e una strana ombra invase la stanza. Lena avrebbe voluto gridare e correre tra le braccia della madre, ma successe esattamente l’opposto; la bimba spaventata si sentì avvolgere in un abbraccio umido, mentre una voce roca, interrotta da un pianto primordiale, le sussurrava all’orecchio: – Voglio morire, voglio morire..,devo morire!
Quelle parole buie si fecero strada nella sua mente e si impadronirono del suo cuore.
Corse in giardino e alzando gli occhi carichi di lacrime al cielo, fece un profondo sospiro; prendendosi la testa fra le mani, nel silenzio delle sue corde vocali ripeté più volte a se stessa:-Voglio morire…Devo morire!
E più non parlò.
Lena aveva scelto il silenzio; aveva deciso che non sarebbe uscita da se stessa, che non si sarebbe privata della sua anima, che non avrebbe permesso a nessuno di infrangere il suo progetto, che non si sarebbe fatta intrappolare, che non sarebbe rimasta in balia di una vita priva di significati.
Rosita De Bortoli


Presenza nei boschi

Si narra che tra i boschi dei colli asolani, un tempo si aggirasse silenziosa una figura femminile.
Qualcuno sosteneva di averla intravista al sorgere del sole, altri al tramonto. Chi ancora in giornate annichilite da un sottile strato di nebbia.
Gli anziani del posto raccontavano ai loro nipoti di averla vista crescere tra l’erba e le rocce, tra radici e rami frondosi degli alberi.
I più piccoli, correndo festosi tra i sentieri, sentivano deboli risate in lontananza e una carezza leggera sulle gote arrossate dal gioco.
Un essere leggiadro, irraggiungibile.
I suoi occhi, come quarzo rosa, osservavano la vita del bosco; cogliendone forme, confini e colori e rifrangendoli in una varietà di sfumature, che avrebbe tenuto chiuse in se stessa.
I suoi orecchi, come corna d’avorio, percepivano suoni e rumori amplificandone la forza delle vibrazioni, delle cui melodie solo lei avrebbe saputo godere.
Una veste di rugiada copriva il suo esile corpo, così leggero da non calpestare, con i piedi nudi, quella terra che l’aveva generata, e per lei radice e fardello.
Le sue mani, dal color madreperlaceo, sfioravano con delicatezza e timore i petali dei fiori, le pagine delle foglie, da cui cadevano gocce di una pioggia passeggera, e accarezzavano le cortecce degli alberi, come fossero il volto di un vecchio saggio. Incuriosite, si soffermavano fra le spine dei rovi mentre si pungevano più e più volte ma senza ritrarsi, tingendo di sottili venature rosse le loro iridescenze.
Al petto un amuleto: una rosa nera con al suo interno un diamante grezzo, spento, intrappolato.
Una notte d’inverno, al cadere di una soffice neve, dall’abitato ai margini del bosco, si udirono urla silenziose provenire dal suo interno; al mattino, un padre e una madre, piangevano la scomparsa della loro unica figlia.
Cristalli di quarzo rosa, schegge d’avorio e petali neri vennero ritrovati lungo il sentiero che portava alla vecchia casa.
Sul davanzale della camera della loro amata creatura, una pietra o così sembrava.
Quando le mani tremanti del padre la raccolsero e una lacrima cadde dal suo volto, bagnandone la superficie irregolare, una luce flagellata emerse piano dal cuore di quella che non era una semplice pietra.
Un diamante di una bellezza accecante.
Un calore improvviso avvolse i corpi dei due anziani coniugi; le mani del padre smisero di tremare, le lacrime ne furono asciugate ed egli abbracciò la moglie.
Fu così che la luce del diamante esplose in una miriade di colori che raggiunsero le stelle, mentre in lontananza un sole timido sembrava non voler rubare il posto alla notte.
E mentre la neve cancellava i ricordi di lei, il padre lanciò lontano quel che gli rimaneva della figlia riconsegnandola alla sua natura.
Rosita De Bortoli