STORIA DI UN RE PAZZO D AMORE

Aveva deciso che la sua stanza reale doveva essere collocata nell’ultimo piano della torre adiacente agli scogli. La violenza con la quale il mare s’abbatteva contro le sue fondamenta gli aveva sempre trasmesso un sentimento che si avvicinava al sublime. Funzionava in questa maniera: a momenti, di giorno, si sentiva forte e invincibile con nel cuore la sensazione che niente e nessuno (nemmeno l’immenso oceano) avrebbe mai potuto abbatterlo. La notte però l’euforia di quella convinzione svaniva.. e stringendosi nel suo letto, sotto le coperte, impaurito pregava alle acque turbate di risparmiare la sua vita almeno per un’altra notte. Prometteva alle infuriate maree: “Sarò buono, domani, via la prepotenza e la viltà. Donerò del pane ai bisognosi e promuoverò la giustizia tra i miei sudditi. Pellegrinerò per la pace e farò un brindisi in nome della verità.” La mattina però, al risveglio, sorrideva all’accorgersi di non aver aperto gli occhi nelle profondità del blu, e continuava allora a regnare sulla miseria e la sciagura di chi aveva fiducia in lui.

Ma questa storia non parla di un Re, perché di re ce ne sono stati e anche tanti, ed ognuno di essi aveva conosciuto la paura e, dopo averla dissolta, è tornato sui propri passi, non più in pentimento, ma ancora più assetato di quel succulento vino che i padri chiamano potere.

Questo re non aveva in sé radicato il pentimento, no questo no, ma l’oceano e tutti i suoi misteri gli avevano provocato una strana metamorfosi. Essere schiavi del mare è come essere schiavi dell’amore. Un cuore abituato al pianto diventa fragile e docile come un battello che instabile sfida la tempesta. Contemporaneamente però, lo stesso medesimo cuore, s’accresce a dismisura e in bontà, ogni suo battito risuona come un tuono e il suo sangue ha il sapore del miele.

Questo io vi narro perché capiate la sua storia che tanto banale e comune può sembrare, ma ricca si presenta di magnificenza e al tempo stesso consueto e pandemico dolore.

 

Mia madre odiava questa torre-Ricordò il Re tirandosi indietro con la sedia, allontanandosi dalla pila disordinata di fogli che stancavano la sua mente- L’odiava perché pensava fosse infestata. Forse non aveva tutti i torti.- Si alzò con fatica. Non solo i fogli e i loro contenuti erano stancanti: c’era qualcosa in più nell’aria che lo invitava a congelare la veglia e a raccogliere nel petto il sonno pacificante. Era presto, ma aveva lavoro da fare. La sua mente era arguta, da sempre. Per questo aveva accettato la corona a giovanissima età, nonostante l’idea non lo entusiasmasse più di tanto. Fare il re di per sé non lo annoiava, anzi.. trovava interessante il meccanismo complesso che reggeva il suo piccolo popolo. Quel giorno però l’aria aveva una consistenza strana e la sua mente lucida e negligente aveva notato questo dettaglio.

Fece chiamare due serve perché gli portassero la colazione, ma non toccò cibo alcuno. Il re conosceva una delle due fanciulle: l’aveva visto crescere e diventare donna. Quante volte scrutando il suo popolo dall’alto nei giorni di festa l’aveva vista giocare con le sue sorelle e aveva condiviso con lei, di nascosto, fugaci momenti di spensieratezza! La fece quindi rimanere e le chiese se aveva fame.

No, signore. Rispose lei semplicemente.

Il Re l’analizzò con attenzione. Avrebbe voluto dirle che era davvero molto bella. Chiederle se era innamorata. E di chi. Avrebbe voluto rassicurarla, prometterle che lui, il Re, non l’avrebbe mai ferita, poteva fidarsi. Era così giovane. Voleva chiamarla, ma non sapeva il suo nome.. ha un nome bellissimo come lei, di sicuro. Pensò. Oh quante cose avrebbe detto in quel momento..

Sua maestà Disse la fanciulla con delicatezza, il pane gli si è raffreddato, vuole che gliene porti un altro?

Il Re osservò un attimo il pane, poi la ragazza e rispose:

No, non voglio dell’altro pane-

Silenzio.

