Per sempre

Ti ho amata per lunghi secoli
riscaldati dal sole e sommersi di tempesta,
dominati dai venti che hanno sparso nell’aria
calendule in fiore…
Ho rincorso, per te, gli aquiloni trascinati da un bimbo
che fra le tue braccia gioire poteva,
senza crescere ancora…
Ho scalato le montagne più alte,
che han ceduto per me i loro ghiacci
per fartene dono d’un bianco diamante…
Ti ho sognata per lunghe notti,
compagna di luci ed ombre, di fantasmi passati
e future speranze…
Ma ti ho persa nel tempo d’un battito d’ali,
per la follia di proteggerti il cuore,
condannato all’esilio da un tuono rabbioso,
così privato d’ogni tuo sguardo
e del profumo della tua pelle…
Ora sì che è tempo d’inverno…
Sarò cane randagio sotto la pioggia battente,
zoppo d’amore e di più gravi ferite,
solo in cerca di pane per un ultimo pasto…
Sarò un cieco senza bastone,
prigioniero di una stanza
dove il buio nasconde ogni grido,
e spegne il dolore…
Sarò una statua di cera,
persa nel vuoto senza voce,
perché il suono d’ogni parola,
senza te, sarebbe solo un debole canto mortale…


Solitudine

Alza lo sguardo,
afflitto guerriero da lacrime d’alcool,
seppellito da un velo di consunti giornali.
Non più buio nel giorno….
Eremita del cuore condannato al silenzio
di un passato perduto, di dolore sopito,
cedi al nulla il tuo sogno circondato da un mondo
che incurante ti osserva, solitario perdente….
Apri il pugno….
cerca voci confuse tra gli amici lasciati,
tra le sedie di un bar affollato di niente,
dove vuoti bicchieri rendon pieno il domani…
Non c’è cuore sconfitto ,sanguinante spineto,
che non batta rintocchi, bisognoso d’amore.
Prendi il tempo
al nemico destino che distrugge pensieri:
dove anima splende di sorrisi voluti
non v’è guerra, né buio che non porti il mattino…


Scacco al re

«
»

