A forza di essere vento

Dalle fessure d’alluminio spinto dalla pressione sale e cola il caffè nero, un piccolo vulcano erutta annoiato nel monolocale e diffonde il suo aroma intenso e bruciato, dilaga nell’aria come lava nel suolo.

Il vento soffia e porta con se i detriti di alrte parti nel terrazzo e alle finestre, sposta con se le nuvole che ammantano il sole e le ombre che si allungano sul pavimento.

L’assenza di luce per qualche attimo incupisce la stanza che torna a riscardarsi lentamente di luce gialla mentre il vento riprende per mano la nuvola lasciata al sole come un soffice e goffo gatto.

La radio fischietta e tamburella deludentemente nell’ambiente e alle orecchie distratte e il caffè macchia le labbra e arrotonda l’alito, il vento suona meglio degli improvvisati cantanti e poeti e fa cantare un fruscio di foglie d’alloro fiorite.

Un’altra tazza di caffè. Chissà che odore hanni i fiori di caffè?

Un’altra sigaretta. Il fumo gioca isterico nel moto dell’aria e si fa spesso e denso trafitto dalla luce, veste l’ aerea nudità dei raggi solari.

L’ alito si fa pungente nella rotondità del caffè di tabacco lentamente arso.

Il vento impazza e agita gli scuri, secco è il colpo sulle pareti, il vento schiaffeggia il monolocale, i vetri vibrano e poi, sordo e deciso colpo, TAC! Smettono.


Torino-Roma

Offrii il mio pianto al tuo caldo fazzoletto e il mio ascolto alla tua storia di presunto amore.

Sconosciuta, bambola signora di porcellana, il cappello elegante rosso, rubava anni al tuo maturo volto. Le dita, arrossate dalla fredda Torino, confessavano la tua arte, la tua professione. La voce, nitida fuoriusciva come se le note ti avessero insegnato la voce.

Viaggiasti di primo mattino, col primo treno, per vedere nel tardo pomeriggio un caro e vecchio amico, direttore d’orchestra. Debuttava, tra suonatori importanti come i loro strumenti.

Tra le poltrone rosso scuro, abiti eleganti,eri spettatrice del palcoscenico della tua vita, fu così che la fierezza rivolta a lui fu sorpresa dal ricordo dell’ amore di te che eri ragazza, delle sue mani prese a dirigere l’orchestra del tuo corpo.

Le percusssioni nelle tempie e nei polsi, grancassa il tuo cuore, era l’ arpa nei capelli e cornamusa il tuo torace, pianoforte sui tuoi fianchi, innumerevoli tasti sul tuo ventre, tutte le note tra le cosce, i piedi eran leggio, il tuo orgasmo il silenzio che si insinua forte alla fine imposta dalle sue dita strette nei palmi delle mani, un attimo dopo, il crescendo degli applausi.

Alla sera, stanca, tornasti al treno che accompagnò la tua emozione mattutina e riportava la nostalgia di una giovinezza trascorsa. Tornava solitario tra i binari alla tua Roma come una serpe che torna al suo nido. A tenerti compagnia,nel silenzio notturno del vagone, una giovane e le sue lacrime limpide d’ addio. La stanchezza non t’ impedì la cortesia, nel tuo gesto fosti madre come si fa con una figlia. Un fazzoletto fu il sollievo alle sue guance che raggelavano umide alla notte di Torino.

Tornaste con l’identico peso,l’ identico male che può chiamarsi solo amore, tornaste consolate dal silenzio condiviso, carico di suoni,affrancate dalla solitudine condivisa.


Senza tutto

Pensieri contrastanti, fugaci, profondi,
talmente astratti da non avere ne’ forma ne accento
provocano in me nausea
costante, pronta a mutarsi in rigurgito,
vomito, destinato ad apparire come nulla più
che accozzaglia di parole afone, prive di rumore
che perde, si mischia, si autoassorbe.
Questo tormento allo stomaco
provocato da una disordinata orgia
di strumenti nella mia testa
si blocca nella trachea come fiume in piena
prigioniero della diga.
Ristagna, maleodora, si incupisce,
si contamina di fondali melmosi,
si priva di vita
non crea rugiada.
è un fiume senza letto
senza caldo
senza tutto.