Sei così bella. Mormorò. La fanciulla alzò lo sguardo più impaurito che stupito. Il Re notò che il battito del suo cuore iniziava ad accelerare. Si alzò e si avvicinò alla finestra che dava verso il mare. La fanciulla non lo vedette piangere prima di dargli le spalle e mettersi a correre giù per le scale.

 

 

Il Re era seduto davanti la sua scrivania. Il pensiero rivolto alle parole di sua madre: Un giorno sposerai una bellissima principessa. Avrà i capelli lunghi e luminosi, gli occhi profondi come l’oceano che tanto ami. Il suo canto ti risolleverà e il suo pianto ti sconvolgerà.

Era pomeriggio. La serva era corsa via da ore. Il Re non aveva cercato di fermarla. Aveva chiuso le imposte e aveva ordinato di non esser disturbato per il resto della giornata.

Oggi è un giorno speciale. Si disse, anche se non capiva bene il perché.

Il Re aveva conosciuto quella Principessa di cui parlava sua madre. L’aveva posseduta, aveva accarezzato i suoi lunghi capelli e in quegli occhi aveva navigato allungo. Il suo canto l’ aveva risollevato e il suo pianto sconvolto.

Ma sua madre si era sbagliata su una cosa.

Tra qualche ora sarà il tramonto. Pensò. Poi sarà sera.

               E l aria. L’aria diviene sempre più pressante.

 

 

Tramontava il sole, tramontava nelle acque, tramontava nella schiuma sulla rossastra spiaggia. Conosceva quel rosso, il Re, l aveva visto tante volte in battaglia. Quel rosso che scorreva nelle vene e che così facilmente veniva versato da lame profanatrici.

Il Re era convinto che il rosso di Lei non era il rosso di tutti gli altri. E anche il suo profumo doveva essere quello denso e salino del mare.

Lei di giorno mi coccolerà e mi renderà migliore.

                Lei di notte m’inghiottirà e io in lei diverrò nulla.

Ancora alla finestra, il Re. Il suo volto e le sue lacrime ora vermigli. Morirà quel sole, Madre- disse tra sé e sé- E anche io soccomberò prima nel rosso, dopo nel nero. In quel letto d’amore dove tu mi concepisti e mi partoristi vedrai dal cielo tuo figlio consumarsi per passione.

Respirare quest’aria-finì il re- è il mio più grande tormento.

 

 

Se ci sono spettri in questa stanza, Madre, sono quelli dell’amore. Lo sapevi e per questo volevi che me ne stessi alla larga.

Accese il Re una candela. E vide intorno a sé il condensarsi di fantasmi che dalle penombre lo fissavano. Aumentavano le voci degli spettri come arpeggi disarmonici di un vecchio organo.

 

Siate voi esseri di platino i benvenuti nella mia solitaria dimora. Disse il Re con voce impotente.

Veniamo da te in questa notte di tormenta e furore dei venti per portarti un messaggio, vivente Signore di queste terre. Parlò uno spettro i cui bianchi occhi gli ricordavano la schiuma delle sue spiagge deserte.

Un messaggio? Quindi… quindi siete stati voi, correggetemi se sbaglio, voi ad appesantire l’aria di questa stanza infelice. Voi mi respiravate sul collo, aggravando il mio travaglio, e osservavate insieme a me l’inesorabile trascorrere della giornata. Ora capisco il perché. Dunque ditemi, riferitemi queste sacre parole che son state ragion di lunga e paziente attesa delle Tenebre.

Non hai paura, nobile Signore? Domandò uno spettro alla sua destra, uno spettro la cui carnagione era colorata dai toni delle conchiglie.

Paura? Il Re gli si rivolse con ironia. Io vivo nella paura mio caro spettro di altri mondi. Il timore per me è una dolciastra consuetudine. Avrei da temere, oso immaginare.

Uomo saggio è colui che sa temere e aspettarsi il peggio. Gli rispose lo spettro.

Ho da aspettarmi il peggio, dunque

                No, mio caro e pietoso disgraziato. Se c’è qualcosa che superi il male e la disperazione di ciò che è peggio, e qualcosa che vada oltre il più terribile incubo o il più infelice destino, ecco dunque cosa devi aspettarti.