«L’altro giorno lui era lì, davanti a me, con l’aria di chi volesse interrogarmi. Anche adesso, Biagio, lo sguardo del Condor mi mette i brividi solo a pensarci…».
Quell’individuo dal soprannome truce e dall’aspetto inquietante, che da alcuni minuti fissava Andrea mettendolo a disagio, era intento a raccogliere mozziconi di sigaretta da terra, in realtà origliava in modo evidente. Andrea, come tutte le mattine, stava conversando con Biagio, un anziano senzatetto che trascorreva le giornate ciondolando nel parco comunale. Quella panchina in particolare, dove ora stava seduto il giovane Andrea, era diventata il punto di ritrovo degli anziani e dei barboni del quartiere: davanti a quelle assi scolorite transitavano, di prima mattina, impiegati indaffarati e mamme premurose e lo sparuto circolo di sfortunati riusciva ad ottenere di che vivere grazie al buon cuore di quelle persone. Andrea si era trovato in quel posto per caso e lì aveva trovato nuovi amici, molto diversi da lui ma ben disposti ad ascoltare la sua disperazione. A trent’anni aveva appena perso tutto ciò che aveva: era stato licenziato dalla sua azienda di computer, le sue finanze si stavano rapidamente esaurendo e per questi motivi anche sua moglie lo aveva lasciato. Da giorni, ormai, passava il suo tempo su qualche panchina assolata cercando una soluzione, anche estrema, ai suoi problemi. Ma in quel parco altri disperati lo avevano accolto come un fratello…
Biagio era il più simpatico e anche il più saggio del gruppo. Raccontava di essere stato barbone praticamente da sempre, ma non per questo aveva trascurato la sua dignità di uomo: indossava sempre abiti laceri ma puliti, i suoi capelli bianchi erano ben pettinati e aveva il vezzo di portare, nel taschino della giacca grigia (più grossa di almeno due taglie) un fazzolettino di seta cencioso, ma dal tocco vagamente nobile. Quel vecchio, aveva più volte osservato Andrea, aveva inoltre un modo curioso di arrotolarsi a mano le sigarette, recuperando il tabacco dagli scarti trovati per terra. Più di una volta il giovane gli aveva offerto un pacchetto di quelli buoni, ma Biagio aveva sempre rifiutato, distribuendo il pacchetto ai suoi fratelli di sventura. «Dalle a loro le sigarette» ripeteva «ne hanno più bisogno di me…». L’altra cosa che aveva incuriosito Andrea era l’oggetto che il barbone portava al collo, sicuramente di valore: appeso ad una catenina di metallo volgare Biagio teneva, sotto la giacca, un piccolo crocifisso di oro giallo, inciso a mano, avvolto da un filo spinato in oro bianco, lucentissimo. Una vera e propria opera d’arte. Alle domande del giovane, Biagio rispondeva che quello era il dono di una persona che gli aveva voluto bene come un padre, tanti anni fa ed era l’unico ricordo rimastogli…
«Allora, Andrea, quali sono i tuoi progetti per oggi?». «Non lo so, Biagio, sono disperato. Devo trovare i soldi per l’affitto e cercare un lavoro. Non ce la faccio più. Non trovo neanche il coraggio di farla finita, sai? Un colpo alla testa e avrei risolto i miei problemi…». L’anziano rise con tono sarcastico: «Ehi, non essere sciocco! Hai trent’anni e una vita davanti a te, non arrenderti per così poco! Non lasciare che il mondo ti riduca come noi… Guardati intorno: non credi che questi vecchi avrebbero più motivi di te per togliersi la vita? Ragazzo, qui tutti ti vogliono bene!». «Certo, Biagio, tutti meno il Condor, direi!». Il rapace in questione, che poco prima aveva turbato il ragazzo col suo sguardo bieco, altri non era che Alfio, un anziano barbone riconosciuto da tutto il gruppo come il capo assoluto del parco. Si era guadagnato quel nomignolo grazie al cappotto nero sempre calato sulle spalle curve e al ghigno inquietante, messo in risalto dai pochi denti ingialliti e da una vistosa cicatrice che gli solcava l’occhio e la guancia sinistra. Passava le sue giornate giocando a scacchi sulle panchine, il più delle volte da solo. Ogni tanto vagava con la sua scacchiera sgangherata sotto il braccio, in cerca di un avversario da battere. Al parco si raccontava che coloro che venivano sconfitti dal Condor sparissero misteriosamente il giorno stesso. Andrea, più razionale, credeva invece ad una sorta di regolamento tra barboni: se il capo ti sconfiggeva, venivi cacciato dal gruppo…