 

                Non ho paura. Il Re però iniziava a dubitarne. Quella stanza affollata sembrava ingrandirsi e la distanza tra Sé e il suo corpo allungarsi oltre misura. Non c’è niente in questo mondo che non possa sopportare. Il mio corpo conoscerà il dolore finché non ne soccomberà. E anche l’anima mia è pronta all’abisso quando vi si ritroverà spedita. Ripeto, niente di tutto ciò mi spaventa oramai.

Ingenuo essere, parli come se vedessi in noi il marchio del Cupo Mietitore. Non è nostro dovere porre fine ai tuoi giorni desolati, né tanto meno avvertirti del suo improvviso avvicinamento.

Ancora più stupito il Re chiese a quelle anime:

Perché siete salite in superficie allora? Quale demone o quale angelo vi manda?

 

Ogni fantasma sorrise allora, e quel sorriso infernale turbò inesorabilmente l’animo del Re, che incominciava a conoscere il nome della disperazione.

Non è la nostra Signora, la Morte, a mandarci e nemmeno nessun angelo o nessun demone.

                Se non è di un altro mondo allora deve d’essere un vivente! Un vivente vi manda al mio cospetto! Riflettete il Re tra sé e sé. Chi avrebbe mai potuto inviargli tale schiera di anime? Voglio ascoltare le Sue parole. Gli si rivolse.

 

Gli spettri, ancora sorridendo, mossero contemporaneamente la testa bianca in segno d’approvazione.

 

Parlarono, allora.

 

 

L’aurora era vicina. Gli spettri eran volati via da ore e la stanza aveva ripreso la leggerezza dei suoi primi giorni. Tutto era immobile e silenzioso. Le lenzuola sul letto puzzavano di Marsiglia, le carte sul tavolo quietamente riposavano nel buio. Le finestre spalancate lasciavano entrare l’umidità e la freschezza del oceano. La candela del Re, nettamente consumata, rassegnata lasciava morire la sua fiammella indebolita.

Ad un angolo di quella stanza pentagonale, seduto sul pavimento con la schiena appoggiata al muro e lo sguardo perso nel nulla, si trovava il Re. Pareva divenuto un mobile, un oggetto, per quanto placato il suo respiro era ed estatiche le sue membra.

 

Il suo regno iniziava a svegliarsi lentamente. Vi era un mondo oltre quelle mura che stava risorgendo dal buio.

 

La bella fanciulla che il giorno prima il Re aveva trattenuto si alzò dal letto con pigrizia. Sapeva che doveva pagare per la sua offesa al Re. Probabilmente prima che il sole ricadesse all’orizzonte una fredda ghigliottina avrebbe mozzato il suo docile collo.

 

In qualche terra lontana una Principessa dai lunghi e splendidi capelli, dai profondi occhi e dalla voce incantevole si svegliava nella sua cella. Il Re l’aveva rinchiusa in quel posto anni addietro. Anche quel giorno la Principessa si avvicinò alle sbarre che davano sulle praterie morenti, ora impregnate di luce crepuscolare, e mormorò come era il suo solito:

Eppure ti ho amato così tanto.

 

Il Re ignorava la luce che penetrava dalle tende fluttuanti. Aveva appreso la verità. Cosa vi è di peggio di ciò che vi è di peggio nel mondo, nella vita?

Il gallo canticchiò per l’ennesima volta, e i suoi servi nelle stanze del palazzo iniziarono a mobilitarsi e a dare vita all’illusione.

Il Re ripensò a Lei. Lei che non era una principessa e non era una serva. Ripensò al giorno del loro primo incontro. Ripensò al suo contagioso sorriso che mai si spegneva. Ripensò a quel unico e magnifico bacio che tra i due si erano scambiati.

Ripensò all’abbandono. Era viva. Eppure.. il messaggio era stato chiaro. Non esisteva in questo mondo, né in nessun altro, una cura per tale male. Il Re lo sapeva.. Quindi..

 

Lasciò che la marea lo portasse via, lontano, su un’isola immaginaria. Scompose la sua anima nei selvaggi torrenti del destino e sparì il Re, in quell’infinito.


 

ALTEZZE

Ti racconterò una storia..

C’era una volta un albero bello forte e alto, molto molto alto. Così alto che neanche le aquile riuscivano a raggiungerne la cima. Così alto che ti veniva il torcicollo a cercare di osservarlo per intero. Così alto.. che quasi quasi, aveva le vertigini di sé stesso, ma vertigini belle, come quelle che ti assalgono quando fai la capriola sul letto di mamma. E l’albero sfidava tutti.. Le stagioni, i venti, il fuoco, i falegnami.. la gravità, lo spazio..
Nella mia versione dark 2.0 l’albero è un platano intristito, le aquile sono corvi, le vertigini sono nausea. La terra è un cimitero sconsacrato di colli, e dalle penombre un insignificante ma piuttosto fastidioso pipistrello ti osserva in silenzio. E’ così piccolo che non gli daresti due lire, ma è fastidioso, davvero fastidioso. La sfida, questa volta, è contro la vita, la vita dell’albero, è contro le radici che lo tengono in vita. Se un giorno quelle radici.. alzandosi dal manto roccioso che le regge, e poi quei rami scoloriti, agitandosi contro vento, e poi quel torso nudo e rugoso ispirando un boccata di aria quanto basta per..
Era un albero alto bello e forte
Sparso di polvere di dimenticanza
Sfidava la gravità
E correva dietro le cinture dei tropici
Saltellando sulle proprie radici
Spianando le sue foglie giallognole

Diresti che è un po’ storto
e che non sa volare

I pipistrelli gli fanno il solletico
E fa le capriole, inginocchiato di fronte alla vita

Eppure è cosi bello e forte
Alto.
Infinito, e alto.


 

COMMEDIA SENTIMENTALE

Un giardino settecentesco, vestiti settecenteschi, musica settecentesca, io e te che ci intravediamo tra gelsomini, viole, orchidee- Il cielo notturno su di noi si ramifica in archi di legno ed edere, dove l’uva non si asciuga mai, e nelle fontane sgorga a volte il vino schiumoso, a volte l’acqua dissetante. Nelle panchine bianche e fresche ci si sdraia a sentir il dolce gocciolar del ruscello che non conosce fine, e spesso ancora si ode la voce insistente dei giocosi grilli. Allora una risata improvvisa, la tua, il più bel suono che echeggia in paradiso. E mi costringo a zittir quella musica divina, con un bacio, un bacio a occhi chiusi, un bacio di gelsomini e con l’intensità delle rose così, così la tua voce mi invade . La luna, con la sua timida testimonianza, ove prima si nascondeva dietro i veli setosi delle nuvole poi, contagiata dalla gioia, ella scopre le sue gote, per sorridere agli amanti sul verde e il calore.

Staremmo bene.. no?

Correre attraverso strade di campagna, mano in mano, ridendo.

Insieme, magari, innamorati.

E promettendoci che non ci sarà mai niente a separarci.

In piena luce del sole, o nell’ottusità delle fiamme minute.

Svegli, o assopiti intrecciati sull’erba amara.

Senza pensieri, senza domande.

E la fragranza dei giorni primaverili a cancellare i nostri errori.

 

Ma.. cos’è successo..

Verso quali orizzonti i tuoi occhi graziosi protendono lo sguardo..

Nessuna parola, nessun concetto umano, è capace di esprimere

Staremmo bene.. no? Staremmo bene.

I beffardi grilli, gelsomini, viole, orchidee invidiose..

Sfuggendo all’infamia, sotto archi di legno ed edere, come ragnatele infernali

I veli setosi delle nuvole, in fiamme , e la luna con la sua fredda testimonianza..

 

Staremmo bene, no?

Per amore, ingeriamo l’erba amara delle nostre esistenze

E vestiamo i peccaminosi disegni della notte

Danzando con la morte, una musica settecentesca, in un giardino settecentesco.. ardendo, intrecciati, furiosi, indefiniti.

 

Staremmo bene.. no?

Promettendoci.. che basterà un bacio, un bacio a occhi chiusi, un bacio con l’intensità di mille spine, e sangue sulle lacerate labbra, sui petti stregati, e sui polsi corrosi dal dolore..

Registreremo la tua risata, meccanica e deridente, spegneremo ogni altro candore nell’aria

 

E quest’eternità verrà consumata nelle terre desolate, nell’ottusità delle fiamme minute

Nell’oblio.. dei giorni primaverili.

 

Staremo bene..

 

..no?