Mentre Biagio chiacchierava col suo giovane amico, Alfio si diresse verso di loro. «Se ti parla lascialo perdere, Andrea» gli sussurrò il barbone sottovoce «è un tipo pericoloso…». Il Condor ormai era ad un passo. «Salve, ragazzo, bella giornata, vero?». Il suo tetro sorriso metteva in mostra le gengive ossute. «Bravo! Ho sentito per caso i tuoi discorsi sulla vita e la morte: io posso aiutarti, fratello! Vuoi giocare una partita con me?». Biagio intervenne: «Grazie, Alfio, sarà per un’altra volta! Ora io e il ragazzo abbiamo da fare…». Andrea lo bloccò: «Non preoccuparti, Biagio, andrà tutto bene!» gli rispose, per nulla intimorito. In fin dei conti lui era pur sempre un programmatore di computer, molto ben allenato ai calcoli matematici: che cosa avrebbe dovuto temere, da un vecchio barbone vestito come un pipistrello?. «Ok, Alfio, prepara gli scacchi!». In pochi secondi la voce si sparse in tutto il parco, richiamando gran parte dei senzatetto intorno alla cigolante panchina, trasformata per l’occasione nel tavolo della sfida. Il Condor posò al centro della panca la sua scacchiera di legno rudemente intarsiato, estraendone dal ventre i pezzi bianchi e neri. Andrea sussultò: anche le pedine nere, in legno intagliato a mano, avevano un’aria inquietante, come il loro padrone. Le pedine bianche, schierate al proprio posto, avevano un aspetto del tutto normale: dietro la fila di pedoni, dal colore ingiallito, alfieri, cavalli alati e torri dai merli consumati. Al centro il Re bianco con la sua Regina. Di fronte, lo schieramento nero: dietro la fila di pedoni, con le teste di elfi, spiccavano i due cavalli, dalle sembianze di draghi sputafuoco. Gli alfieri erano teschi dagli occhi incavati nel legno ed il Re nero, di ebano levigato, era incappucciato. Ovviamente, ad Andrea toccò il bianco. «A te la prima mossa, figliolo!» disse in tono solenne Alfio, fissandolo negli occhi. Il ragazzo avvertì un brivido di freddo percorrergli le ossa: nonostante fosse un mattino di sole, sopra di loro si erano addensati in pochi secondi nuvoloni grigi, che non promettevano niente di buono. Per i primi dieci minuti Andrea cercò di controllare la tensione, studiando le mosse del suo avversario. Ma il Condor, calmo e inesorabile, gli mangiò in poco tempo gran parte dei suoi pezzi bianchi. Le cose si mettevano male. Un rivolo di sudore imperlava le tempie del ragazzo, incapace di reagire. ”Accidenti!” pensò ”è solo un gioco, in fin dei conti: perché mi sento il cuore in gola?”. Intorno a lui il brusio degli osservatori stava crescendo. Molti scuotevano la testa, fissando Alfio, immobile sulla panchina, che sogghignava. In meno di mezz’ora Andrea aveva perso quasi tutti i suoi pezzi, la partita sembrava compromessa. Prese fra le dita l’unico alfiere rimasto e fece il gesto di muoverlo verso destra, proteggendolo dall’attacco della torre nera. Ma, così facendo, sentì l’impulso di alzare gli occhi davanti a sé: di fronte a lui, dietro ad Alfio, il suo amico Biagio stava scuotendo il capo, in modo impercettibile. In un lampo Andrea sollevò l’alfiere che teneva in mano e lo portò verso sinistra, in diagonale. Biagio annuì chiudendo gli occhi. ”E’ vero!” rifletté il giovane ”perché non ci ho pensato prima?”. «Scacco matto!» gridò al suo avversario, facendo cadere il Re nero col dorso della mano. Alfio rimase impietrito: emise un grido rauco e accecato dalla rabbia, scaraventò a terra la scacchiera con tutte le pedine. Andrea lo aveva battuto, senza sapere quale fosse la vera posta in gioco… Il giovane, mentre riceveva complimenti e abbracci da tutti i barboni presenti, cercò con lo sguardo Biagio, per ringraziarlo del suggerimento. Ma il suo amico sembrò essersi dileguato… Strinse le ultime mani, poi si avviò verso casa. La voce della radiolina di un vecchietto, appisolato sull’erba, gli gelò il sangue: ”…mentre vi trasmettiamo, un fatto miracoloso è accaduto nello stato della Georgia, dall’altra parte del mondo. Nella piccola cittadina di Albany poche ore fa una bimba di cinque anni, sfuggendo al controllo della madre, ha attraversato la strada, gettandosi davanti ad un autotreno che transitava in quel momento. Prima che il pesante mezzo potesse frenare, in meno di un secondo la bambina è stata sollevata per aria e scaraventata sull’erba, dalla parte opposta del marciapiede. Il miracolo è che nessuno sarebbe potuto intervenire… Alcune persone presenti giurano di aver visto un barbone afferrare la bimba e posarla sul prato, per poi svanire nel nulla… Altri testimoni sono concordi nel credere ad una allucinazione collettiva… La bimba, riconsegnata senza un graffio nelle braccia della madre disperata, stringeva nella mano una sigaretta accartocciata a mano e uno strano crocifisso avvolto da un filo spinato di oro bianco… La polizia del luogo ha aperto un’indagine…”.